Deficit o non decifit? Il dubbio della Germania che rischia la recessione

Deficit o non decifit? Il dubbio della Germania che rischia la recessione

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1. La recessione tedesca alle porte

Al di là dei confini nazionali italiani è rimbalzata insistentemente e con gran clamore una notizia di non poco conto: la Germania rischia la recessione tecnica (cioè, due trimestri consecutivi di PIL in valore negativo). Ovverosia, quella che dai più viene considerata la Locomotiva d’Europa, risulta in realtà esserne il più Grande Malato: a maggior ragione, perché trattasi del maggiore beneficiario della struttura sovranazionale europea, la quale gli ha fornito una moneta, l’euro, nettamente deprezzata rispetto alla sua economia, e con essa una facilitazione fattuale nell’applicazione del suo tipico modello mercantilista.

Come si può leggere sul Sole24Ore: «La recessione tecnica è alle porte in Germania: nel terzo trimestre, i primi dati economici in arrivo rilevano un clima della fiducia sempre più deteriorato ed una produzione industriale molto debole, anche se restano solidi i consumi interni ed il mercato del lavoro. […] Secondo l’economista di KFW (la CDP tedesca), Dr. Klaus Borger, la Germania ha così spalancato le porte alla recessione.

“L’escalation della guerra commerciale degli USA, il sempre più probabile caos su Brexit ed un’economia mondiale più debole sono la tempesta perfetta che ha iniziato a montare dalla scorsa estate. L’economia tedesca dipende dall’export e sta peggiorando di conseguenza, e ora rischia di cappottarsi in acque agitate”».

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Una recessione la quale, invero, a ben rifletterci, viene ad essere una sorpresa solo relativa. Infatti, come accennato in precedenza, il modello socio-economico tedesco è di tipo spiccatamente mercantilista, ovverosia orientato all’export: un’operazione che, peraltro, continuamente viola il limite del 6% imposto dai trattati europei di cui la Germania è firmataria, facendole addirittura raggiungere un valore assoluto maggiore di quello della Cina.

Tuttavia, un modello di tal fatta, che punta al di là dei confini tedeschi e che necessita di una continua espansione in questo senso, obbligatoriamente implica altre operazioni macro-economiche che permettano di potenziare la possibilità di surplus attivo nella bilancia dei pagamenti: e queste sono un abbattimento della domanda interna (e per ciò stesso dei consumi dei cittadini) ed una deflazione salariale che apprezzi il capitale e deprezzi il lavoro.

Il grosso limite e difetto di questo modello – che ha portato la Germania ad essere il principale Paese esportatore nella maggior parte dei Paesi europei, con poche eccezioni – è quello di porre il Paese in una duplice condizione: di forza e di debolezza. Di forza, perché capace di esportare i propri prodotti in altri Paesi ad elevato ritmo e ad altrettanto elevato profitto; di debolezza, perché infine esso costringe alla dipendenza dall’acquisto da parte di questi ultimi, che in caso di recessione e/o difficoltà economiche personali vanificherebbero gli sforzi mercantilisti tedeschi.

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Non è incidentale che, nel mese di agosto, le aspettative dello ZEW Economic Sentiment Index (indice di cadenza mensile, sintetizzante l’opinione di 350 esperti in materia economica) sull’economia tedesca abbiano dato la previsione di un crollo di oltre 44 punti percentuali, a dispetto dei circa 28 che pure erano stati inizialmente messi sul piatto delle statistiche e delle valutazioni.

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Quali soluzioni offre quindi il governo tedesco, al fine di invertire il trend? Che cosa pensa sia necessario fare per garantire il benessere dei propri cittadini? Una delle ipotesi attualmente ventilata è straordinaria, cioè ben al di là dell’usuale ed ordinario “modus cogitandi” dei tedeschi, e certamente sorprendente se abbinata a Berlino: aumentare il deficit statale, e quindi fare debito pubblico, per permettere degli investimenti interni capaci di mobilitare la domanda interna e lasciare maggiore ricchezza valutaria nelle tasche dei cittadini, oltre che opere pubbliche novelle o rinnovate.

Al di là dei voti e dei consensi, la discussione è aperta. Come riporta nuovamente il Sole24Ore: «Il governo guidato da Angela Merkel ha puntato finora su una crescita nel 2020 idealmente in ripresa attorno all’1%, se non di più. Ed ha sdrammatizzato sul PIL in contrazione. Tuttavia quelle rosee previsioni sono state basate nei mesi scorsi sull’aspettativa di un rimbalzo nel secondo semestre: se invece di rafforzarsi il PIL tedesco rallenterà nel terzo e fors’anche quarto trimestre, il 2020 sarà rettificato al ribasso. E così, stando a Der Spiegel, tanto la cancelliera quanto il ministro delle Finanze Olaf Scholz sarebbero disposti a rinunciare al diktat dello zero nero, lo Schwarze null».

