Il bilancio dopo due anni e mezzo di presidenza Trump è sconvolgente a tal punto che il giornalista Giuliano Guzzo sul suo blog l’ha sparata altissima: “E’ da Nobel per la pace”. Tralasciando la condivisibilità o meno dell’affermazione, probabilmente un pelo esagerata se si riuscisse a dare al premio una valenza a mandato compiuto, il tema è assolutamente centrato in pieno e l’entusiasmo assolutamente condivisibile: Donald Trump, almeno ad oggi, è il presidente che evita di coinvolgere gli USA nei conflitti.
Il primo da quasi 40 anni a questa parte, se si ritorna a quel Jimmy Carter che tante polemiche suscitò negli ambienti politici yankee per l’indebolimento americano nel contesto della Guerra Fredda. Ovviamente il caso del Tycoon è radicalmente diverso, in un periodo storico in cui gli USA non hanno bisogno di mostrare i muscoli, ma anzi, necessitano di smetterla di impelagarsi in teatri bellici costosi che li distraggono dall’affrontare la complicatissima competizione economica con l’Asia.
Certo i fatti parlano chiarissimo: Siria, Corea del Nord, Venezuela, Iran. Tutti possibili teatri di scontri, in tutti il presidente ha fatto la voce grossa, in qualcuno ha lanciato qualche bomba simbolica senza grosse conseguenze, in tutti si è tirato indietro in extremis evitando l’esacerbarsi o la nascita di una nuova guerra.
Gli ambienti neocon americani volevano, anzi desideravano da morire un conflitto in Siria che deponesse Assad. Il massimo che sono riusciti ad ottenere è stato il lancio della “terrificante” MOAB, peraltro con la perfetta conoscenza dell’azione da parte dei quadri militari russi. Il risultato finale è che Assad rimane al suo posto, l’esercito regolare siriano sconfigge i ribelli moderati e l’ISIS, e la situazione va progressivamente verso la normalizzazione. Con buona pace dei sedicenti “Osservatori siriani sui diritti umani”.
Poco prima dell’elezione di Trump la Corea del Nord non era soltanto uno Stato, ma argomento di dibattito feroce e possibile mira di un attacco militare americano. I test nucleari di Pyongyang, come sempre, la materia del contendere. Minacce, controminacce, sembra che lo scontro sia dietro l’angolo, poi all’improvviso la distensione, le dichiarazioni si fanno meno pepate, infine lo storico incontro a Singapore l’anno scorso: il Tycoon e Kim Jong Un si stringono la mano, inizia un dialogo sereno, irto di ostacoli che i due stanno affrontando ancora oggi. E che i media progressisti si sono affannati a definire un fallimento, ripetendo l’operazione anche per il secondo incontro di Hanoi nel febbraio scorso. Evidentemente non curandosi che aver evitato un conflitto militare sia già un indiscutibile successo, così come il fatto che i due presidenti abbiano ad oggi un dialogo costante e amichevole.
Terzo step, terzo conflitto dribblato, il Venezuela. Washington sembrava orientata a risolvere lo scontro tra l’autoproclamato presidente Guaidò e quello legittimamente in carica, il chavista Nicolas Maduro. Ovviamente appoggiando l’opposizione e valutando l’intervento militare, come suggerito da John Bolton, da qualcuno chiamato il “super falco”, il consigliere della sicurezza nazionale. Trump non molla: sì alle sanzioni economiche al Venezuela, ma niente intervento diretto. Nonostante le dichiarazioni bellicose pure espresse nei contesti pubblici.
L’ultimo caso è quello dell’Iran, sul quale è ancora evidentemente impossibile pronunciarsi. Per ora lo scontro è evitato, ma la questione è ancora calda. I consiglieri di Trump sono praticamente tutti per la guerra. Il presidente annulla l’attacco di rappresaglia previsto per l’abbattimento del drone da parte dei reparti missilistici iraniani. Errore, dice. Ecco perché attaccare “non sarebbe proporzionato e si rischierebbero 150 morti” il sunto. E nel frattempo, c’è sempre Bolton, sullo sfondo, che scalpita.
Toccherà – come sempre – vedere cosa accadrà in futuro. La curiosa dinamica sembra ripetersi con una certa regolarità: dichiarazioni al vetriolo, fasi di tensione, improvvise marce indietro o – al massimo – teatrini militari senza rilevanti conseguenze come quelli imbastiti in Siria.
Che gli ambienti istituzionali storici non abbiano gradito non è un mistero. Come è una curiosa coincidenza che la denuncia di uno stupro che sarebbe avvenuto 23 anni fa ai danni della giornalista Elizabeth Jean Caroll sia spuntata subito dopo la marcia indietro sull’attacco a Teheran.
Forse per il nobel della Pace è presto – anche se si potrebbe fare anche subito considerando il modo in cui fu assegnato a Barack Obama – ma in ogni caso in questi due anni e mezzo l’inquilino della Casa Bianca non ha fatto altro che evitare di coinvolgere gli USA in nuove guerre. L’augurio è che si prosegua su questa strada.
Magari riflettendo su dove saremmo adesso se fosse stata eletta Hillary Clinton, la “prima donna presidente” che anche fuori dai giochi non fa altro che ripetere che sì, lei l’Iran l’avrebbe attaccato eccome.
(di Stelio Fergola)