Lavoro: più pause e più vacanze, anche il Medioevo era meglio di oggi

Lavoro: più pause e più vacanze, anche il Medioevo era meglio di oggi

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Spesso, in un qualunque dibattito o considerazione di senso comune delle persone, si addebitano al periodo medievale una serie storture e brutture di inenarrabile arretratezza, facendo leva sulla definizione rinascimentale (ed assolutamente e pienamente contestuale al periodo in cui è stata partorita, cioè oltre cinque secoli or sono) a partire dalla quale quel periodo viene definito “Secoli Bui”.

Una considerazione parziale, indebita, denigratoria ed invero mistificante rispetto a quello che invece ha lasciato in eredità al mondo ed all’umanità il Medioevo vissuto dall’Europa: il fascino di una rinascita dalle ceneri dell’Impero Romano; lo scontro ed incontro fra regni, ducati, repubbliche, comuni; la preziosa conservazione libraria dei classici in isolati monasteri; lo sviluppo di una spiritualità straordinaria ed ineguagliata nella storia del Vecchio Continente; le Belle Arti e la Teologia, ed ancora si potrebbe proseguire.

Senza voler tediare ulteriormente il lettore, vale la pena evidenziare un aspetto sorprendente, che senza ombra di dubbio non può che indurre in riflessione rispetto alle peculiarità dei tempi attuali, e che non riguarda affatto monarchi, dogi od eserciti, bensì la stringente quotidianità di qualunque uomo comune: rispetto alla contemporaneità, nel Medioevo si lavoravano meno ore al giorno ed in generale nel corso dell’anno, e si avevano molte più ferie, molto più tempo libero.

È ciò che emerge da una ricerca dell’economista e sociologa americana Juliet Schor, esperta nello studio sulle tendenze dell’orario di lavoro, sulle relazioni tra famiglia e lavoro, sul consumismo e tanto altro, ed autrice di saggi sul tema molto letti negli Stati Uniti.

Come si può leggere in suo pezzo tratto dal libro “The Overworked American: The Unexpetcted Decline of Leisure”, e tradotto da Attivismo.info: «Uno dei miti più duraturi del capitalismo è che esso abbia ridotto la fatica umana. Questo mito è difeso tipicamente da un confronto tra la settimana moderna di quaranta ore con la sua controparte di settanta od ottanta ore nel XIX secolo.

L’ipotesi implicita, ma raramente soggetto di contraddittorio, è che lo standard di ottanta ore sia stato prevalente nei secoli passati. Il paragone evoca la triste vita dei contadini medievali, che lavoravano duramente dall’alba al tramonto. Ci viene chiesto di immaginare l’artigiano ambulante in una soffitta fredda e umida, che si alza ancora prima del sole, lavorando a lume di candela fino a tarda notte. Queste immagini sono proiezioni verso il passato del modello lavorativo attuale. E sono false».

Infatti, sottolinea un articolo di Business Insider su questa ricerca, l’esistenza di un contadino medievale, o comunque di un qualunque lavoratore manuale dei cosiddetti “Secoli Bui”, era in ogni caso assai grama, parca ed austera, continuamente minacciata da possibili scoppi di carestie, da eventuali diffusioni di malattie, o da non improbabili guerre tra signori. Tuttavia, all’epoca i lavori non erano così tremendamente avvolgenti ed opprimenti come lo sono adesso: di una tale quantità da reprimere ogni briciola di tempo libero, da non far guadagnare ferie proporzionali alle energie impiegate nel corso dell’anno, da spegnere spesso la possibilità di concedersi qualche vizio, qualche viaggio, et similia.

Non incidentalmente, la stessa Juliet Schor ha citato, come emblema di questa ampia libertà che avevano i lavoratori medievali, il Vescovo di Durham James Pilkington. Una sua dichiarazione della fine del XVI secolo: «Il lavoratore si riposerà a lungo al mattino; spenderà una buona parte del giorno per questo, prima di venire al lavoro; quindi dovrà fare colazione, anche se non avrà ancora guadagnato abbastanza per quell’ora od anche se ci sono motivi di rancore e mormorio.

