La sconfitta di Corbyn e la dura lezione per la sinistra

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È accaduto di nuovo. Per mesi il tamburo battente della stampa mainstream ci aveva quasi convinto che i britannici ci stessero ripensando. Un Primo Ministro, Theresa May, non all’altezza della gravità della situazione. Un Parlamento, privo di una chiara maggioranza, incapace di dare seguito alla volontà espressa nel referendum del 2016. Un partito di maggioranza relativa, quello conservatore, dilaniato al suo interno dal fuoco incrociato dei sostenitori del Leave e del Remain. E dietro l’angolo lui, Jeremy Corbyn, leader dei laburisti, che dal 2015 aveva assunto la guida della sinistra inglese con una linea politica di netta discontinuità rispetto al “New Labour” di Blair e Gordon Brown.

Chi è Jeremy Corbyn

Un astro nascente, con alle spalle in realtà una lunga carriera nel sindacalismo e nell’attivismo anti-nucleare prima, nei laburisti poi, ma sempre come “backbencher”, cioè al di fuori del direttivo di partito e spesso anzi in contrasto con esso. Nonostante un passato euroscettico, Corbyn si era speso a favore del Remain, perdendo quella sfida e rischiando di perdere anche la leadership, dopo che il gruppo parlamentare laburista aveva approvato una mozione di sfiducia nei suoi confronti.

Confermato nel settembre del 2016, aveva guidato la sinistra nelle elezioni politiche del 2017, incautamente volute dalla May, conquistando circa il 40 % dei consensi, insufficiente a governare ma che vanificava le aspettative dei conservatori di rafforzare la propria maggioranza in Parlamento. Una parabola che, seppur tra alti e bassi, appariva ascendente in vista delle nuove elezioni generali anticipate, ancora una volta volute dai conservatori di Boris Johnson, successore dell’evanescente May, leader certamente più discusso e discutibile, ma anche più imprevedibile.

Mainstream vs Paese reale

Le elezioni dell’altro giorno hanno dato ragione a Johnson e hanno smentito la narrazione della stampa. Ancora una volta, quando è al popolo sovrano che viene dato modo di esprimersi e non all’eterea ed eterodiretta voce della “società civile”, è il Paese reale a prevalere, ben più complesso, poliedrico e profondamente lontano dagli attivisti che davanti Westminster invocavano un secondo referendum, dalle suggestioni (o illusioni) dei Millenials, dagli interessi della finanza e della City.

Johnson è un leader, come dicevamo, discutibile da un punto di vista sovranista, soprattutto per quel che concerne la politica economica e il posizionamento in politica estera. Ma ha avuto dalla sua parte il perseguimento chiaro e coerente di un obiettivo: Brexit, prima di tutto Brexit, a tutti i costi Brexit. E per farlo non ha esitato a chiedere nelle scorse settimane la chiusura di un Parlamento apatico e inconcludente (procedura sì inconsueta, ma a differenza di quanto urlato dai progressisti, del tutto legittima e legale), a rischiare nuove elezioni anticipate, e accettare lo scontro con i laburisti.

Nella sconfitta di Corbyn hanno giocato come in tutte le elezioni tendenze generali sommate ad altre squisitamente locali e nazionali. La geografia elettorale britannica del 12 dicembre ha riproposto ancora una volta, infatti, quella dinamica centro-periferia che si sta ripetendo in tutte le democrazie liberali dell’Occidente. Una dinamica che oramai non si focalizza più tanto sullo scontro mondo urbano-mondo rurale, quanto su quello tra Capitale e resto del Paese, e che meriterebbe un’analisi più approfondita. Corbyn prevale solo nella City (e neanche ovunque), subisce una dura lezione nell’Inghilterra profonda degli shire ma quel che peggio perde anche nei distretti industriali, tradizionale serbatoio elettorale della sinistra.

Non è semplicemente una rivolta delle campagne “tradizionaliste” alle elite “urbane”. Interi settori operai si sono spostati verso il partito conservatore, insensibili, sembrerebbe, al messaggio “socialista” del leader laburista. Johnson è riuscito a monopolizzare la tematica delle elezioni proprio dove voleva, cioè la Brexit. Lui, come Trump, conservatore ma outsider, inviso a molti tra i suoi stessi compagni di partito, dal linguaggio “politicamente scorretto” e una personalità esuberante,

