Balcani: ieri, oggi e domani. Intervista a Giannicola Saldutti

Balcani: ieri, oggi e domani. Intervista a Giannicola Saldutti

Abbiamo raggiunto per un’intervista Giannicola Saldutti, dottore in lingue e culture straniere, con particolari conoscenze dell’area balcanica e non solo. Ha già collaborato con In Terris, Sputnik, Geopolitica ed Eurasian Business Dispatch ed affinato le proprie competenze viaggiando tra Belgrado e San Pietroburgo.

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Hai avuto modo di conoscere da vicino la Serbia, un paese spesso osteggiato dalla comunità internazionale, che ha recentemente rinsaldato i rapporti con la Russia a seguito dell’incontro Putin-Vucic. Quali sono le ragioni storiche e quelle più attuali che giustificano la vicinanza fra i due paesi?

Il legame russo-serbo è qualcosa difficile da comprendere a pieno per chi vive dall’esterno la realtà quotidiana di alcuni Paesi dell’est. Io stesso, prima di vivere Belgrado, potevo avvertirne soltanto la componente storica, avallata da elementi intuibili anche ai più profani, come la comunanza religiosa, nonché l’influenza di una certa ideologia panslavista.

Se dall’esterno tutto ciò può suonare tanto romantico quanto lontano dalla realtà, qualsiasi visitatore attento potrebbe subito rendersi conto di quanto in Serbia la “mission” della Russia (ultimamente incarnata nella figura di Putin, l’uomo forte archetipo dell’immaginario politico russo) sia realmente nel cuore del popolo. “Iste boje, ista vera” ossia “stessi colori, stessa fede” amano ripetere i serbi, alludendo ai colori delle bandiere dei due Paesi e alla fratellanza ortodossa.

I sentimenti a Belgrado verso Mosca sono così intensi anche perché la Serbia ha sempre sofferto di una sorta di “sindrome dell’abbandono” nei confronti dell’Europa: nella narrazione nazionale, proprio il sacrificio serbo ha consentito al continente europeo di resistere alle invasioni ottomane, in un kulturkampf Oriente-Occidente che ha forgiato l’identità nazionale di serbi, croati e sloveni.

La vicinanza politica, diplomatica e militare nel corso della storia tra Mosca e Belgrado è cosa nota, ciò che è meno noto risulta essere l’effettivo peso specifico di questa intesa storica collocata all’interno delle dinamiche preoccupanti che stanno interessando i Balcani oggi. Nonostante l’influsso culturale russo in Serbia sia sempre notevole, dal punto di vista economico e militare i numeri non possono dirsi ancora rilevanti per considerare Belgrado una vera costola di Mosca.

Il recente, seppur breve ed informale, avvicinamento tra Putin ed il Presidente kosovaro Thaçi (ricordiamo, non riconosciuto dalla Russia) preoccupa non poco la Serbia, politicamente sempre più isolata nella regione, zavorrata nelle sue iniziative dalla questione del Kosovo, nonché dalla crisi economica.

In poche parole, è “facile” per la Gazprom finanziare le opere di restauro dei grandi monasteri ortodossi serbi (come sta accadendo con San Sava), nonché stringere importanti accordi con la NišGaz per il transito del TurkStream. Tutt’altra cosa per Mosca è investire realmente per appoggiare di fatto la Serbia in un’operazione di recupero delle sue vecchie ambizioni quantomeno rischiosa, vista la partita geopolitica che si sta giocando nei Balcani.

Tutt’oggi l’area balcanica rappresenta un campo di battaglia importante, dove si scontrano diversi interessi geopolitici. Com’è cambiata secondo te la situazione in seguito alla dissoluzione della Jugoslavia: in meglio o in peggio?

La dissoluzione della Jugoslavia ha contribuito senza dubbio ad indebolire l’economia dei vari Paesi subentrati nella scena internazionale già vittime di una fase recessiva dalla morte del Maresciallo Tito, nonché di un conflitto fratricida che ha distrutto i centri produttivi della regione. Il processo di “balcanizzazione” dell’area (obiettivo mai nascosto dalle alte sfere Usa, come nel caso di Brzezinski) si è rivelato senza dubbio vantaggioso per le potenze che ancora oggi ripongono ambizioni sull’integrazione dei Balcani in Europa.

