La Grassa fa a pezzi la sinistra

“Così la sinistra vuole eliminare culture e civiltà”

Oltre la Linea intervista il professor Gianfranco La Grassa, già docente di Economia politica nelle Università di Pisa e Venezia, allievo di Antonio Pesenti e di Charles Bettleheim. Studioso di marxismo e di strutture della società capitalistica, La Grassa è un intellettuale controcorrente, autore di innumerevoli saggi e di decine di libri, tra cui Crisi economiche e mutamenti (geo)politici (Mimesis, 2019).

1 – Massimo Cacciari ha spiegato, in una recente intervista, che la “sinistra”, a furia di inseguire il centro, è finita prigioniera del centro-storico. Al di là dell’opinione di Cacciari, secondo lei perché i partiti che vengono collocati “a sinistra” vengono votati dai centri storici delle città mentre nelle periferie non attecchiscono?

Continuiamo a parlare di “destra” e “sinistra” come in altri tempi quando questa distinzione aveva un effettiva ragione ed una lunga tradizione storica. Non è più così; in Italia, almeno a partire dalla fine della I Repubblica. Tuttavia, non abbiamo al momento altre denominazioni alternative. Le uso perciò ancora, mettendo quasi sempre le virgolette per far capire che i termini sono impropri. I due schieramenti hanno poi divisioni interne, per cui ogni tanto si devono utilizzare pure le definizioni (sempre del tutto approssimative) di “centrodestra” e di “centrosinistra”.

Sia in politica estera che interna – in specie con riguardo a quella economica – non sembrano sussistere tra loro differenziazioni nette, malgrado l’aperto antagonismo (direi perfino odio), di cui non mi sembra ancora ben colto il nocciolo essenziale. Non esiste forza politica che si distacchi da una fin troppo piatta adesione alla cosiddetta “alleanza atlantica” (di fatto la Nato), dove il paese predominante sono gli Stati Uniti, a cui tutti si dichiarano fedeli. In politica economica non vi è alcun reale distacco dall’impostazione liberista.

E’ incredibile la dimenticanza (sembra perfino ignoranza) di quanto accadde poco meno di un secolo fa: la crisi del 1929 (la crisi per antonomasia), il roosveltiano “New Deal” del 1933 e la “teoria generale” di Keynes (1936), che dominò poi in campo accademico fino alla svolta dell’epoca Thatcher-Reagan (di fatto a partire dal 1980). La differenza tra “destra” e “sinistra” è più evidente sul piano, diciamo così, dei “costumi”, delle tradizioni: concezione della famiglia, le differenze di genere, certi orientamenti e abitudini senza dubbio d’altri tempi.

Su questi problemi potrei anche essere più favorevole ai “sinistri”; i quali però poi esagerano, pretendendo l’annullamento delle diversità tra culture e civiltà radicate in aree socio-culturali (che sono ovviamente anche territoriali) decisamente distanti fra loro per una lunga, plurisecolare, storia. A partire soprattutto dal ’68 (e nel mondo detto “occidentale”) certi ceti detti “colti” (da me definiti “semicolti”) e intellettuali (di intelletto “incerto”) hanno teso ad eliminare ogni distinzione e a inneggiare alla pura e semplice (e confusa) mescolanza, dichiarata “integrazione”.

Il fallimento di simile impostazione, la vera sua degenerazione (pericolosissima per il mantenimento di un minimo di coesione sociale), sono ormai manifeste; e stanno provocando particolare rigetto nei ceti più popolari (e meno abbienti), dove una simile “marmellata” alimenta la tradizionale “guerra tra poveri” (dove il concetto di povertà non è, e non può ovviamente essere, lo stesso di cinquanta o cento o più anni fa).

Ecco perché la “sinistra” – che un tempo, tradizionalmente, godeva dei favori dei ceti “più bassi” – è diventata in modo pressoché totale “gente dei quartieri alti”; e quindi dei centri delle maggiori città, dove il costo della vita consente lo stabilizzarsi dei più ricchi. Sempre più i ceti popolari (“periferici”) andranno incontro a difficoltà di vita e saranno difesi invece da quelle forze un tempo dette “reazionarie” e di “destra”.

2) Secondo lei perché la parola “sovranità” è diventata quasi una “parolaccia”, un tabù, per le forze di sinistra? 

La risposta è già implicita in quanto detto in precedenza. In effetti, i “sovranisti” vengono anche detti “populisti”. Sono appunto quelli che hanno capito un po’ meglio le difficoltà cui stanno andando incontro i ceti a più basso reddito e che sono confinati nelle periferie delle città; in specie di quelle maggiori come Roma, Milano, Torino, Napoli, ecc. E’ del tutto ovvio che tali ceti siano i più ostili alla vergognosa operazione di miscelare le diversità (indecentemente definita integrazione dai “semicolti”), che invece rappresenta l’unica strategia conosciuta oggi da questi miserabili avanzi di una fallita “rivoluzione” (solo una “rivolta contro i padri”) per difendere i loro privilegi tramite la già nominata “guerra tra poveri”. Quella detta ormai impropriamente “sinistra” è il pericolo maggiore per il disfacimento non soltanto della nostra ultramillenaria civilizzazione, ma anche di tutte le altre che si vorrebbero “integrare”.

