O'Sullivan al The Economist: "La globalizzazione è morta"

O’Sullivan al The Economist: “La globalizzazione è morta”

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Forse il mondo è stato testimone di un “picco di democrazia”? Il futuro è forse quello nel quale le società aperte, caratterizzate da mercati del tutto liberi, rivaleggiano per l’influenza negli affari globali con dei Paesi autoritari sotto l’emblema del capitalismo di Stato? Queste medesime domande evocano una qual certa nostalgia nei confronti di un passato apparentemente più semplice. Secondo Michael O’Sullivan, ex banchiere di investimenti ed economista presso l’Università di Princeton, è più utile considerare il futuro.

Il libro del signor O’Sullivan, “The Levelling: What’s Next After Globalization”, offre una tabella di marcia, una mappa indicante la via. Egli osserva un mondo multipolare che si sta formando, ma con le istituzioni internazionali assolutamente impreparate a coglierlo. Esprime preoccupazione per un mondo destinato ad una bassa crescita e ad un debito elevato – e richiede a gran voce un “Trattato Internazionale sul Rischio”, di modo tale che le Banche Centrali semplicemente ricorrano a misure come il Quantitative Easing sotto determinate e concordate condizioni.

Tuttavia, la sua più intrigante inquadratura dei problemi si ha nel suo confronto fra il mondo di oggi ed i dibattiti di Putney nell’Inghilterra del XVII secolo, quando le funzionalità di una democrazia basata sui diritti furono enunciate per la prima volta da una fazione chiamata “The Levellers” (la quale ha ispirato il titolo del libro). Il mondo – egli crede – confluirà nei cosiddetti “Paesi livellatori“, che si impegnano per i diritti e per le libertà, e nei cosiddetti “Paesi leviatani”, i quali si accontentano della crescita gestita dallo Stato e di un minor numero di libertà.

Nell’ambito dell’iniziativa “Open Future” promossa dal The Economist, abbiamo esplorato ed interrogato le idee di Michael O’Sullivan in una breve intervista. Al di sotto della quale si può trovare un estratto dal suo libro, in merito alla fine della globalizzazione.

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The Economist: Ci descriva che cosa verrà, dal suo punto di vista, dopo la globalizzazione. Che cosa prevede in merito alla futura parvenza del mondo?

O’Sullivan: La globalizzazione è già alle nostre spalle. Noi dovremmo salutarla in via definitiva ed impegnare le nostre menti sull’emergente mondo multipolare. Questo, infatti, sarà dominato alla fine da almeno tre grandi regioni: l’America, l’Unione Europea [ammesso che superi la prova delle sue irrimediabili storture ed incongruenze, opzione poco probabile e poco desiderabile per molti degli Stati che ne fanno parte, N.d.R.] ed un’Asia sino-centrica. Essi infatti, passo dopo passo, adotteranno approcci molto differenti fra di loro in merito alla politica economica, alla libertà, alla guerra, alla tecnologia ed alla società.

Paesi di medie dimensioni come la Russia, il Regno Unito, l’Australia ed il Giappone dovranno combattere per trovare il loro posto nel mondo, nel frattempo che emergeranno nuove coalizioni, esattamente come una “Lega Anseatica 2.0” composta di piccoli Stati avanzati come quelli della Scandinavia e quelli Baltici. Le istituzioni nate nel XX secolo – la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio – appariranno sempre più defunte.


The Economist: Che cosa ha ucciso la globalizzazione?


O’Sullivan
: Almeno due cose hanno contribuito a far pagare lo scotto alla globalizzazione. In primo luogo, la crescita economica globale ha rallentato e, come risultato, la crescita è venuta in essere come maggiormente “finanziarizzata”: il debito è cresciuto, e c’è stato un maggiore “attivismo monetario” – il che significa che le Banche Centrali hanno pompato denaro nell’economia per acquistare asset finanziari, quali obbligazioni ed in alcuni casi anche azioni – per sostenere l’espansione internazionale.

In secondo luogo, gli effetti collaterali – o, quantomeno, gli effetti collaterali percepiti [una specifica, da parte dell’autore, dalla quale potrebbe filtrare l’idea per cui essi non siano di sostanza, ma solo di forma: quand’invece, la sostanza è assai presente, vissuta dalle persone sulla loro pelle nella loro quotidianità, senza bisogno di dover consultare statistiche di ogni genere e sorta, N.d.R.] – della globalizzazione sono ora molto più evidenti: diseguaglianza nella ricchezza, il dominio delle multinazionali e la dispersione delle catene di approvvigionamento globale. Tutti questi sono divenuti dei temi politici caldi.

