La dottrina Responsability to Protect (R2P) e le guerre umanitarie

La dottrina Responsability to Protect (R2P) e le guerre umanitarie

La dottrina del Responsability to Protect (R2P), emersa per la prima volta nel rapporto della Commissione sull’Intervento e sulla Sovranità dello Stato (International Commission on Intervention and State Sovereignty, ICISS) del 2001, basata su principi liberaliriguarda la responsabilità degli Stati e della comunità internazionale di proteggere la popolazione civile contro quattro tipi specifici di crimini e violazioni dei diritti umani: genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l’umanità.

L’idea centrale di questa dottrina tipicamente liberale è che lo Stato non è il solo responsabile del benessere della popolazione. Se fallisce o elude la sua responsabilità, la comunità internazionale deve intervenire, nel pieno rispetto dei principi del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite, R2P coinvolge tre dimensioni: responsabilità per la prevenzione, reazione (con misure diplomatiche, legali e altre specifiche, con mezzi coercitivi come le sanzioni, e con la forza come ultima risorsa) e ricostruzione. 

Background

L’R2P ha origine alla fine degli anni Novanta. Come spiega il sito delle Nazioni Unite, «a seguito delle atrocità commesse negli anni ’90 nei Balcani e in Ruanda, che la comunità internazionale non è riuscita a impedire, e l’intervento militare della NATO in Kosovo, che è stato criticato da molti come una violazione del divieto di usare la forza, la comunità internazionale si è impegnata in un serio dibattito su come reagire alle violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani. Nel settembre 1999, mentre presentava il suo rapporto annuale all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan rifletteva sulle «prospettive di sicurezza e intervento umano nel prossimo secolo” e sfidava gli Stati membri a “trovare un terreno comune nel sostenere i principi della Carta, e agire in difesa dell’umanità comune».

Ha ripetuto la sfida nel suo Rapporto del Millennio del 2000, affermando che “se l’intervento umanitario è, in effetti, un inaccettabile assalto alla sovranità, come dovremmo rispondere a un Ruanda, a una Srebrenica, a una violazione grossolana e sistematica dei diritti umani che offende ogni precetto della nostra comune umanità?».

La sfida è fu raccolta dalla Commissione internazionale per l’intervento e la sovranità statale (ICISS), istituita dal governo canadese, che alla fine del 2001 ha pubblicato un rapporto intitolato The Responsibility to Protect. Il concetto di responsabilità da proteggere traeva ispirazione dall’idea di Francis Deng di «sovranità dello Stato come una responsabilità» e affermava che la sovranità non è solo protezione da interferenze esterne – piuttosto «è la responsabilità di garantire il benessere della propria popolazione».

Il caso libico

La Libia fu il primo caso di «guerra umanitaria» in cui il Consiglio di sicurezza autorizzò un intervento militare che citava la R2P. Deplorando la cosiddetta «violazione grossolana e sistematica dei diritti umani» nella Libia devastata dal conflitto, il Consiglio di sicurezza chiese la fine della violenza, «ricordando la responsabilità delle autorità libiche di proteggere la popolazione», e imponendo una serie di sanzioni internazionali.

Fu proprio con il caso libico che emersero tutte le contraddizioni della dottrina. Innanzitutto, come hanno sottolineato numerosi analisti, viola la sovranità degli stati.  Come spiegano Jennifer Lind e William C. Wohlforth su Foreign Affairs, «i più controversi sono stati i cambiamenti che hanno messo in discussione il principio di sovranità. Sotto la bandiera della “responsabilità di proteggere” [Responsability To Protect], i governi, le organizzazioni non governative e gli attivisti hanno iniziato a spingere un importante rafforzamento del diritto internazionale con l’obiettivo di rendere gli Stati responsabili di come trattano la propria gente.

Potenti alleanze di sicurezza come la NATO e potenti istituzioni economiche come il Fondo monetario internazionale hanno aderito sorretto il gioco, aggiungendo la loro forza alla campagna per diffondere concezioni liberali dei diritti umani, della libertà di informazione, dei mercati e della politica».

La promozione della democrazia nel mondo

La promozione della democrazia, sottolineano, «ha assunto un ruolo di primo piano nella grande strategia statunitense, con il presidente Bill Clinton che parlava di “allargamento democratico” e il presidente George W. Bush che sosteneva la sua “agenda per la libertà”. Gli Stati Uniti e i loro alleati hanno finanziato sempre più organizzazioni non governative per costruire la società civile e diffondere la democrazia in tutto il mondo, offuscando la linea tra gli sforzi pubblici e privati».