Le “diversità” vanno invece difese e protette; se nessuno si sente superiore ad altri (ma diversi!) e se esiste reciproco rispetto, le differenze sono arricchimento, mentre la mescolanza è appiattimento, perdita del proprio profilo, imbarbarimento e perfino instabilità psichica. L’importante è non fare della “sovranità” un acceso nazionalismo d’altri tempi. Nemmeno però ci si deve raccontare che questa UE (nata assai malamente) va semplicemente cambiata un po’, ma deve restare quale pietra miliare di un percorso “virtuoso”. No, è nata malamente, nel peggiore dei modi e da parte di alcuni che l’hanno piegata ai propri interessi nazionali. Deve essere rifatta radicalmente. Per il momento non mi sembra di vedere nessuno accingersi a quest’opera. Lasciamo comunque il giudizio in sospeso.

3) In questi giorni si parla di una possibile procedura d’infrazione da parte dell’Ue. Naturalmente, il Pd rimprovera al governo di non aver rispettato le regole europee e si è schierato con Bruxelles. Secondo lei cosa dovrebbe fare l’Italia e come interpreta il sostegno incondizionato dei dem a Bruxelles? 

Da mesi e mesi sento sparare cifre (e fandonie) da presunti esperti di economia, da giornalisti dei maggiori (e più indecenti) giornali italiani e stranieri, da politicanti di tutti i generi e fazioni, da società di rating (che si dovrebbe sapere quale imbroglio rappresentino), da istituti quali il FMI e varie banche (anche quella centrale italiana) e da apparati nostrani ma soprattutto da quelli degli attuali vertici della UE. L’Italia viene considerata sull’orlo del disastro finanziario. Solo (aggiungiamo pure quasi) giornalisti come la Maglie e Capezzone, fra quelli che sono in ogni momento in TV, hanno esplicitamente ricordato che si tratta di manovra eminentemente politica (e mai usata veramente finora malgrado alcune minacce).

Tra i politici, se non sbaglio, solo Salvini ha ricordato la stessa cosa. Ho dovuto sentire perfino membri governativi biascicare che no, ci sono possibilità di ancora tenere basso il rapporto deficit/Pil; Tria (ma mi sembra anche Conte) hanno assicurato che si resterà sul 2,1%. Secondo me una vera vergogna, l’ignoranza e/o la malafede di gente che dovrebbe conoscere quanto già sopra affermato in merito al New Deal e all’opera keynesiana. Occorre spesa e ancora spesa; e mandare al diavolo pure il famoso 3%. Ho certo sentito anche quanto correttamente detto da Savona in merito al debito pubblico; nonché reiterate affermazioni degli economisti in quota Lega, fra i pochi che stimo. Tuttavia, vorrei che essi mostrassero una ancor maggiore decisione e dichiarassero più apertamente che le misure dei vertici attuali della UE dipendono solo dalla loro evidente crisi e incapacità di controllare la situazione venutasi a creare negli ultimi anni. Si fa finta di credere che le elezioni europee non abbiano cambiato nulla.

Non posso diffondermi qui sull’argomento, ma il mutamento del clima generale (non solo europeo) è invece evidenziato da mille segnali. E uno, ben rilevante, è stato pure il netto dissidio creatosi all’interno degli Stati Uniti, assai più forte di tante altre volte. Anche oltre atlantico quelli dei “quartieri alti” (che volevano come presidente la Clinton) sono stati battuti da quell’establishment (il meno conosciuto ancora) che è riuscito a convogliare i voti dei ceti “plebei” (cioè popolari) su Trump. E le prossime elezioni presidenziali americane del novembre 2020 saranno un momento cruciale anche per quanto concerne le sorti politiche nella nostra area europea. Questo è veramente il discorso cruciale e che richiede da oggi in poi il lavoro (sia politico che culturale e….. teorico) delle nuove generazioni, ingannate da ormai degenerati organismi dirigenti di questo spento “occidente”.

Aggiungo solo come ultima cosa quanto sostengo da anni. Dopo il crollo del sistema bipolare e una dozzina d’anni di creduto monocentrismo USA, siamo nuovamente in un’epoca di transizione, in cui avanza il multipolarismo. Ci si ricordi del declino inglese di fine ‘800 (non rilevato all’epoca, ma solo dopo alcuni decenni) e della crescita multipolare di allora: gli USA dopo la guerra civile (1861-65), la Germania dopo la legnata inflitta alla Francia del “piccolo Napoleone” (1870-71) e il Giappone in specie dopo aver vinto la Russia nel 1904-5. Ci si ricordi pure della lunga crisi di stagnazione (o quasi) del 1876-95 assai simile a quella qui iniziata nel 2008; e infine di cosa è poi accaduto in tutta la prima metà del secolo XX. Non aggiungo altro.

(La Redazione)

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