Quando l’orologio batte, lascerà lì i suoi attrezzi del lavoro e, qualunque cosa accada, non potrà rinunciare al suo pezzo di carne, quali che siano i pericoli per avere interrotto il suo lavoro. A mezzogiorno deve avere il suo tempo per dormire, quindi la sua possibilità per bere nel pomeriggio, che prenderà una parte importante della giornata; e quando arriva la sera, al primo colpo di campanile lascia a terra i suoi strumenti, qualunque sia lo stato di avanzamento del lavoro».

Il ritmo della vita era molto più lento e rilassato, vi era meno ricchezza in circolazione ma molto più tempo a disposizione da dedicare a se stessi, alla propria famiglia ed a qualunque attività si fosse desiderato intraprendere e coltivare. Il sistema capitalista, per come venuto in essere a partire dal Settecento, ha senza ombra di dubbio portato innovazione, tecnologia, lusso e ricchezza, aumentando le entrate delle persone, ma sottraendo loro il tempo della loro vita.

Lo sguardo deve quindi allargarsi a più secoli. Un lavoratore medievale, come notato da Schor ed osservato anche dallo studio di altri esperti del settore (pure risalenti nel tempo) [1], non soltanto lavorava per un tempo compreso fra le sei e le otto ore quotidiane, ma aveva anche molte pause all’interno di esse, che gli permettevano di riposare a dovere per riprendere il suo lavoro al meglio. Una condizione invidiabile, se si ragiona nell’ottica – tra gli altri, ad esempio – di un qualunque impiegato di Amazon, al quale viene persino impedito di andare in bagno durante il proprio turno.

Il confronto è ancora più impietoso se si paragonano i tempi di vacanza durante l’anno: nel Medioevo – soprattutto grazie anche alla Chiesa cattolica, che indiceva spesso molte festività, consapevole dell’importanza di queste ultime per i fedeli – le vacanze duravano mesi, di più (Inghilterra) o di meno (Spagna) a seconda dei luoghi; al giorno d’oggi, escluse le festività ufficiali, è difficile pensare, per un operaio qualsiasi, a ferie superiori alle due settimane.

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Un sovra-sfruttamento del tempo dei lavoratori che genera stress, disordini personali, incapacità di coltivare passioni ed affetti, e persino – ragionando nell’ottica lavorativa – una diminuzione della produttività. Una osservazione per la quale, invero, basterebbe del mero buon senso: meno riposo e più fatica, nel lungo periodo, diminuiscono la capacità di lavoro e la prontezza nell’eseguirlo, dato che il riposo per ricaricare le energie è drasticamente insufficiente, e persino ridotto rispetto alle esigenze di ognuno.

Questo risultato, oggi portato innanzi senza remore dal modello neoliberista sul quale si è costruita la struttura socio-economica dominante, risulta peraltro un’aberrazione rispetto alla previsione che, all’inizio del XIX secolo, fece John Maynard Keynes, il padre della macroeconomia: egli sostenne che nel 2030 ci sarebbe stata ricchezza al punto tale che il tempo libero delle persone avrebbe nettamente ecceduto il tempo da dedicare al lavoro.

Cosa è accaduto in questa frazione secolare, rispetto a quella previsione? La risposta è quanto mai semplice, e la si può dare usufruendo sempre delle parole del grande economista britannico: è prevalsa l’imbecillità del linguaggio finanziario, che ha obnubilato le menti e fatto direzionare il lavoro non più verso la dignità di chi lo compie, ma verso i rendimenti cui esso conduce, da implementare a tutti i costi attraverso la competitività.

Tradotto: gli uomini debbono dedicarsi interamente al lavoro, apolidi e sradicati, senza possibilità di scegliere cosa fare, ma seguendo il flusso dei capitali, massacrando i rapporti personali e gli affetti, rinunciando ai propri sogni ed alle proprie passioni.

Con la scusante delle crisi economiche indotte da un modello competitivista di austerità che cancella la collaborazione e spinge unicamente al profitto a qualunque condizione, che tratta la moneta come un bene scarso, che quindi aumenta il tempo lavorativo, diminuisce il salario, taglia i servizi e non permette di andare in pensione, ritardando il ricambio generazionale, è stata sottratta agli uomini la cosa più preziosa: il tempo, e se stessi.