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The Economist: La morte della globalizzazione era inevitabile oppure doveva (avrebbe potuto) essere prevenuta?

O’Sullivan: Un fattore problematico qui è il fatto che non esista un ente centrale od un’autorità in grado di modellare e gestire la globalizzazione, oltre forse al World Economic Forum od oltre all’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico. In molte maniere, la fine della globalizzazione è contrassegnata dalla risposta povera ed inconcludente alla crisi finanziaria globale. In linea generale, la risposta è stata quella di tagliare il costo del capitale, e non di affrontare le cause profonde della crisi. In qualità di tale, l’economia andrà zoppicando, a causa della zavorra del debito ed in preda a soldi facili provenienti dalle Banche Centrali [un sistema in sé e per sé non malevolo, ma di cui si è usufruito in maniera perversa per arricchire i mercati finanziari ed impoverire l’economia reale, e per ciò stesso i popoli, N.d.R.].

The Economist: Il titolo del libro proviene dai cosiddetti “Levellers”, risalenti all’epoca dei dibattiti di Putney in Gran Bretagna a metà del XVII secolo. Chi erano costoro? E che cosa ci può insegnare oggi la loro storia?

O’Sullivan: I “Levellers” rappresentano una gemma nascosta della Storia britannica. Essi erano un gruppo inglese della metà del Seicento, il quale partecipò ai dibattiti sulla democrazia che all’epoca si svolsero in una zona di Londra chiamata Putney. Il loro obiettivo, che fu raggiunto, era stato quello di “Creare un Accordo del Popolo”, il quale era costituito da una serie di manifesti che segnavano le prime concezioni popolari di che cosa avrebbe potuto sembrare una democrazia costituzionale.

I “Levellers” sono di grande interesse precipuamente per due motivi. In primo luogo, nel contesto di quell’epoca, il loro approccio era costruttivo e pratico. Il cosiddetto “Accordo” enuclea ciò che le persone desiderano da parte di coloro che li governano, in modo chiaro e tangibile. Per esempio, essi proposero dei limiti di mandato per le cariche politiche, e che le leggi in materia di debito et similia fossero applicate equamente tanto ai ricchi quanto ai poveri.

In secondo luogo, essi sono interessanti per il modo in cui il loro movimento fu dapprima annullato e poi fiutato dal comandante militare Oliver Cromwell e dai Grandi (le élite dei loro tempi). Come tante [contemporanee] start up politicamente idealiste, i “Levellers” fallirono. Ciò dovrebbe incoraggiare il crescente numero di nuovi partiti politici, come Change UK ed i nuovi candidati, ad essere il più estesamente possibile saggi nella maniera con cui approcciarsi al processo di riforma e cambio del mondo politico.

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The Economist: Lei prevede nuove istituzioni internazionali per rimpiazzare quelle già arcaiche che furono create nel Novecento, affinché esse siano adatte a tempi mutati e differenti. Come dovrebbero funzionare? E Paesi con valori così diversi (cioè, “livellatori” democratici e basati sul mercato da un lato, “leviatani” con società ed economia gestite dallo Stato) possono realmente cooperare fra di loro?

O’Sullivan: Molte di queste sono sorte grazie alla rivalità tipica della Guerra Fredda fra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti d’America, ed adesso alcuni desiderano vedere uno scontro di civiltà fra USA e Cina. Il “Livellamento” caratterizza un futuro dove ci sono almeno due approcci alla vita pubblica.

L’approccio più distintivo, per le nazioni che fanno le cose alla loro maniera, sarà quello secondo cui i livellatori potrebbero chiamare i “diritti degli uomini nati liberi”, o l’idea di una società aperta. Il codice dei “Levellers” presenta una formula politica molto chiara, che europei ed americani riconosceranno per i suoi valori, sebbene in modo decrescente per la sua pratica.

La sfida a questo codice proverrà dalla crescente accettazione di modi meno democratici di ordinare la società, sia nei Paesi già sviluppati che nei Paesi in via di sviluppo. Uno scontro correlato sarà il desiderio crescente di una crescente proporzione dell’elettorato di avere una società più aperta, in corrispondenza di una maggiore apertura delle rispettive economie.