«I contribuenti americani, ad esempio, hanno pagato i costi del National Endowment for Democracy, un’organizzazione no-profit che promuove la democrazia e i diritti umani in Cina, Russia e altrove. Intromettersi negli affari interni degli altri stati è un antico vezzo, ma ciò che era nuovo era la natura palese e istituzionalizzata di queste attività, un segno del momento post-Guerra fredda. Come Allen Weinstein, il co-fondatore del National Endowment for Democracy, ha ammesso in un’intervista del 1991: “Gran parte di ciò che facciamo oggi è stato fatto in modo nascosto 25 anni fa dalla CIA».

Uno strumento delle guerre umanitarie

Il problema della dottrina è che, nell’emblematico caso libico, la R2P è stata estesa ad atrocità non ancora avvenute e soltanto potenziali, basate su una propaganda di parte e su una vera e propria guerra dell’informazione. Davvero, come sosteneva il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, Muammar Gheddafi stava per compiere un genocidio a Bengasi? Oppure, le potenze occidentali dovevano giustificare un intervento che aveva ben altre ragioni? A distanza di anni, peraltro, sappiamo quali furono le reali cause della guerra in Libia – e tutto fuorché erano che motivazioni di carattere umanitario. Oggi sappiamo inoltre che Gheddafi non stava architettando alcun genocidio.  

Ma chi stabilisce se siamo dinanzi a una tragedia umanitaria, se non gli Stati la cui valutazione è dettata da meri interessi geopolitici e strategici? «Tale proiezione – osservano Carlo Jean e Germano Dottori in Guerre Umanitarie. La militarizzazione dei diritti umani – è di per Sè del tutto ragionevole. Non si protegge ex-post, ma ex-ante. Questo però allarga la discrezionalità di chi decide se ci si trova di fronte a un’emergenza umanitarie o meno. Questa dilatazione si è prestata alle più disinvolte interpretazioni da parte della coalizioni internazionale che è intervenuta».

«Il caso della Libia è particolarmente imbarazzante, data la rinuncia della comunità internazionale a intervenire in casi molto simili […] Questo ha inferto un duro colpo – forse mortale – alla logica umanitaria sottesa alla R2P, dimostrando – se ce ne fosse stato ancora bisogno! – come essa sia strumentalizzabile e venga di fatto strumentalizzata da parte della power politics tradizionale degli Stati».

L’R2P e l’Egemonia liberale

La dottrina Responsability to Protect emerse in un momento in cui l’egemonia liberale e l’ordine liberale internazionale  imperniato sulla leadership degli Stati Uniti, non erano in discussione. Infatti, la “responsabilità di proteggere” riguarda(va) sì la comunità internazionale, ma a una comunità internazionale, per l’appunto, nella quale la superpotenza indiscussa erano gli Stati Uniti, desiderosi di promuovere la democrazia in tutto il mondo. Oggi, con l’emergere della Cina e il risveglio dell’orso russo, l’America rimane la superpotenza ma il «momento unipolare» può dirsi concluso.

A proposito dell’egemonia liberale, riprendiamo i concetti espressi da John J. Mearsheimer nel suo ultimo libro The Great Delusion. Liberal Dreams and international Realities (Yale Press): «Molti in Occidente, specialmente tra le élite della politica estera, considerano l’egemonia liberale una politica saggia che gli Stati dovrebbero adottare in maniera irrefutabile. Diffondere la democrazia liberale in tutto il mondo si dice sia sintomo di buon senso sia dal punto di vista morale che strategico. Per cominciare, si crede che sia un ottimo modo per proteggere i diritti umani, che a volte sono seriamente violati da stati autoritari».

E poiché la politica sostiene che le democrazie liberali non vogliono entrare in guerra tra loro, sostiene Mearsheimer, «alla fine fornisce una formula per trascendere il realismo e promuovere la pace internazionale. Infine, i sostenitori dell’egemonia liberale affermano che aiuta a proteggere il liberalismo in patria eliminando gli stati autoritari che altrimenti potrebbero aiutare le forze illiberali che sono costantemente presenti nello stato liberale. Queste convenzioni tuttavia sono errate. Le grandi potenze sono raramente in grado di perseguire una politica estera liberale su vasta scala».

(di Roberto Vivaldelli)

 

 

 

 

 

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