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La rielezione di Evo Morales in Bolivia: una disamina politica

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La rielezione di Evo Morales a Presidente della Bolivia è un recente fatto di cronaca estera, che merita una riflessione. Stanti soprattutto le peculiari condizioni politiche di quella zona del mondo.

 

Morales rieletto in Bolivia: i numeri

Il continente latinoamericano è alle prese con una serie di proteste popolari non del tutto accomunabili tra loro. In particolare, le elezioni generali in Bolivia hanno generato il malcontento dei sostenitori dell’ex presidente Carlos Mesa per via della vittoria dell’uscente Evo Morales. Per il leader indio di origine aymara si tratta della terza rielezione, di sicuro la più sudata.

I dati parziali sembravano, infatti, decretare l’inevitabilità del secondo turno previsto per il 15 dicembre tra i due maggiori sfidanti, che risultavano divisi da una percentuale inferiore a quella necessaria a Morales per chiudere i giochi al primo turno. La sospensione dei dati che pervenivano dalle sezioni rurali, storicamente favorevoli al leader socialista, da parte del Tribunal Supremo Electoral (Tribunale Supremo Elettorale, TSE) ha generato la rabbia dei sostenitori di Mesa, sfociati in scontri fisici e incendi di sedi istituzionali.

La conclusione dello spoglio, arrivata con colpevole ritardo nonostante le forti nevicate che hanno rallentato l’arrivo delle schede dai seggi montani, ha incoronato Morales con il 47,1% dei consensi, contro il 36,5% del candidato di Comunidad Ciudadana (Comunità Cittadina, CC). Poco più del 10% di scarto necessario, in base alla legge elettorale vigente, per scongiurare un secondo turno che avrebbe complicato non poco la corsa a palazzo Quemado del leader del Movimiento al Socialismo (Movimento per il Socialismo, MaS).

 

La vittoria e l’ottica della riscossa popolare

Anche in Bolivia, infatti, la chiesa evangelica inizia ad avere numeri significativi tanto da far giungere il proprio candidato di riferimento in terza posizione. Il pastore evangelico Chi Hyun Chung ha sfiorato il 9% dei voti, superando il ben più accreditato senatore liberale Oscar Ortiz fermatosi al 4% ed entrambi avrebbero portato in dote a Mesa, con apparentamenti ufficiali, un tesoretto dal quale pescare i voti necessari a ribaltare l’esito della tornata.

A far riflettere sulla situazione boliviana sono, però, altri fattori riscontrabili anche negli altri Paesi in cui il socialismo del XXI secolo ha dato vita ad una riscossa popolare senza precedenti. La decisione di Morales di ricandidarsi per un quarto mandato, in barba ai dettami della Costituzione, scritta e varata dalla sua stessa maggioranza, e ad un referendum popolare perso nel febbraio 2016 è figlia degli avvenimenti avutisi nel resto del subcontinente negli ultimi quattro anni.

 

Morales in Bolivia è emblematico della politica latinoamericana

La certezza di una prosecuzione del lavoro intrapreso dagli esecutivi rivoluzionari in America latina si ha solo se è il leader di riferimento ad intraprenderla. Il passaggio di testimone non funziona (Maduro non ha dimostrato le stesse capacità di Chavez in Venezuela, e lo stesso può dirsi di Dilma Roussef anche prima dell’impeachment subito in Brasile). Oppure, esso non avviene per la sconfitta del delfino designato (Daniel Scioli in Argentina dopo i due mandati della Kirchner) o il tradimento di questi una volta eletto (Lenin Moreno in Ecuador).

Sulla democraticità del percorso intrapreso da Morales in Bolivia c’è, quindi, poco da discutere, ma è sui motivi e i risultati di queste scelte che bisogna porsi degli interrogativi. Uno Stato nel quale si continuano a tenere elezioni ad ogni livello, da quelle comunali alle presidenziali passando per le legislative, può essere annoverato tra le dittature solo perché il presidente continua a riproporre la propria candidatura?

La mancanza di alternative e l’incapacità di creare una classe dirigente figlia degli anni della rivoluzione attuata restano gli atavici problemi dei movimenti socialisti latinoamericani a cui prima o poi anche Morales in Bolivia, il cui nuovo mandato terminerà nel 2025, ed il leader sandinista Daniel Ortega in Nicaragua dovranno trovare una soluzione.

(Luca Lezzi)

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