A riguardo, non si può non condividere una riflessione dell’amatissimo ex presidente dell’Uruguay, Pepe Mujica: «La mia idea di vita è la sobrietà. Concetto ben diverso da austerità, termine che avete prostituito in Europa, tagliando tutto e lasciando la gente senza lavoro. Io consumo il necessario ma non accetto lo spreco. Perché quando compro qualcosa non la compro con i soldi, ma con il tempo della mia vita che è servito per guadagnarli.

E il tempo della vita è un bene nei confronti del quale bisogna essere avari. Bisogna conservarlo per le cose che ci piacciono e ci motivano. Questo tempo per se stessi io lo chiamo libertà. E se vuoi essere libero devi essere sobrio nei consumi. L’alternativa è farti schiavizzare dal lavoro per permetterti consumi cospicui, che però ti tolgono il tempo per vivere».

Una riflessione esistenziale notevole, citata scientemente in questa sede per far meditare, dopo essere partiti da una constatazione economica proveniente da uno studio di settore: i contadini medievali avevano molto più tempo libero degli odierni lavoratori. Il XIX secolo fu un’anomalia rispetto alla media pluri-secolare giunta sino ad allora, ed è per questo che all’epoca si partecipava ai movimenti per la riduzione di quegli orari disumani: per recuperare i diritti degli antenati di quattro o cinque secoli prima.

Nel XX secolo, i diritti sociali furono implementati politicamente grazie all’accordo fra Stato e mercato: quello stesso accordo che oggi è venuto a mancare, a causa di una scellerata scelta politica del primo di rimettere il lavoro e la sua organizzazione completamente nelle mani del secondo.

Con le conseguenze che si sono dette sopra: la volontà di aumentare produttività e guadagni sulle spalle dei lavoratori, ai quali è sono stati sottratti quasi del tutto sia i diritti sia anche il tempo libero necessario a condurre dignitosamente la propria esistenza. Drasticamente scarso, persino rispetto a quei tanto vituperati, derisi e non invidiati contadini medievali… Del resto, come ha affermato Schor: «I nostri antenati potevano anche non essere ricchi, ma essi avevano una grande abbondanza di tempo libero».

La conclusione cui si vuole giungere è la seguente: al giorno d’oggi, esistono sia gli strumenti che le conoscenze (tecnologiche, funzionali, ecc…) necessarie affinché ogni singolo essere umano possa lavorare dignitosamente e contemporaneamente coltivare la propria persona e le proprie relazioni.

Rinunciare a questa possibilità, per essere invece schiavizzati, è un absurdum: l’insegnamento di Schor sul rapporto (impietoso e finanche irragionevole) lavoro-vacanze fra contadini medievali ed odierni lavoratori lo mostra adamantinamente. Non è casuale che negli ultimi quarant’anni, col trionfo del modello neoliberista, sia avvenuto il più mastodontico spostamento di ricchezza dall’alto verso il basso. Il lavoro non è più mezzo di emancipazione e dignità, ma necessità per la sopravvivenza, e può oggi costare la vita.

Essere coscienti e consapevoli di questa lotta fra capitale e lavoro, fra ricchezza per pochi e benessere per tutti (per citare l’indimenticato Thomas Sankara: la scelta umana e politica è fra «lo champagne per pochi o l’acqua per tutti»), in certo qual modo anche fra Stato e mercato (o, meglio, fra collaborazione delle parti e resa incondizionata della prima delle due), fra politica ed economica, è la primigenia ed imprescindibile via per l’emancipazione, per la correzione di questa storta discrasia.

(di Lorenzo Franzoni)

Note:
[1] Riferimenti dell’autrice Juliet Schor:
• James E. Thorold Rogers, “Six Centuries of Work and Wages”, London, Allen and Unwin, 1949;
• H. S. Bennett, “Life on the English Manor”, Cambridge, Cambridge University Press, 1960;
• Douglas Knoop & G. P. Jones, “The Medieval Mason”, New York, Barnes and Noble, 1967;
• R. Allen Brown, H. M. Colvin & A. J. Taylor, “The History of the King’s Works”, Vol. I (“The Middle Ages”), London, Her Majesty’s Stationary Office, 1963;
• Edith Rodgers, “Discussion of Holidays in the Later Middle Ages”, New York, Columbia University Press, 1940;
• C. R. Cheney, “Rules for the observance of feast-days in medieval England”, Bulletin of the Institute of Historical Research 34, 90, 117-29 (1961).
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