Bolsonaro e la controrivoluzione ultraliberista in Brasile

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Il primo anno di governo di Jair Bolsonaro in Brasile volge al termine, ma critici ed oppositori alla linea del presidente non mancano. Ricardo Antunes, professore ordinario di Sociologia all’Università di Campinas in Brasile e Visiting Professor presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, è annoverabile fra questi e ha recentemente dato alla luce il pamphlet “Politica della caverna. La Controrivoluzione di Bolsonaro” tradotto in Italia da Castelvecchi.

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L’analisi di Antunes parte dal ritorno alla democrazia del gigante brasiliano per arrivare ai primi sei mesi del nuovo governo ultraliberista. Si tratta di una critica feroce all’intera classe politica verde-oro che non esclude l’amatissimo ex presidente Lula e il Partido dos Trabalhadores (Partito dei Lavoratori, PT). Secondo l’autore, infatti, i tre mandati e mezzo (due di Lula e uno e mezzo della delfina Dilma Rousseff poi destituita per impeachment) della formazione di sinistra si sono posti in continuità con il neoliberismo applicato dai loro predecessori.

Gli errori di Lula e compagni

Senza scontentare i propri elettori, attraverso programmi di assistenzialismo come quello di welfare denominato Bolsa Familia (Borsa Famiglia), Lula e il PT sono contemporaneamente scesi a patti con gli interessi delle classi medio-alte. Il primo vero errore, dal punto di vista politico, dell’ex sindacalista sarebbe stato la scelta del suo successore. Dilma Rousseff è stata, in maniera del tutto evidente, incapace di proseguire il lavoro intrapreso dal leader di riferimento e, nel tentativo di trovare una sua strada alla guida del Paese, si è scontrata con settori storicamente legati alla sinistra (studenti, operai, indigeni e ambientalisti) dando fiato alla destra relegata da dieci anni all’opposizione.

Già dalle proteste di piazza del 2013, dovute agli sprechi per l’organizzazione dei grandi eventi sportivi (Mondiali di calcio del 2014 e Olimpiadi di Rio de Janeiro del 2016), sarebbe stato possibile avvertire i campanelli d’allarme di un cambiamento politico in fase di crescita. La rielezione di Dilma nell’anno successivo si dovette più all’incapacità di proporre un candidato credibile da parte della destra che alla popolarità dell’esecutivo uscente ma la macchina controrivoluzionaria aveva già avviato il proprio motore.

L’impeachment con cui la Rousseff fu destituita, pur rappresentando una forzatura non fu, a detta di chi scrive, un golpe come indicato da Antunes. Sicuramente simile a quanto avvenuto nei confronti del presidente progressista Fernando Lugo in Paraguay, la Rousseff fu vittima della partitocrazia brasiliana che vede la presenza di numerosissimi movimenti nelle due Camere della nazione. È da qui che l’autore fa iniziare il periodo controrivoluzionario, dal momento in cui il centrista Michel Temer in qualità di vicepresidente subentra per due anni alla guida del Paese con l’obiettivo di perseguire la privatizzazione delle più importanti imprese statali, demolire i diritti dei lavoratori e ampliare l’egemonia del capitale finanziario.

Le lobby e l’ascesa di Bolsonaro

Le proteste contro l’agenda ultraliberista imposta da un presidente non eletto finirono per frenare in parte la corsa di questi propositi che necessitava di un mandato completo e approvato dai cittadini per portare a terminare quanto iniziato. E’ qui che Antunes concentra la ricerca nel proprio lavoro arrivando a sostenere che Bolsonaro non sia stato da subito il candidato preferito da parte delle lobby. Proprio come per la vicenda Trump negli Usa anche Bolsonaro sarebbe stato cooptato solamente dopo l’estromissione di Lula dalla corsa alla presidenza -tramite il fedele Sergio Moro ripagato poi con il Ministero della Giustizia – e la mancanza di carisma dei candidati del Partido da Social Democracia Brasileira (Partito della Social Democrazia Brasiliana, PSDB).

Tra gli artefici di questo accordo figura Paulo Guedes, economista di formazione statunitense con un passato di docente universitario nel Cile di Pinochet. Un accordo, proprio come avvenuto negli Stati Uniti dopo la vittoria alle primarie repubblicane di Trump, tra il Deep State e il clan Bolsonaro. Un clan, quest’ultimo, formato anche dai figli (come non vedere anche qui un richiamo al ruolo della figlia e del genero del presidente Usa) dell’attuale inquilino di Palácio do Planalto, che già nel corso dei primi mesi di governo è finito con il dividere in due gruppi la politica della maggioranza.

I primi, detti “bolsonaristi”, influenzati ideologicamente da Olavo de Carvalho il cui fine è una guerra ideologica alla sinistra e i secondi, il nucleo militare, che controllando molti dei ministeri chiave si identificano principalmente nel generale, oggi vicepresidente, Hamilton Mourão, sempre pronto a richiamare all’ordine Bolsonaro sia in politica estera (negando la possibilità di un intervento militare brasiliano in Venezuela) che in quella interna ed economica.

L’agenda imposta a Bolsonaro

La sfida tra quello che Carlos Bolsonaro, il figlio più piccolo del presidente, ha già chiamato il traditore del governo e l’ala militare è appena agli inizi ma promette un ennesimo regime change qualora Bolsonaro non dovesse rappresentare più una certezza per i grandi gruppi di interesse che hanno sostenuto la sua candidatura. Proprio a tal riguardo Antunes ritiene di vitale importanza per la sopravvivenza del governo l’approvazione della riforma pensionistica, il cui ideatore è ovviamente Guedes, per innalzare l’età pensionabile e passare ad un sistema privato sulla falsariga degli Afp cileni (Amministrazione fondi pensione).

Una volta assestato questo colpo mortale il governo potrebbe concentrarsi sull’attacco alle università pubbliche, il luogo dal quale è partita la riorganizzazione dei movimenti sociali, popolari e sindacali che hanno generato le prime grandi manifestazioni di massa contro il governo a maggio per poi indire, tramite la Central Unica Dos Trabalhadores (Centrale Unica dei Lavoratori, CUT) lo sciopero generale di metà giugno. Non mancano, nel breve testo di Antunes, i richiami anche al cambio di rotta in politica estera con un Brasile non più mattone fondamentale dei Brics ma legato al volere del Nord America.

Ne sono testimonianza lo spostamento dell’ambasciata in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme e l’incrinazione dei rapporti con la Cina. Fondamentale il ruolo svolto dagli evangelici che in Brasile, come nel resto dell’America Latina, fanno incetta di nuovi fedeli strappandoli alla Chiesa cattolica che pur esprime un Papa sudamericano.

Se convince il paragone con altri uomini forti giunti recentemente alla massima carica istituzionale della propria nazione, come Orbán in Ungheria piuttosto che Duterte nelle Filippine oltre al già citato Donald Trump, l’errore principale di Antunes è quello di accomunare Bolsonaro e alcuni suoi omologhi che attuano le proprie visioni politiche, condivisibili o meno, in democrazia a dittatori del passato e, ancor più grave, fare di tutta l’erba un fascio quando non scandaglia le profonde differenze tra i regimi autoritari di stampo nazionalista (nella prima metà del Novecento in Europa continentale e subito dopo in Argentina con Perón) e quelli militari (dai colonnelli in Grecia e in Argentina all’esperienza cilena di Pinochet) che furono certamente molto diversi.

(di Luca Lezzi)

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