Il cosiddetto “zero nero” è parte integrante del mantra economico liberale e liberista dei conti in ordine: trattasi, difatti, del pareggio di bilancio, dei conti in pareggio, dell’uguale misura delle entrate (tasse) e delle uscite (spesa pubblica) da parte dello Stato.


2. Una fobia vecchia di decenni

Per i tedeschi, infatti, la questione del debito pubblico (anche linguisticamente: «schuld», in tedesco, significa tanto “debito” quanto “colpa”) è di vitale importanza ed impatto. Alla fine della Prima Guerra Mondiale, la Repubblica di Weimar, costretta a folli riparazioni di guerra (cui Keynes fu contrario, tra gli altri), visse una grave situazione da questo punto di vista, corroborata dalla non secondaria occupazione franco-belga della Ruhr (la regione più industriale del Paese teutonico): fino al 1923, quando dette vita ad un nuovo marco, visse una situazione di iper-inflazione galoppante.

Tuttavia, è proprio in questo contesto che si situa un grosso errore di attribuzione storica: non furono la spesa pubblica eccessiva e l’eventuale relativa inflazione a fare largo al Partito nazista di Hitler, bensì la risposta neoclassica di austerità che il Cancelliere Brüning perseguì durante il suo mandato. Il suo obiettivo infatti «era ritornare a fare surplus commerciale ed ammortare il peso del debito (riparazioni di guerra) attraverso una politica deflattiva che avrebbe puntato a ridurre i salari per adeguarli al calo dei costi e dei profitti, riducendo le spese dello Stato in tutti i settori» – abbiamo già spiegato in una nostra risposta su Oltre la Linea a Moscovici mesi addietro.

Rinforzabile, pertanto, con un buon articolo del The Economist sulla vera e propria fobia dei tedeschi nei confronti del debito e dell’inflazione: «Uno studio sull’iper-inflazione recentemente pubblicato dallo storico britannico Frederick Taylor ha evidenziato come i nazisti avessero tratto molto più giovamento e beneficio [nella loro cavalcata elettorale] dalla deflazione, piuttosto che dall’aumento dei prezzi. Sebbene l’iper-inflazione abbia giocato un ruolo notevole nella destabilizzazione della politica tedesca e nell’indebolimento delle sue istituzioni durante gli anni Venti, furono la deflazione e la depressione dei primi anni Trenta che “Portarono la pianta avvelenata a far germogliare i suoi frutti” nella forma del nazismo».

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3. Ma la classe politica tedesca fin dove si vuole spingere?

A seguito di questa escursione storica, si può ritornare all’attualità attraverso la domanda posta in precedenza: i tedeschi sono pronti per il grande passo, socio-economico e culturale, di operare il tanto vituperato debito? Di fare investimenti pubblici per oltre 500 miliardi di euro, come taluni suoi esperti in materia riterrebbero necessario?

Parrebbe di no, nonostante che, sempre dal Sole24Ore, si possono apprendere numerosi dati a riguardo: «Un “piano Marshall” per la crescita non è per ora sul tavolo. La KFW, CDP tedesca, in un sondaggio recente condotto tra i tesorieri delle amministrazioni locali ha avuto conferma che il gap nelle infrastrutture a livello comunale è pari a 138 miliardi. I tesorieri comunali prevedono investimenti in crescita a 35,8 miliardi quest’anno contro i 34,7 del 2018 ma mancano 138 miliardi di cui 48 per le scuole, mentre il gap della rete stradale è di 36.

Il rinnovamento dell’edilizia nella Pubblica Amministrazione è indietro di 14,1, gli impianti idrici hanno bisogno di 6,5 miliardi di interventi. La montagna del gap infrastrutturale diventa ancor più alta a livello federale. Michael Hüther, direttore dell’Instituts der deutschen Wirtschaft, intervistato da F.A.Z. ha sostenuto che la Germania deve istituire un fondo da 450 miliardi per finanziare investimenti pubblici al ritmo di 45 miliardi per un decennio, in trasporti, digitalizzazione e banda larga, formazione e istruzione, edilizia popolare, R&S».

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Dunque, la realizzazione di questo piano, al momento, non sembra destinato a concretizzarsi. Eppure, vista la recessione in corso, la contrazione evidente dell’economia della Germania e le difficoltà delle sue aziende, una risposta costituita da una politica fiscale e monetaria espansiva, tale da ravvivare la domanda interna – anche venendo meno ai tipici diktat teutonici -, sarebbe quanto mai una boccata d’ossigeno per tutto il sistema.

