Sul declino della globalizzazione

La globalizzazione ha subito due dure battute d’arresto in seguito alla vittoria del “Leave” al referendum sulla Brexit e a quella del magnate americano Donald Trump per la presidenza degli Stati Uniti.

Nel libro “Sul declino della globalizzazione. Europa e America Latina tra passato e futuro” uscito per i tipi di Tra le righe Libri, l’autore William Bavone, già membro del Comitato scientifico della rivista di affari globali Scenari Internazionali, parte dalla rilevanza di questi due fenomeni per analizzare prospettive e possibilità per Europa e America Latina nel momento in cui il mondo anglofono sembra ripiegare verso l’isolazionismo.

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Il corposo testo (361 pagine) è arricchito da una breve ma interessantissima prefazione di Pino Scaccia, storico inviato del Tg1, in cui viene posto il parallelismo tra l’Impero Romano e il continente europeo attuale oltre ad una condanna del ruolo dell’Occidente nelle primavere arabe.

Tra i motivi del mancato rilancio europeo figura la cronica divisione all’interno della cosiddetta Europa a due marce, quella centrale composta da Francia e Germania e quella mediterranea di cui fanno parte Spagna, Italia e Grecia. Fino a quando l’Unione Europea rappresenterà solamente gli interessi di alcuni stati economicamente più forti di mantenere i propri privilegi sarà fin troppo agevole per gli Usa mantenere saldamente il bastone del comando.

È in questa ottica che si sono sviluppate e attuate le sanzioni verso la Russia che dovrebbe, invece, rappresentare un’arteria stessa del motore europeo e si è trovata a veder bloccare sul nascere importanti relazioni con l’Italia (South Stream) e la Germania (North Stream) così come la nostra stessa nazione si è ritrovata a dover cedere alle mire espansionistiche francesi sulla Libia di Gheddafi con cui pure si era sviluppata una proficua collaborazione sul versante energetico e un’efficace politica immigratoria. Non sfruttare il cedimento della dottrina anglofona nel momento in cui si configura questa possibilità potrebbe significare, per l’Europa come per il continente latinoamericano, perdere il classico treno che passa solo una volta.

Dal proprio canto l’America Latina vive il peggior periodo per affrontare, con tutte le armi del caso, la definitiva emancipazione dal fratello maggiore nordamericano. Se, infatti, a partire dal 1998 con la prima affermazione elettorale di Hugo Chávez si è assistito ad una serie di vittorie dei movimenti che hanno dato vita al socialismo del XXI secolo in quella che è stata definita la decade dorada nell’ottica di una riappropriazione delle materie prime, dell’economia nazionale e ad un progresso senza precedenti in termini sanitari, di alfabetizzazione, lotta alla disuguaglianza economica, alla fame e alla povertà, dalla fine del 2015 la destra neoliberista, espressione degli interessi statunitensi nel continente, sembra aver trovato le giuste contromisure.

Quanto iniziato da Chávez, secondo Bavone, è stato agevolato dalla formazione di un asse che ha visto man mano il proprio rafforzamento con le elezioni di Nestor Kirchner in Argentina, Lula in Brasile, Evo Morales in Bolivia e Rafael Correa in Ecuador oltre a poter contare sul supporto della Cuba castrista. Quel frangente politico permise innanzitutto il rigetto dell’ALCA (l’Alleanza di Libero Scambio delle Americhe) ideata da Bush senior e avanzata da Bush junior nel momento in cui il maggiore sforzo bellico degli Stati Uniti veniva posto in tutt’altro quadrante contro i cosiddetti stati canaglia.

La fine dei mandati repubblicani di Bush e l’ingresso alla Casa Bianca di Barack Obama hanno comportato il ripristino dell’interesse della potenza mondiale verso quello che secondo la dottrina Monroe viene ancora definito il proprio cortile di casa. E’ in questo modo che si è provveduto ad una lenta ma strategica normalizzazione dei rapporti con Cuba e al rilancio dei trattati di libero scambio con le poche nazioni in cui non si è mai affermato il socialismo di stampo rivoluzionario come Perù, Colombia, Messico e Cile.

La congiuntura sfavorevole ad una piena attuazione dell’indipendenza degli stati latinoamericani accomuna le varie nazioni secondo un unico canovaccio: la difficoltà nel passaggio di consegne tra il leader di riferimento e il proprio movimento politico nel momento dell’impossibilità di una ricandidatura (per sopraggiunti limiti di mandato o morte dello stesso), la procedura di impeachment attuata dagli ex alleati centristi nelle coalizione più progressiste che rivoluzionarie (come avvenuto per Lugo in Paraguay e per la Rousseff in Brasile), la mancata diversificazione della produzione interna, l’emergere di figure imprenditoriali di spicco a capo delle coalizioni neoliberiste (Mauricio Macri in Argentina e Sebastián Piñera in Cile).

A rendere tutto ancora più complicato è la mancata realizzazione dei progetti di cooperazione e sviluppo intercontinentali che molto spesso restano lettera morta, con l’unica eccezione dell’Alba (l’Alleanza bolivariana per le Americhe) nata su piani più ideologici che commerciali e del tutto innovativa rispetto ai vari Mercosur (Mercato Comune del Sud), Unasur (Unione delle Nazioni Sudamericane), Osa (Organizzazione degli Stati Americani). La caduta dei giganti Brasile (membro dei BRICS) e Argentina nella morsa del neoliberismo e l’accerchiamento del Venezuela stanno mettendo a repentaglio le conquiste sociali di cui la popolazione ha beneficiato nell’ultimo ventennio.

Sarà proprio il voto popolare, con la speranza che i temuti colpi di stato di cui è stato spesso vittima il continente facciano parte solo del passato, a sancire quale strada prenderà l’America Latina nel prossimo biennio in cui andranno al voto per le elezioni presidenziali Costa Rica, Paraguay, Colombia, Messico, Brasile, Venezuela, Argentina, Bolivia ed Uruguay.

(di Luca Lezzi)