"Libra", la moneta di Facebook: i privati scavalcano gli Stati

“Libra”, la moneta di Facebook: i privati scavalcano gli Stati

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Libra: la moneta di Facebook

All’interno del sistema capitalista, il cui aggettivo stesso è parlante ed in sé pienamente esplicativo, il privato va alla ricerca del profitto. Nel modello neoliberista che ha assurto a propria divinità panteista la libera circolazione dei capitali (e tutte le nefaste conseguenze sociali che questa liberalizzazione senza freni ha portato in seno), questa ricerca è stata esacerbata, ed ha prodotto povertà molto più diffusa, allargamento della forbice sociale, finanziarizzazione dell’economia e concentrazione oligopolistica della ricchezza.

Il che significa: omologazione dei prodotti, augumento senza limitazioni del profitto (facilitato da un capitale, il cui flusso è stato deregolamentato), schiavizzazione progressiva e silente ad un modello consumistico, capace di travolgere ogni resistenza e di “glebalizzare” i popoli. Del resto: «Quando tutto sarà privato, saremo privati di tutto».

 

Tutti questi fattori – storici, economici, culturali – stanno dietro all’iniziativa di Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook, di creare la Libra, ovverosia una criptovaluta con funzionamento blockchain (struttura dati condivisa, immutabile e protetta da un sistema crittografico efficiente) attraverso la quale raggiungere oltre due miliardi di utenti nel mondo. Il suo White Paper ne enuclea il funzionamento, anche se in maniera piuttosto “grigia“.L'immagine può contenere: 1 persona, concerto, folla e testo

L’obiettivo però è chiaro, è cristallino: dare vita ad un vero e proprio sistema di pagamenti online che trascenda quelli tradizionali, persino quelli bancari (con l’intermediazione delle piattaforme online che ad essi accedono su consenso degli utenti), che funzioni a livello transnazionale, agganciandosi a valute reali, e che addirittura un giorno vada al di là della rete Facebook per la quale i suoi primordi sono stati concepiti. Questo sistema sarebbe completamente privato, verificato dagli adibiti al controllo e dagli autorizzati: infatti, la Libra non sarà distribuita (a differenza del Bitcoin), bensì centralizzata nella sua architettura blockchain (cioè, il contrario dell’intrinseca peculiarità del blockchain stesso).

Ovverosia, in parole povere: un privato creerà la moneta necessaria affinché gli utenti si scambino beni e servizi. Un “modus operandi”, peraltro, proprio già delle Banche Centrali indipendenti (nel particolare, si tratta per esse del “debito eterno“), come quella Europea, ma che in questo caso va al di là di ogni comune modo di intendere la moneta: non apparterrà ad uno Stato, non apparterrà ad una banca, bensì ad un privato imprenditore. Ad un silente imperialista, in certo qual modo.

In quanto – per utilizzare i concetti degli studi di Giacinto Auriti – la moneta non sarà di proprietà del portatore, ma del creatore, che indurrà alla sua volontaria accettazione attraverso presupposti quali la semplicità dello scambio e la sua gratuità. Al prezzo del controllo, mascherato da libertà, e della dipendenza, che ha stretto la presa solo dopo aver serpeggiato per tutto il corpo sociale e civile delle persone, insinuandosi nei rispettivi Stati nazionali.

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Non incidentalmente, si sono uniti al consorzio che gestirà la Libra una serie di multinazionali molto potenti, molto diffuse nel mondo, con utili da capogiro: Uber, Spotify, E-Bay, MasterCard, Paypal, VISA, Vodafone e tante altre ancora. La loro diffusione estremamente capillare in tutto il mondo, la variegata molteplicità delle loro funzioni, spingono a fare una previsione quasi scontata: la nuova moneta globale di Facebook non soltanto verrà accettata, ma troverà anche una vastissima quanto rapida dilatazione del suo uso e delle sue competenze, giungendo anche ad oltrepassare il web.

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Una moneta privata, gestita da privati

Mentre Facebook sta discutendo della propria valuta mondiale con la Federal Reserve, e mentre la Camera statunitense ha espresso un voto bipartisan contrario all’introduzione della suddetta, occorre cercare di comprendere la natura della Libra, e perché ha (giustamente, anzi in maniera sacrosanta) attirato su di sé tante attenzioni (anche se, ancora, non abbastanza dal mondo della politica).