Mentre il mondo si evolve lungo le linee delle società impostate sul modello livellatore oppure leviatano, è possibile che in alcuni Paesi (come in Russia) un approccio sul modello leviatanico – che è ordine in cambio di ridotti democrazia e diritti – sarà lo stile di vita accettato. In altri Paesi, soprattutto in Cina, per una perdita di slancio ed una metamorfosi delle loro economie, ci potrebbe essere una crescente tensione fra gruppi che portano una visione “Leviathan” (supportato inevitabilmente dai Grandi) e, dalla parte opposta, gruppi che portano una visione “Leveller” (i quali favoriscono uguaglianza di opportunità ed un sistema multipartitico). Il ruolo e le opinioni delle donne, specialmente in Cina, e dei gruppi minoritari come la Comunità Gay, saranno centrali.

L’emergere di un nuovo ordine mondiale, basato su grandi regioni e colorato dalle modalità di governance di “Leveller” e “Leviathan”, fa eco a diversi periodi nella storia. La sfida nei prossimi anni, a stretto giro di boa, sarà – per le nazioni con orientamento leviatanico, come la Cina – quella di mantenere la stabilità economica, cosicché l’aumento della disoccupazione, per esempio, non rompa il “Contratto del Leviatano”. In egual modo, la sfida per i Paesi livellatori sarà quella di mantenere società aperte e fraterne di fronte alla volatilità politica ed economica.

Nota a cura del traduttore

Come Oltre la Linea, è necessario specificare in questa sede come determinate opinioni e previsioni dell’autore, Michael O’Sullivan, non coincidano con quelle della testata. L’intervista è stata tradotta e riportata per la menzione ed argomentazione pregevole che in essa si fa della fine del fenomeno della globalizzazione, in un momento storico di transizione internazionale verso novelle istituzioni, essendo che quelle vecchie non sono più capaci di rispondere ai nuovi problemi: i quali, in realtà, sono molto più vecchi, ma letti secondo la chiave dell’evoluzione dei tempi. Per questo motivo, è importante fare una piccola disamina delle parti dell’intervista stessa verso le quali vi potrebbero essere, da parte nostra, scetticismo o criticità, e dare così un quadro più chiaro.

Dopo una interessante analisi dei rapporti di forza internazionali e di come essi potranno estrinsecarsi nella loro collocazione internazionale e nei rapporti che potrebbero intrattenere le une con le altre – di incontro, o di scontro -, l’economista giunge a citare le organizzazioni internazionali, alle quali tuttavia attribuisce un candore di “modus operandi” che è loro del tutto estraneo.

Banca Mondiale ed FMI, ad esempio, sono sempre stati lapalissianamente dei vettori di imperialismo finanziario e capitalistico, specialmente americano, capaci di favorire l’insediamento di multinazionali e giganti del commercio in ricchi Paesi e territori (come in Africa, in Sud America e via discorrendo), come pure di condurre al fallimento Paesi spolpabili ma non abbastanza forti da saper reagire politicamente (come la Grecia e l’Argentina).

O’Sullivan ha perfettamente ragione a ritenere che la crisi finanziaria del 2008 abbia contribuito in maniera preponderante e vivida alla fine della globalizzazione, o quantomeno all’aver intrapreso l’itinerario per il suo tramonto. Tuttavia, per corroborare la sua tesi, egli si riferisce al debito come ad una zavorra insostenibile, a causa dell’eccessivo e facile pompaggio di denaro da parte delle Banche Centrali: ed è qui che l’analisi (almeno nell’intervista) si configura come parziale.

Infatti, si può parlare senza timore di smentita di soldi facili, perché essi vengono effettivamente creati in maniera semplice, ed ipoteticamente infinita, trattandosi di moneta Fiat sin dal 1971. È il metodo con il quale i soldi vengono immessi nell’economia reale che si configura come deficitario di senso: l’acquisto dei titoli del debito pubblico da parte delle Banche Centrali, infatti, non genera soldi che poi vanno direttamente agli Stati affinché questi ultimi compiano investimenti pubblici, ma vengono concessi alle singole banche private con un qual certo tasso di sconto, e quindi rimangono nel mondo finanziario, entrando in circolazione effettiva soltanto in forma di debito, cioè di prestito ai cittadini (sempre, naturalmente, con interessi).