Sia Zagabria che Belgrado, le eredi principali dell’esperienza jugoslava, però, non hanno mai dimostrato negli ultimi 20 anni di poter realmente decollare in qualità di Paesi-guida, contraddistinti da un’economia debole, vittime di una transazione verso il libero mercato dai contorni molto complessi (come dimostrato dal caso Agrokor, marchio leader nel settore dell’approvvigionamento alimentare in notevole difficoltà). Croazia e Slovenia sembrano essere cadute in una indefinita orbita austro-tedesca, separate dalla Serbia (strategicamente sempre più accerchiata dalle strutture Nato presenti in Croazia, Albania e Montenegro) tramite il cuscinetto rappresentato dalla Bosnia Erzegovina.

A rendere il quadro ancora più complesso, l’ottomanismo di ritorno (spesso veicolato dall’estremismo religioso) registrato nella componente mussulmana autoctona e nelle aspirazioni della comunità albanese sia in Kosovo che in Macedonia, Paese vittima di una vera e propria crisi di identità. L’impressione generale, dunque, non è delle migliori: la recente Yugo-nostalgia, così come un ritorno ad un nazionalismo inteso in senso deteriore, è giustificata da un sentimento di sconforto largamente diffuso nelle sei Repubbliche. Sarebbe un grave errore, per l’Occidente, distrarsi e sottovalutare l’attuale stato economico-sociale della regione.

Tante questioni etniche, religiose e geografiche sono irrisolte, come ultima la vicenda “Macedonia del Nord”. Dobbiamo aspettarci ulteriormente un effetto domino come già avvenuto in precedenti storici?

Il recente accordo di Prespes, che sembra aver risolto il dilemma della Macedonia del Nord, ha come scopo ultimo lo sblocco di una situazione che ha contribuito a zavorrare da tempo le politiche strategiche dei Balcani meridionali: la diatriba sul nome della Macedonia FYROM. In tal modo, l’ingresso di Skopje nelle strutture Nato e nella Ue è libero da ostacoli. Tramite il processo di Berlino, le forze occidentali sembrano voler affermare una sfera di influenza sulla regione prima che possa farlo una Russia sempre più orientata all’utilizzo di metodi asimmetrici e non convenzionali.

Non a caso proprio Mosca risulta essere la prima forza contraria alla ratifica del trattato di Prespes. In molti ritengono che l’integrazione dell’intera penisola balcanica nella Nato sia la manna dal cielo che contribuirà a stabilizzare definitivamente la regione. Mi permetto di andare controcorrente e di disegnare uno scenario ritenuto dai più poco probabile: una Serbia completamente accerchiata da strutture militari ostili (a maggior ragione se la Nato dovesse -cosa probabile- avallare le istanze albanesi in Kosovo) potrebbe sfogare la sua frustrazione aizzando la Respublika Srpska di Bosnia, andando ad alterare il fragilissimo equilibrio stabilito a Dayton, un equilibrio che potrebbe essere tacciato di precarietà, ma che ha quantomeno garantito una stabilità in una regione dove l’intervento della comunità internazionale è risultato necessario per fermare una carneficina.

La futura stabilizzazione passa attraverso il monitoraggio continuo di una Serbia mutilata dal punto di vista territoriale, privata delle sue ambizioni ed umiliata da una crisi economica che sembra non avere fine. Le proteste contro Vučić non sembrano diminuire, la sua immagine presso l’opinione pubblica serba è fortemente compromessa (non di rado ho sentito i belgradesi additare grossolanamente il Presidente come “spia dell’Occidente”), l’ovazione riservata a Putin lancia un messaggio chiaro: Belgrado è in forte ricerca di riscatto.

L’umiliazione ricevuta dal Paese in occasione delle commemorazioni del primo conflitto mondiale a Parigi (con un Vučić ignorato dai leader mondiali, nonostante il sangue versato dal popolo serbo nel conflitto del 14-18), il Montenegro nella Nato, le forze di polizia kosovare che diventano esercito, lo sconfinamento di Gazivode: se qualcuno ha pensato di risolvere la questione balcanica castrando definitivamente Belgrado sta commettendo, a mio avviso, un errore grossolano che potrebbe far esplodere una situazione già arrivata ad un buon punto di silenziosa ebollizione.