In precedenza, essa è stata chiamata criptovaluta: in certo qual modo, è un amalgama fra le due parti, senza essere pienamente nessuna delle due. Il sistema blockchain, attraverso il quale funzionano i bitcoin, verrebbe centralizzato, e per ciò stesso snaturato; non sarebbe una moneta nel senso normalmente inteso (creata cioè dalle uniche entità che potrebbero crearla: gli Stati, e le Banche Centrali sotto commissione di questi ultimi), ma assumerebbe i connotati di una vera e propria valuta elettronica (nella cui forma oggi girano la gran parte dei pagamenti e degli spostamenti di capitali, specialmente se ingenti).

Tuttavia, i connotati più clamorosi – come evidenzia Business Insider Italia – vengono in essere non tanto nella sua natura ibrida, una sfida notevole per il mondo della fintech, quanto nel suo modo di creazione: la Libra disporrà di una Banca Centrale, che conserverà i dollari e gli euro ai quali la valuta di Facebook si aggancerà, per stabilizzarne le eventuali fluttuazioni.

Il consorzio di aziende multinazionali che ci sta dietro si ritroverà quindi a battere moneta in qualità di entità capitalistica privata, finalizzata al profitto, distribuendola via web agli utenti e contemporaneamente accumulando miliardi di dollari in riserve valutarie. Le cifre stimate supererebbero di gran lunga quelle proprie di molte Banche Centrali nazionali, ivi compresa quella italiana.

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Una riflessione sulla questione nasce spontanea, e non può che partire, con il proprio itinerario, da domande banali, forse finanche riduttive, ma necessarie: è possibile che dei privati possano creare valuta dal nulla (o, più specificamente, sintetizzare quelle esistenti)? È pensabile che uno Stato non abbia facoltà di battere moneta, mentre un’azienda sì?

Nel mondo odierno, anno domini 2019, esistono ben due aree valutarie dove gli Stati, attraverso una nefasta scelta politica (vuoi per collusione, vuoi per ignoranza, vuoi per tacita costrizione), hanno optato per cedere (tutta od in parte) la propria sovranità in materia monetaria, fiscale e di cambio: l’eurozona e la comunità dei 14 Paesi africani che adottano il Franco CFA.

Attraverso un meccanismo di funzionamento simile – pur con i dovuti distinguo -, entrambe le monete incatenano gli Stati che le adottano, impediscono loro di legare la propria politica economica a sovrane scelte democratiche (giuste o sbagliate che siano, sono frutto del mandato del popolo). Attraverso il rigore dei conti e gli obiettivi della stabilità dei prezzi e della bassa inflazione, esse permettono (anzi, stimolano) una progressiva macelleria sociale, che va a discapito della maggioranza e che contribuisce invece ad arricchire i già benestanti, gli industriali, il mondo finanziario e così via.

In entrambi i casi, gli Stati (non-più-)sovrani sono costretti a chiedere in prestito, a variabili tassi di interesse, due valute create dal nulla, prive di valore intrinseco e sganciate da qualsiasi valore reale, da qualsiasi materiale prezioso (il regime di Bretton Woods è caduto nell’agosto del 1971, con una scelta unidirezionale del presidente americano Richard Nixon).

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Dunque, come è possibile che un’azienda come Facebook – per di più, marcatamente favorita nella tassazione dai paradisi fiscali, (in buona compagnia di Amazon ed altre, peraltro rivali) – possa battere la propria moneta, mentre uno Stato no?

Il contesto di progressivo svuotamento delle sovranità nazionali, di competitivismo sfrenato e sregolato con la giustificazione della libertà individuale, di schiacciamento dei più deboli e dei non allineati, di imperialismo finanziario, di menzogna mediatica, rende la domanda di cui sopra non inutile, ma quanto meno retorica. Infatti, consentire legislativamente ad una multinazionale di dare vita ad una propria valuta, quando degli Stati espressione della sovrana democrazia popolare sono costretti a giocare con le mani legate dietro la schiena, è parte integrante di questo processo.

È una fattezza naturalmente sorta ed emersa in questo mondo progressivamente spinto sempre più in là: una distopia che gli alfieri del liberismo (leggasi, il Sole24Ore) non possono che difendere a spada tratta, postulando il mai domo teorema dei vizi privati la cui somma crea virtù pubbliche, dell’avidità individuale che arricchisce la società. Una distopia, i cui contorni e le cui sfumature hanno trovato una evidente epifania in un recente fatto di cronaca d’Italia e d’Unione Europea: la questione dei minibot.


La natura dei minibot


Nel mese di giugno, a seguito della mozione parlamentare approvata sullo sblocco dei pagamenti della Pubblica Amministrazione italiana nei confronti delle imprese presenti sul territorio nazionale, è nato un ampio dibattito sui minibot, un intelligente strumento elaborato da Claudio Borghi, economista e deputato della Lega, ancora nel lontano 2011: titoli di Stato di piccolo taglio, anche utilizzabili per il pagamento delle imposte.