Indubitabilmente, partendo dalla storia britannica, risulta stuzzicante la suddivisione che l’autore fa tra Paesi livellatori e Paesi leviatani, ma è qui che la sua opinione diverge completamente dalla nostra: il suo auspicio è evidentemente rivolto nei confronti delle società livellatrici, ovverosia aperte (come già ne parlò Karl Popper), mentre la sua disapprovazione si indirizza alle società leviataniche, in quanto “riduttrici di diritti e libertà”.

In questo senso, si colloca la posizione di analisi, da parte dell’autore, da noi non condivisa: egli ha correttamente individuato i motivi della morte della globalizzazione e dell’avvio verso un mondo multipolare, salvo poi non dare una lettura critica delle società aperte. Queste ultime, infatti, vengono ritenute portatrici di diritti e libertà: tuttavia, un’apertura economica incondizionata elude qualunque tipo di controllo, sviluppa le condizioni per la nascita ed il mantenimento di un oligopolio di pochi, distrugge i diritti sociali conquistati a livello nazionale ed impone la competizione sfrenata ed a tutti i costi, nella quale solo i grandi possono primeggiare e tutti gli altri sono costretti a soccombere in povertà e disoccupazione. I diritti civili sono del tutto superflui, nel momento in cui i diritti sociali vengano negati.

In questo senso, è assolutamente fisiologica la riscossa delle società leviataniche, ovverosia di quei Paesi i cui cittadini vanno sempre più richiedendo un controllo da parte dello Stato. Un controllo il quale – come erroneamente sostenuto da O’Sullivan – non implica una sottrazione di libertà ai cittadini, bensì una loro difesa da tutte le possibili storture provenienti dall’esterno, attraverso l’esercizio del patto democratico fra i governanti ed i governati, fra i politici ed i cittadini.

Nel momento in cui – attualizzando Hobbes – uno Stato sia reale e concreto difensore degli interessi sociali ed economici dei cittadini da cui è costituito, non si configurerà come un limitatore di libertà, bensì semmai come un estrinsecatore di queste stesse, sulla base della volontà di coloro che è deputato a rappresentare (nella varietà interna di rappresentanza, che mai deve venire meno). Ciò implica, nondimeno, un controllo dell’economia, non perché ai privati possa essere impedita l’iniziativa (anzi, ne viene stimolata), ma perché lo Stato stesso possa correggere le distorsioni del mercato, laddove esse non conducano all’utilità sociale e collettiva (come peraltro previsto dalla Costituzione italiana).

Non incidentalmente, la conclusione dell’autore (nell’intervista) non riflette lo stato attuale delle cose: le società che, per svariati anni o decenni, sono rimaste aperte, adesso non stanno facendo passi avanti verso un’ulteriore apertura, quanto piuttosto verso una chiusura. Chiusura non tale da impedire i contatti con gli altri, ma tale da proteggere i loro diritti, i loro interessi ed i loro beni, che per tanto (troppo) tempo sono stati vituperati e vilipesi, nel nome di un’ideologia (la libertà a qualunque prezzo e di qualunque cosa: dei mercati, dei confini, dei costumi, e così via) che le ha palesemente danneggiate.

Infatti, l’apertura eccessiva non ha creato fraternità e cooperazione, ma rivalità e competizione. È essa la scaturigine della volatilità economica e della poca solidità politica: condizionata proprio da quei players economici (banche, fondi speculativi, multinazionali, ecc…) divenuti così grandi da essersi sostituiti agli Stati come attori politici nel quadro internazionale. Players economici i quali, per l’appunto, condizionano le sovranità delle nazioni e ne indirizzano le scelte politiche: per i loro interessi ed in palese sfregio della rappresentatività democratica e dei popoli.

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“Addio Globalizzazione”. Estratto da “The Levelling: What’s Next After Globalization”, di Michael O’Sullivan (Public Affairs, 2019):

“Potrebbe essere un’ottima cosa che coloro che si sono affezionati alla globalizzazione la superino, accettino la sua dipartita, ed inizino ad adeguarsi ad una nuova realtà. Molti proveranno a resistervi, come quei 35 esperti di politica estera che, in data 26 luglio 2018, hanno pubblicato un annuncio sul New York Times, sotto lo stendardo “Perché dovremmo preservare le istituzioni e l’ordine internazionale”, e percepiranno che l’ordine mondiale esistente, e le sue istituzioni, dovrebbero essere mantenute. Io non sono d’accordo.

