E fu così che in un pomeriggio di febbraio, dopo un semplice post su Facebook, crollò come un castello di carte il mito dell’Untermensch di destra, privo di cultura, intellettualmente senza spessore e, soprattutto, immeritevole di ottenere spazio nel dibattito pubblico, rilegato nell’eterna fogna tanto cara a certi slogan.
L’occasione per riflettere sul successo dell’offerta culturale non di sinistra nasce da un post dello scrittore Christian Raimo, attualmente assessore alla cultura del Municipio III di Roma.
In primis, permettiamoci di analizzare criticamente quanto ha scritto. Raimo, che di destra non è e i suoi avversari li dovrebbe conoscere bene, mette in un unico calderone – o in un unico fascio, sarebbe il caso di dire – diverse correnti di pensiero certamente riconducibili a un’etichetta “di destra”, ma non per questo del tutto accomunabili, perché “destra” può voler dire il neoconservatore filoamericano come il più classico dei liberali pro-mercato, e al contempo indicare, appunto, l'”anarchico di destra” come il “neofascista”. Insomma, è una definizione piuttosto semplificata, che fa parecchia confusione.
Ma, al di là di ciò, ci sono due punti del suo breve discorso che conviene stressare: dire che i suoi avversari “leggono, studiano, scrivono, formano una classe intellettuale”, significa volergli quasi rimproverare di fare, oggi, ciò che la sinistra (marxista prima, liberale poi) ha fatto per i precedenti ottant’anni, ovvero fondare le basi per edificare un’egemonia, e quindi di un’élite, culturale.
Non vi è nulla di illegittimo in tutto ciò: significa che c’è un pubblico ricettivo verso una nuova offerta culturale, e che oggi, appunto, per i rappresentanti della (fu?) sinistra culturale il discorso dell’avversario troglodita, quello al quale magari limitare il diritto di voto in quanto ideologicamente inferiore, inizia a scricchiolare.
In secondo luogo, Raimo purtroppo rischia di aprire un discorso potenzialmente pericoloso con la sua ultima frase: “sta a chi li contrasta leggere, studiare, scrivere di più, avere più idee e più intelligenza”. Si rischia, infatti, di prefigurare una visione di una cultura, anzi, di più culture, settarie e tra loro incomunicabili, che dovrebbero fronteggiarsi come due eserciti rivali, soprattutto quando è il momento delle urne, invece di fare in modo che entrambe contribuiscano a rendere vivo ed effervescente l’ambiente culturale, senza che una rischi di diventare “giusta” e l’altra “sbagliata”; richiama, in modo sinistro e magari senza volerlo, la logica degli opposti estremismi anni settanta, dove il confine tra la cultura buona e quella cattiva non passava solo dai libri, ma anche dalla musica e dai film – segnali pericolosi in questo senso vengono anche da certi articoli, come quello recente di Furio Colombo, che descriveva il film Il primo re come “fascista”.
Ma Raimo realizza anche che “a sinistra nasce pochissimo”, e non gli si può dare torto. D’altra parte, è lui stesso, nel tempo, ad essersi dato la risposta da solo: già nel suo libro “Ho 16 anni e sono fascista” constatava, non senza amarezza, che l’antifascismo avesse perduto il suo fascino perché incapace di offrire la visione di una società alternativa.
E anche su Internazionale, commentando la sconfitta del PD, ha scritto: In questi dieci anni il disastro più grande a sinistra è stato quello culturale: il Pd, dopo essersi sbarazzato delle ideologie (quella socialista, quella comunista) non è riuscito a trovare una cultura politica di riferimento. [Nel PD] non c’è un intellettuale, una rivista di riferimento, un libro, un’associazione, che sia stata importante nella costruzione della sua identità. La sconfitta più clamorosa per la sinistra è stata quella subita sul piano dell’egemonia culturale.
Come dargli torto? Dal momento che la sinistra ha gettato via quello che era praticamente il suo unico asso nella manica, la critica al capitalismo, per abbracciare una socialdemocrazia post-ideologica che ha coltivato l’illusione di poter coltivare sia le logiche di mercato che i diritti sociali; e al contempo, si è gettata a capofitto in una nuova narrativa post-modernista in cui il diritto e capriccio dell’individuo viene messo prima del bene della società, la critica al capitale e alle sue logiche è stata spesso e volentieri accolta dalla destra, che in molti casi è riuscita a realizzare delle interessanti sintesi di idee un tempo considerate inconciliabili.
Un libro di recente uscita, e da chi scrive estremamente consigliato, Sovranità o barbarie di Thomas Fazi e William Mitchell (Meltemi, 2018, pp. 316) si è posto proprio l’obiettivo di riportare a sinistra il discorso della critica al capitale, al neoliberismo e alla cessione di sovranità. In alternativa, Matteo Renzi ha fatto uscire proprio a San Valentino il suo nuovo libro – del quale ha dovuto interrompere le promozioni a seguito dei guai giudiziari della sua famiglia.
Che vogliamo fare, dunque, di questo mondo editoriale e culturale sempre più forte? Forse Raimo potrebbe accogliere l’appello di Francesco Giubilei su Il Giornale e “organizzare alla prossima edizione della kermesse torinese un dibattito sul ruolo della cultura di destra con i principali attori del panorama culturale italiano e farsi promotore di una mostra sugli editori e gli autori non conformi. Sarebbe un’occasione importante per superare steccati ideologici, pregiudizi e favorire l’essenza stessa della cultura: il dibattito e il confronto intellettuale”.
Non possiamo che accodarci all’appello, anche se difficilmente la piazza torinese sarà aperta come se niente fosse da parte di chi ha tutto l’interesse affinché certi “steccati ideologici” rimangano in piedi. Quando si tratta di egemonia culturale, diventano più muratori di Donald Trump.
(di Federico Bezzi)