Questi ultimi non si comprano, ma si accettano, ed unicamente in maniera volontaria. Infatti, non sono né una valuta parallela né emissione di nuovo debito – come molti osservatori hanno paventato -, bensì una cartolarizzazione del debito già esistente della Pubblica Amministrazione verso le imprese italiane in credito verso lo Stato. In un regime di (indotta ed obbligata) austerità, dopo quasi trent’anni di avanzo primario, fornire una buona quantità (70 miliardi di euro) di strumenti di scambio di beni e servizi per ossigenare l’economia interna – che Monti ed altri hanno provveduto a deprimere – potrebbe essere una soluzione eccellente.

Questo provvedimento, osteggiato da molti fronti interni (il PD, il Ministro dell’Economia Tria ed altre fronde) e naturalmente da quello esterno europeo, potrebbe essere, inoltre, culturalmente rivoluzionario, già soltanto per il fatto che esista e che politicamente venga discusso, in quanto mostrante una realtà fattuale semplice, ma incompresa: la moneta è un simbolo, una convenzione, e non ha valore a meno che non venga riconosciuta (dallo Stato e dai cittadini).

I minibot sono titoli cartolarizzati senza scadenza, il cui obiettivo principe è quello di assumere forma di moneta (pur senza esserlo) per assolvere la funzione della valuta e permettere così di ravvivare la domanda interna, circolando nel mercato privato. In assenza di liquidità dalla BCE per assurdi vincoli di bilancio, essi rappresenterebbero una boccata d’ossigeno notevole, per quanto provvisoria (ma la provvisorietà dello strumento è intrinseca al modo in cui è stato concepito), para-monetizzando il debito nel circuito interno.

La loro natura, oltre che rispettare i trattati europei, non è né truffaldina né da filibustieri, ma anzi è un provvedimento che, nel contesto internazionale all’interno del quale l’Italia si trova, risulta molto brillante e di raziocinio, in quanto conscio della natura della moneta moderna.

L’Italia, infatti, ha ceduto la sua sovranità in materia di politica monetaria (che viene condotta dalla BCE), parzialmente in materia di politica fiscale (i vincoli al deficit indirizzano necessariamente la spesa pubblica e la tassazione verso un certo “modus operandi”), in materia di politica del cambio (la moneta unica, l’euro, è un accordo di cambi fissi).

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In questa condizione, salvo un recesso politico da queste regole assurde ed ingabbianti – previa preparazione di un piano industriale nazionale, di accordi internazionali bilaterali e di una programmazione ferrea -, ogni provvedimento non può che essere parziale, provvisorio, poco risolutivo. I minibot sono, vogliono essere, uno strumento teso ad ossigenare un Paese strozzato, la cui natura richiama i “tax-backed bonds” elaborati da Warren Mosler ancora sette anni fa: crediti d’imposta usati come valuta e mezzo di pagamento circolante, tradotti in Italia da Marco Cattaneo ed il suo gruppo di studiosi come Certificati di Credito Fiscale (che il M5S vorrebbe portare in discussione in Parlamento attraverso il deputato Pino Cabras). Misure che, peraltro, mai sarebbero state necessarie neppure da pensare, se non fosse venuta in essere con Maastricht una struttura sovranazionale che ha profondamente danneggiato l’Italia.

In conclusione, volendo ritornare all’argomento Libra, viene da chiedersi: come è possibile che regolari titoli i Stato cartolarizzati sollevino un vespaio di proporzioni bibliche, mentre invece una valuta creata dal nulla da un’azienda multinazionale – tesa ad universalizzarsi – abbia generato soltanto qualche (per ora) timida protesta?
Anche in questo caso, la risposta appare semplice: essa fungerebbe da ulteriore strumento per depotenziare gli Stati, un obiettivo perseguito con costanza anatomica negli ultimi quarant’anni. Soprattutto attraverso una costante ascesa di leve economiche che hanno espropriato la politica della propria forza, insinuandosi nella democrazia ed inficiando l’essenza stessa di quest’ultima.


Lido di Libra: una spiaggia sconosciuta

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Una giusta riflessione viene posta in essere dal quotidiano Linkiesta: «Ma questo ci dovrebbe sollecitare a elaborare nuove forme politiche, non necessariamente di “controllo” ma di salvaguardia dall’opacità tecnologica a cui progetti come quello di Facebook sembrano votare quel bene altamente simbolico che è la moneta. Ci dovrebbero indurre a chiederci che forma assumono oggi i monopoli naturali, e che forma avrebbe una gestione pubblica, nel senso di trasparente, delle piattaforme che la tecnologia ci mette a disposizione».