La globalizzazione, quantomeno nella forma che le persone hanno esperito, è defunta. Da qui, il passaggio che condurrà oltre la globalizzazione stessa può assumere due nuove forme. Uno scenario pericoloso è quello nel quale noi assistiamo alla completa fine della globalizzazione nello stesso modo del primo periodo di globalizzazione, collassato nel 1913. Questo scenario è uno dei preferiti dai commentatori, in quanto esso permette loro di scrivere in merito a sanguinose calamità da fine del mondo. Questo è, fortunatamente, un esito dalla bassa probabilità di realizzazione, e con le scuse per i molti ammiragli della poltrona nel commentario che, ad esempio, parlano volontariamente di un conflitto nel Mar Cinese Meridionale. Io suggerisco che una battaglia navale su larga scala tra Cina e Stati Uniti d’America sia improbabile.

Invece, l’evoluzione di un nuovo ordine mondiale – rappresentato da un mondo pienamente multipolare, composto da tre (o forse quattro, a seconda di come l’India andrà sviluppandosi) grandi regioni, distinte nel funzionamento delle loro economie, leggi, culture e reti di sicurezza – è manifestamente sulla via della realizzazione. Io ho la sensazione che, fino al 2018, la multipolarità fosse più che altro un concetto teorico – maggiormente qualcosa da scrivere che non qualcosa su cui testimoniare.

Questo scenario sta cambiando rapidamente: le tensioni commerciali, gli avanzamenti nelle tecnologie (come il calcolo quantistico) e la regolamentazione della tecnologia sono soltanto alcune delle fessure attorno alle quali il mondo si sta dividendo in regioni distinte. La multipolarità sta guadagnando trazione ed avrà due larghi assi.
Il primo, nel mondo multipolare i poli dovranno essere ampli e grandi in termini di potere economico, finanziario e geopolitico. Il secondo, l’essenza della multipolarità non è semplicemente il fatto che i poli siano grandi e potenti, ma anche che essi sviluppano dei “modus operandi” reciprocamente distinti e culturalmente coerenti. La multipolarità, ove le regioni agiscono in maniera distinta e differente, è anche molto diversa dal multilateralismo, ove invece queste regioni agiscono assieme.

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La Cina, in particolare, risulta interessante nel contesto del passaggio dalla globalizzazione alla multipolarità, anche perché al World Economic Forum del 2017 il Presidente cinese ha rivendicato il mantello della globalizzazione per la Cina. La quale, non a caso, ha beneficiato notevolmente della globalizzazione e dei suoi equipaggiamenti (ad esempio, tra le altre cose, la sua adesione al WTO) ed ha svolto un ruolo vitale nella dinamica della catena di approvvigionamento che ha guidato innanzi la globalizzazione.

Tuttavia, sempre di più, i flussi commerciali in Cina tradiscono un moto di allontanamento da un mondo globalizzato verso un mondo più regionalmente focalizzato. Per esempio, i dati del Fondo Monetario Internazionale mostrano che nel 2018, rispetto al 2011, la Cambogia, il Vietnam, il Laos e la Malesia hanno commerciato di più con il Dragone e relativamente di meno con gli Stati Uniti. Questi Paesi, insieme al Bangladesh ed al Pakistan, hanno consentito a se stessi di essere irretiti da relazioni con la Cina basate sul commercio (e sugli investimenti): ed ora sono per l’appunto nell’orbita cinese.

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Tuttavia, occorre notare che la Cina stessa non è globalizzata: è sempre più complicato per le aziende occidentali fare affari lì, a parità di condizioni con le società cinesi, ed il flusso di denaro ed idee – fuori e dentro la Cina, rispettivamente – è pesantemente ridotto. Il flusso di persone è un altro indicatore.

I flussi verso la Cina sono dinamici e forse sono maggiormente controllati rispetto a prima, ma i flussi di stranieri verso la Cina sono minuscoli rispetto a quelli di altri Paesi, e la Cina ha soltanto recentemente dato alla luce un’Agenzia (la State Immigration Administration, creata al Congresso del Partito del 2018) per coltivare i flussi interiori. Così come la Cina è diventata un grande polo mondiale, essa è divenuta meno globalizzata e con ogni probabilità sta contribuendo alla tendenza verso la de-globalizzazione.