Mi permetto, poi, di esprimere un’altra considerazione: tutti danno per scontato che l’adesione compatta alla Nato risolverà i conflitti e limerà le spigolosità dei Balcani trasformando Paesi storicamente rivali in ragionevoli alleati. I recenti screzi nell’Egeo tra Atene ed Ankara, però, suggeriscono il contrario. Due membri della Nato non hanno ancora definitivamente risolto la questione riguardante la sovranità cipriota, mentre gli ultimi avvicendamenti in testa al Ministero della Difesa greco tradiscono una tensione crescente. Siamo, dunque, proprio sicuri che un’Albania integrata nelle strutture Nato rinuncerà alle proprie ambizioni su Kosovo e Macedonia?

Spesso viene ignorato dalla stampa che in territori come il Kosovo vengono praticate economie di predazione, che vanno dal traffico di droga a quello di organi senza dimenticare che questi luoghi rappresentano una vera e propria fucina di jihadisti.

La questione del Kosovo rappresenta una delle più singolari nell’arena della politica internazionale contemporanea. Al momento, Pristina è la rappresentazione della vittoria militare, politica e demografica albanese nell’area, vittoria pienamente avallata dagli Stati Uniti d’America. In tempi non sospetti l’ex Segretario di Stato Margaret Albright ha reso nota la seguente formula: “quanto fatto in Kosovo, onestamente, non fu legale, ma fu giusto”.

Questa alquanto strana nonché pericolosa interpretazione del diritto internazionale alla maniera “statunitense”, adottata in un periodo di incontrastato dominio unipolare, ha contribuito ad aprire un precedente che potrebbe rivelarsi quantomeno problematico portato nel mondo multipolare. Non a caso molte voci degli ambienti diplomatici russi hanno, a mio avviso con buona ragione, menzionato il Kosovo per legittimare quanto fatto in Crimea nel 2014.

Non è escluso che la singolare “formula Albright” possa creare fortissimi problemi alla stabilità mondiale futura, nel caso venisse applicata da qualsiasi altra potenza (come la Russia nel suo estero vicino o la Cina nell’Asia-Pacifico) che si sentisse determinata a farlo per perseguire i propri interessi in maniera unilaterale attraverso l’uso della forza a livello regionale.

In ogni caso, ormai il Kosovo è una realtà consolidata con la quale Belgrado si vede costretta a fare i conti, in un esercizio di realpolitik che è sempre risultato di difficile esecuzione per la politica serba. La stabilizzazione dei Balcani, a mio avviso, prima di ogni integrazione politico-militare, passa dallo sblocco dell’impasse diplomatico Pristina-Belgrado (con la Serbia che riconosce ufficialmente Pristina ricevendo in cambio il controllo delle municipalità serbe settentrionali) e da un’operazione di “bonifica” nonché serio ripristino dello stato di diritto in Montenegro e Kosovo, dove il potere delle bande ed il livello delle attività di contrabbando e spaccio raggiungono livelli preoccupanti per gli standard regionali.

Le potenze occidentali si stanno preoccupando di dare ai kosovari delle forze armate, ma al momento non sembrano preoccuparsi di quanto bolle in pentola a quelle latitudini: Macedonia, Albania, Bosnia e, appunto, Kosovo rappresentano l’arco immaginato dalla Turchia (membro Nato, è bene ricordarlo) per far leva sulle istanze neo-ottomaniste promosse da diverse Ong, organizzazioni politiche ed istituzioni religiose pilotate da Ankara, già resesi protagoniste di una massiccia sponsorizzazione del jihadismo in area balcanica.

Le istanze albanesi potrebbero trovare nelle mire di Ankara un ottimo alleato, non solo dal punto di vista ideologico, ma anche economico. Tutti questi fattori dovrebbero far riflettere, in primis, l’Unione Europea. All’inizi degli anni ’90 l’Occidente, preso dalla dissoluzione dell’Urss e dalla guerra in Kuwait, abbassò il livello di guardia, sottovalutando la situazione sociopolitica della Jugoslavia. Bisogna evitare che l’estremismo terrorista dello Stato Islamico, la crisi libica e la guerra in Siria contribuiscano a farci distrarre, illudendoci nel pensare che la storia dei Balcani possa fermarsi agli accordi di Dayton.

(di Emilio Bangalterra)

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