Parte del titolo dell’articolo – che, nella conclusione, stimola a ripensare alla soluzione keynesiana a Bretton Woods di una moneta internazionale, non unica, per il libero commercio ed al contempo il disarmo finanziario – “qualcuno svegli gli Stati”, è doppiamente esplicativo. In primo luogo, della necessità che gli Stati tornino a fare gli Stati; in secondo luogo, del processo che da lungo tempo li sta depotenziando.

Di questo processo, il paradigma della Banca Centrale indipendente è (ed è stata) parte integrante, ed oggi tiene in scacco l’Europa: interpretando le regole per i figli (la Germania, oltre ad avere una moneta più debole della sua economia, ancora usa i marchi; la Francia gestisce il sistema del Franco CFA), applicandole per i figliastri (la Grecia è stata ricattata con il taglio della liquidità; l’Italia sta subendo un’assurda procedura di infrazione, condita dai timori che i minibot funzionino, come affermato da Wolfgang Munchau).

Vale dunque la pena lanciare un’ultima considerazione sull’importanza della gestione della moneta. Quest’ultima è uno strumento di scambio di beni e servizi, un simbolo che assume valore unicamente in via condizionale, perché accettata (il giornalista napoletano Francesco Amodeo ha lanciato un’iniziativa coraggiosa e significativa sui “minibot” da usare per pagare il suo libro), e per ciò stesso sarebbe estremamente importante che sia pubblico.

Il fatto che gli Stati abbiano progressivamente ceduto terreno su questo monopolio, li ha condotti a complicarsi in maniera netta la propria situazione finanziaria, i cui dettami si sono sganciati dalla politica e l’hanno soverchiata: l’umana creazione è giunta a gestire e schiavizzare l’uomo.

Per quanto il mondo delle criptovalute esista da tempo, la nuova “moneta di Facebook”, la Libra, ha destato allarmi e preoccupazioni non soltanto per la sua natura ibrida, ma anche per la potenza economica che essa fa trasparire (e verso cui altri giganti si stanno cautelando). Mentre un privato cittadino, se creasse ed usasse (ad esempio) delle sue banconote, verrebbe chiamato falsario, una multinazionale si può invece permettere di bypassare gli ostacoli legali del caso, dando vita addirittura ad una propria valuta, che non farebbe che portare al massimo grado il proprio potere, cristallizzando dei rapporti di forza, da tempo venuti in essere con una serie di provvedimenti legati alla deregolamentazione (di cui si sono enucleati gli aspetti all’inizio), nei quali gli utenti si troverebbero immersi senza neppure essersene accorti.

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Non incidentalmente ha notato Business Insider Italia: «L’obiettivo, per nulla mascherato, è infatti quello di rendere Libra una valuta internazionale, alternativa non tanto al Bitcoin – la sfida naturale, considerato che si tratta in teoria di due criptovalute – quanto piuttosto al dollaro. E cioè di trasformarla nella moneta di scambio su scala globale, adottata potenzialmente da due miliardi e mezzo di persone, quanti sono coloro che usano attivamente il social network, ma anche – come ha specificato il capo – da 1,7 miliardi di persone nel mondo che non hanno un conto in banca, o che sono stufe di versare le commissioni a carte di credito o ai servizi di invio digitale del denaro. Potenzialmente, sul lungo periodo, spazzando via qualsiasi competitor».

Ovverosia, creare un monopolio privato di gestione della moneta, la cui forza e diffusione siano tali da sostituirsi a qualunque altra, dando alla luce di fatto una “world currency”. Le conseguenze di quest’operazione sono ignote, ovviamente, ma le premesse sono parlanti.

Per di più, il fatto che il The Economist, settimanale d’informazione britannico, usasse esattamente i termini “world currency” in una sua prima pagina, datata 9 gennaio 1988, riferita a trent’anni dopo (il 2018), non può che evocare sinistri presagi: Orwell scrisse “1984” nel 1949; Huxley (de)scrisse nel 1932 quello che sarebbe stato “Il Mondo Nuovo”.

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Questa, che potrebbe venire presto in essere, sarà quindi una distopia (invero, già parzialmente realizzata)? Una Matrix (invero, già fattualmente in atto)? Solo il tempo ce lo dirà, ma una cosa è certa: noi ne saremo parte integrante, ed avremo bisogno di tutta la nostra resilienza.

(di Lorenzo Franzoni)

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