Su una scala più ampia, senza bisogno di dover attingere dai singoli Paesi, possiamo misurare fino a che punto il mondo sta diventando multipolare prendendo in esame le tendenze aggregate nel commercio, il PIL, gli investimenti diretti esteri, le dimensioni dei bilanci governativi e la popolazione.

Tutti questi sono molto meno concentrati, o più dispersi, di quanto non fossero precedentemente abituati ad essere, e sempre di più essi stanno raccogliendosi attorno a diversi poli. Per esempio, nel lustro 2012-2017, gli investimenti diretti esteri totali in Australia provenienti dalla Cina si sono incrementati di un buon 21% annuo, rispetto al 6% degli Stati Uniti in Australia, suggerendo in tal modo che gli investimenti asiatici in Australia stanno riprendendo.

[…] Anche se la multipolarità è basata sulla crescente dispersione e regionalizzazione del potere economico, essa si esprime anche in altre maniere, in particolar modo il potere militare, i conflitti politici e le libertà informatiche, la raffinatezza tecnologica, la crescita del settore finanziario, ed un maggiore senso di prerogativa e confidenza culturali. Queste cose non sono facilmente misurabili, come lo è invece la multipolarità economica, ma alcuni fili molto chiari stanno emergendo.

Per provare a sintetizzare ciò che un polo comporta, possiamo indicare diversi fattori iniziali: le dimensioni del PIL di un Paese, il numero della sua popolazione, l’esistenza di un retaggio imperiale, l’entità ed estensione del suo ruolo economico regionale, le sue dimensioni militari e relativa sofisticazione (per esempio, la spesa assoluta in termini bellici, il numero di cacciabombardieri e di navi da combattimento), il suo posto sull’Indice di Sviluppo Umano (redatto dalle Nazioni Unite) relativo alla sua regione, e la sua partecipazione (o meno) ad un raggruppamento regionale (come lo sono la NATO o l’Unione Europea).

Stando ai contorni di questo schema, l’Unione Europea, gli Stati Uniti d’America, la Cina e potenzialmente l’India sono dei poli, mentre il Giappone e la Russia non si qualificherebbero come poli distinti. La Russia, per esempio, ottiene buoni risultati su alcuni aspetti della multipolarità (militarmente, tra le altre cose), tuttavia al suo stato attuale non potrebbe mai divenire un vero polo, nel senso qui adottato.

[…] Il percorso in direzione della multipolarità non sarà fluido. Una tensione deriva dal fatto che sin a partire dalla Rivoluzione Industriale ha sempre avuto un punto di ancoraggio ed una diffusione della globalizzazione (la Gran Bretagna del XIX secolo e gli Stati Uniti nel XX secolo). Il fatto che, al giorno d’oggi, ci siano almeno tre punti di riferimento introduce inserisce una nuova e probabilmente incerta dinamica degli affari mondiali.

L’attrito, l’incomprensione ed il conflitto fra i sempre più diversi modi di fare le cose nei principali poli mondiali hanno un alto potenziale di concretizzazione. Essenzialmente, la multipolarità significa che invece di parlare una lingua comune, i maggiori poli parlano differenti linguaggi politici. La tensione basata sul commercio è una possibilità assolutamente ovvia, in questo caso.

Un’altra forma di tensione è la crisi d’identità creata per i Paesi che non si trovano interamente all’interno di uno dei poli – di nuovo, Giappone, Australia e Regno Unito sono i primi esempi -, oppure la crisi di ambizione per Paesi, come la Russia, che desiderano essere essi stessi un polo ma che sono deficitarii dei mezzi per farlo in maniera convincente.

Ad un livello più basico, le implicazioni della fine della globalizzazione per come la conosciamo, ed il percorso verso la multipolarità, occuperanno una parte maggiore (rispetto a prima) all’interno del dibattito politico. A margine, il flusso di persone, idee e capitali potrebbe essere meno globale e più regionale, e nel tempo potrebbe essere corroborato da un crescente senso di regionalizzazione attraverso i principali poli.

In modo negativo, un mondo maggiormente multipolare potrebbe essere lo spartiacque che segna il picco di democrazia e potenzialmente l’inizio di concorsi interni alle regioni per prospettive contrastanti in merito alla democrazia stessa, alla forza delle istituzioni, all’arte di governare ed al controllo.”

(Intervista a Michael O’Sullivan – dal The Economist – Traduzione e nota a cura di Lorenzo Franzoni)

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