Ne è sicuro Vladimiro Giacchè: «I tedeschi hanno vissuto per anni nella propaganda di un’assurdità economica: che il loro successo derivasse dal rigore sui conti. Ma 10 anni fa la Germania era entrata in crisi e ha risanato l’economia aumentando la spesa pubblica. Sarebbe utile sbarazzarsi di questa strana idea che la salute di un’economia derivi da avere i conti in ordine. L’equilibrio dei conti è la conseguenza di un’economia che funziona». Come già aveva avuto a dire Keynes decenni or sono: nel momento in cui un’economia sia sana per i cittadini che ne fanno parte, i conti si metteranno a posto da soli.

4. Il doppiopesismo dell’UE e la messa in discussione del modello tedesco

La crisi del modello tedesco è sempre più radicata persino all’interno della stessa Germania, che ne ha esportato i crismi e le peculiarità all’interno di quel sistema sovranazionale che risponde al nome di Unione Europea, ed alla quale hanno aderito la gran parte dei Paesi del Vecchio Continente. Quindi, data l’uguaglianza di ispirazione e modello fra regole tedesche e regole europee, è quanto mai lecito chiedersi: e l’Europa cosa ne pensa della possibilità, per quel che riguarda la Germania, di violare questa impostazione, cui Berlino ha piegato tutti gli altri Stati dell’Unione, a loro nocumento e discapito?

«Ridurre il debito degli Stati Membri non è un dogma assoluto», e «in alcuni casi specifici fare deficit è necessario», come si può leggere in niente di meno che un verbale della Commissione Europea. Ovverosia, come nella orwelliana Fattoria degli Animali, dove alcuni maiali sono più uguali di altri: laddove ad alcuni Paesi sia rigorosamente vietato fare certe cose, ad altri invece si può concedere di chiudere un occhio, se non addirittura entrambi.

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L’emersione del doppiopesismo dell’Unione Europea non è certamente cosa nuova: basti vedere alla diversità di trattamento tra la Francia e l’Italia sui deficit pubblici. Asimmetrie inevitabili all’interno di quello che Wolfagng Streeck ha brillantemente definito un “impero liberale“. Tuttavia, vederlo emergere a causa di quel medesimo membro, la Germania, che ha profondamente giovato del sistema ordoliberista europeo (laddove lo Stato è del tutto piegato alle logiche ed al servizio esclusivo dei mercati internazionali, ai quali sono stati concessi pieni poteri, augumentati dalla libera circolazione di merci, capitali e lavoro), fa un certo effetto.

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Germania, la contrazione del PIL, la difficoltà dell’export in un momento di instabilità internazionale, e la competizione estrema venuta in essere fra i vari Paesi a causa del modello mercantilista da sempre difeso ed applicato dalla Germania medesima, ha posto l’accento ed aperto una discussione – persino a Berlino – sulle deficienze, sulle lacune e sulle profonde fallacie di questa struttura socio-economica, la quale da decenni demonizza il debito e la spesa pubblica. Una scelta che ha condotto ad una progressiva deflazione salariale e ad un aumento della disoccupazione e della precarietà.

Particolarità evidenziata anche dall’economista Michael Hudson, che ha così descritto – in una sua imprescindibile intervista sulla de-dollarizzazione dell’impero finanziario americano – la politica perseguita dalla BCE della bassa inflazione e della stabilità dei prezzi: «I capi delle Banche Centrali stanno combattendo una lotta di classe. Si considerano generali finanziari nella lotta economica al lavoro, per danneggiare la classe lavoratrice, abbassare i salari e aiutare il loro elettorato, la classe dei ricchi investitori finanziari. L’Europa ha sempre avuto una lotta di classe più feroce rispetto agli Stati Uniti.

Non si è mai realmente sganciata dal suo sistema aristocratico post-feudale. I suoi banchieri centrali e le sue università seguono la scuola del libero mercato dell’Università di Chicago, affermando che la strada per diventare ricchi è di rendere poveri i lavoratori, creando un governo in cui la forza lavoro non abbia voce. Questa è la filosofia economica dell’Europa ed è per questo che non ha eguagliato la crescita che stanno vivendo la Cina ed altri Paesi».

La recessione tedesca, paventata ora anche dalla Bundesbank, sta contribuendo a ravvivare un dibattito socio-economico che, fino a qualche tempo fa, era monocolore ed ideologicamente indirizzato: quello sul deficit pubblico, e sulla necessità dell’interventismo statale per garantire investimenti, benessere ed un riequilibrio delle storture dei mercati.

Non è ancora facile prevedere, né men che meno sapere, come si evolverà tale dibattito in Germania, ma una cosa è certa: le difficoltà e le crisi (persino) di quest’ultima stanno evidenziando, in maniera sempre più chiara, i fallimenti dell’ordoliberismo e di tutte le sue peculiarità. Un sistema, fattosi anche e soprattutto moloch culturale, su cui vi è stata per decenni una martellante propaganda, volta ad enuclearne le ineluttabilità ed a spacciarlo come l’unica narrazione e soluzione possibile: una cecità finanche rabbiosa, oggi tremendamente scontratasi con la dura realtà.

(di Lorenzo Franzoni)

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