C’è qualcosa che spinge il Liverpool appena sente l’inno della Champions League. Un’aria psichedelica, un’entità, un’aurea fatta da tanti piccoli particolari. Qualcosa che noi italiani, fino a pochi anni fa, accomunavamo al Milan dell’Old Trafford, il 28/05/2003, e a quello dello Stadio Olimpico di Atene, il 23/05/2007: il DNA europeo.
Un dono riservato a pochi eletti. A chi ha una storia ed una identità alle spalle. C’è una magia che si cela ad Anfield Road, sulla Kop e nelle luci di You’ll Never Walk Alone: ha il potere di emozionare anche gli spettatori calcistici più distratti. Ieri sera, nel momento in cui quasi tutto il Wanda Metropolitano di Madrid al termine dei 90 minuti ne intonava a squarciagola il ritornello, qualunque appassionato non ha potuto che avere i brividi. Me compreso.
Il progetto Liverpool
Quando Sky ha preferito posticipare qualsiasi commento tecnico per gustarsi questo storico momento, Fabio Caressa aveva la voce rotta dalla commozione. Da qui si “capisce” il perché Rafa Benitez, anche da avversario, ogni volta che torna su quel prato verde del Merseyside dopo anni memorabili piange a dirotto. Che sia per un match di Premier League o la commemorazione delle vittime del disastro di Hillsborough del 15/04/1989.
Solo “capire”, perché spiegarlo in parole povere credo sia impossibile. I Reds di Jürgen Klopp sono una vittoria della progettualità che ha saputo rinnovarsi dopo le suggestioni iniziali. Vi è un progetto a lungo termine che ha raccolto ciò che ha seminato dopo tappe fondamentali come la finale di Europa League nel 2016 (persa contro il Siviglia) e un quarto posto in Premiership.
Sono sei “coppe con le orecchie” e un posto indelebile negli annali. Chapeau.
(di Davide Pellegrino)