Corbyn sconfitto: non bastano i temi sociali

Ci sono, tuttavia, alcune considerazioni di carattere locale nella sconfitta di Corbyn che assumono di riflesso una portata generale, e che dovrebbero far riflettere anche il campo sovranista. Non è la sconfitta del suo programma di “protezione sociale”e di un maggior ruolo dello Stato nell’economia. Il leader laburista ha pagato piuttosto la mancata presa di posizione sul tema della Brexit. Un atteggiamento ondivago tra la richiesta di un secondo referendum, per accontentare i blairiani filo-europeisti all’interno del Labour, e la proposta di “Soft Brexit” all’interno di un programma di “New Deal” progressista, che cercando di accontentare tutti ha finito per non convincere nessuno. Ed questa la domanda che il campo sovranista, che per sua natura si propone il superamento della logica destra-sinistra di matrice novecentesca in favore di una dinamica nuova, quella comunità-globalismo, ma che per ragioni di necessità si sta spesso appoggiando su quelle forze di destra più sensibili a messaggi identitari, dovrebbe porsi: quanto è salutare la mancanza della Sinistra politica?

Una sinistra che, anche quando gattopardescamente (e maldestramente) cerca di ritrovare le ragioni della propria esistenza e sopravvivenza recuperando alcune tradizionali tematiche “socialiste”, non riesce a uscire dal vicolo cieco in cui essa stessa si è cacciata, diventando la testa di ponte del globalismo e il maggior custode dello status quo post 1989. Assistiamo a continue operazioni di maquillage ideale che vorrebbero salvare come si suol dire “capra e cavoli”, quando dovrebbe essere evidente l’impossibilità di qualsiasi progetto di intervento regolatore dello Stato se non si colpisce al cuore del problema, la gabbia europeista che del globalismo è solo una succursale. Che si tratti di Corbyn, di Sanders o di Pablo Iglesias,

Qualsiasi programma di “protezione sociale” che non metta in discussione, o quantomeno cominci a mettere in discussione, lo status quo, si rivela essere una “rivoluzione della cipria e del costume” privo di ogni volontà di trasformazione sociale. Poco credibile, ipocrita quando non apertamente truffaldino. La lezione di Tsipras in Grecia è sempre dietro l’angolo.

Certamente, questo significherebbe per la sinistra un’epocale marcia indietro rispetto all’indirizzo degli ultimi 30 anni. Eppure, oggi più che mai sarebbe necessario l’incontro tra una vocazione, se non socialista, quanto meno sociale, che ridia peso al ruolo regolatore e di indirizzo dello Stato nelle linee fondamentali dell’economia, e una vocazione identitaria, nazional-popolare e sovranista.

La transizione che a molti pare inevitabile verso una nuova dinamica politica Comunità-Sovranità vs Individuo-Globalismo ha in effetti un disperato bisogno dell’apporto di quelle tematiche tradizionalmente appartenute alla Sinistra, per far sì che il programma di protezione della Destra, con annessa rivalutazione del ruolo delle regole, della legge e dell’identità, non si trasformi di fatto nella legittimazione dello status quo sociale nel tradizionale motto “Ordine e Legge”. Insomma, quella legittimazione che d’altro canto compie anche la Sinistra quando ripropone ambiguamente le proprie tematiche tradizionali ma in un contesto di europeismo acritico e ideologico, ambientalismo isterico e demofobia classisista (e perchè no, oramai dichiaratemente razzista). Se non si scioglie quest’ambiguità di fondo, tutti i Corbyn del mondo saranno destinati alla sconfitta e a piangere lacrime di coccodrillo il giorno dopo le elezioni.

Pragmaticamente, è da accogliere benevolmente la vittoria di Johnson, perchè in mancanza delle condizione suddetta, tutto, ma proprio tutto contribuisca di avvicinarsi anche solo di un millimetro all’obiettivo finale, ancora lontano, è un dato positivo. Pragmaticamente, proprio come lo è stato il popolo britannico nel voto del 12 dicembre. Un voto che non ha solo confermato la volontà di Brexit da parte dell’elettorato già a favore del Leave. Erano oltre due milioni, tra neo elettori o comunque under 25, i giovani sui quali la propaganda europeista contava di recuperare posizioni.

Il risultato elettorale sembrerebbe dimostrare come questo bacino elettorale si sia espresso in linea con la tendenza generale. E soprattutto, come distretti ancora nel 2016 moderatamente a favore del Remain, abbiano optato per il voto conservatore chiaramente pro-Brexit,pur di chiudere una partita interminabile, dalle tinte a volte surreali, a volte grottesche. Nell’era dei Trump e dei Johnson, delle personalità “forti”, “scorrette” e fuori dagli schemi, l’ambiguità della sinistra non premia. È il voto pragmatico a prevalere.

(di Daniele Dalla Pozza)

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