Debito e moneta: la favola di Kalecki

Debito e moneta: la favola di Kalecki

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Il linguaggio iconico, agente attraverso immagini e metafore, spesso conferisce alla narrazione dei fatti un sapore più familiare, che favorisce la comprensione di tutti i suoi fruitori: esso, infatti, imprime nella mente effigi e fotografie della realtà, attraverso spiegazioni semplici.

La natura “politica” della moneta come strumento di scambio di beni e servizi, e l’importanza della sua circolazione nel circuito economico di un Paese, sono ad esempio alcuni aspetti della realtà mai indagati abbastanza, eppure di importanza imprescindibile. Mai sufficientemente resi noti al grande pubblico, per un padroneggiamento diffuso dei concetti. Specificità macro-economiche per le quali viene adottato un idioma complesso, costituito da grafici, numeri, tabelle e statistiche, ma che potrebbe invero essere molto più afferrabile, immediato, pulsante.

A questa operazione di semplificazione, servono le storie. E, in merito alla tematica di cui sopra, ve ne è una estremamente interessante, che potrebbe enucleare tutti gli aspetti più elementari, e per ciò stesso più nascosti, della natura della moneta e del concetto di debito cui essa afferisce. Si tratta di una delle numerose favole di Kalecki.


Come nasce la storia

Michal Kalecki fu un importante economista polacco del XX secolo, capace di fornire un “punto di vista alternativo” rispetto alla narrazione neoclassica, la quale commetteva l’errore fondamentale e basico di partire dalla struttura microeconomica per andar cercando soluzioni di livello macroeconomico. Ma i due universi, per quanto tangenziali e reciprocamente coinvolgenti, non possono fornire le medesime soluzioni a problemi di natura differente.

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Lo studioso di Lodz fu in grado, nella sua vita, di creare un connubio fra le teorie economiche di Karl Marx e quelle che sarebbero venute in essere con la “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” di John Maynard Keynes. Giungendo alle medesime conclusioni del grande pensatore britannico: il corretto usufrutto degli strumenti economici – umana invenzione, ed analisi del reale – può benissimo indirizzare le infinite potenzialità degli uomini, le loro risorse e la loro tecnica alla piena occupazione, e con essa alla piena e diffusa dignità ed emancipazione della vita di ogni individuo.

Kalecki, con i suoi studenti ed i suoi interlocutori, si serviva spesso di storie tratte dalla realtà, od ispirate ad essa, per avvalorare le proprie tesi. Come riporta il docente (alla SOAS University of London) Jan Toporowski in un suo Working Paper, una delle più famose fu, senza ombra di dubbio, quella raccontata negli anni Sessanta ad un suo studente polacco, Kazimier Laski, e riguardante la visita di un ricco ebreo ad una locanda nella Polonia dell’Est durante gli anni Trenta.

La favola di Kalecki

Nel 1935 in Polonia, a seguito della morte di Jozef Pilsudski, una giunta di militari prese il potere, con l’intenzione di mantenerlo saldo attraverso una politica economica che desse loro credito presso la popolazione, una buona parte della quale era ridotta alla miseria. Per farlo, i colonnelli chiamarono un collega di Kalecki, Ludwik Landau, affinché spiegasse ai loro responsabili il funzionamento basilare della macroeconomia, delle sue peculiarità e delle sue sezioni (debito, credito, produzione, occupazioni, cicli e via discorrendo).

Il professore provvide a dare loro tutti i concetti e le spiegazioni di cui avevano bisogno, senza tuttavia ottenerne risultati soddisfacenti. Così, optò per cambiare strategia. Decise di raccontare una storia, con la quale avrebbe illustrato gli effetti delle sue teorie nella realtà quotidiana dei cittadini: non poteva che essere ambientata, naturalmente, nel loro Paese.

“All’epoca, la Polonia orientale stava vivendo un periodo di profonda difficoltà, in mancanza di lavoro e di risorse. In particolare, una piccola cittadina ebraica ne era l’emblema: i suoi cittadini continuavano a vivere di debiti, incapaci di ripagarli e per ciò stesso sempre costretti a cercare di almeno galleggiare nella loro impantanata situazione.

Un giorno però, giunse nel minuto paesino un ricchissimo e pio ebreo, che si registrò alla locanda lì presente, l’unica nei paraggi che potesse ospitarlo. Egli ebbe premura di pagare subito il conto, lasciando in custodia all’oste una banconota da 100 dollari per la sua lunga permanenza. Tuttavia, per motivi del tutto ignoti ed in via del tutto inaspettata, egli partì il giorno dopo, senza lasciare tracce né indicazioni sulla protezione dei soldi che avrebbe voluto lì investire.

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Passato qualche giorno, l’oste non vide arrivare l’ebreo alla sua locanda, e pensò che non avrebbe più fatto ritorno. Così, decise di dare seguito alla piccola fortuna che aveva in mano, quei 100 dollari che non avrebbe più potuto restituire, in mancanza del fruitore che glieli aveva dati in custodia. Pagò gli arretrati che aveva con l’emporio del posto, e rifornì la sua piccola attività di nuove cibarie da dare e cucinare agli ospiti. Il gestore dell’emporio, contento di quanto era riuscito sia a riavere sia ad ottenere, dette la banconota alla moglie perché la sorvegliasse e preservasse. Tuttavia, la donna non gli dette ascolto, e li spese dalla sarta del paese, la quale era in credito con lei di diversi abiti su misura, ai quali aveva lavorato assiduamente e con impegno.

Felice di aver visto il proprio lavoro finalmente ripagato, la sarta sfruttò quei 100 dollari per pagare gli arretrati al suo padrone di casa, che nel frattempo si era fatto insistente nelle sue richieste di pagamento. Anche costui scelse per l’investimento di quei soldi, con quella che Fabrizio De Andrè avrebbe cantato come la “bocca di rosa” del villaggio, per i suoi pregevoli servigi.

La donna fu a sua volta estremamente contenta di aver ottenuto una così alta somma di denaro, in quanto essa consisteva esattamente nella cifra che doveva restituire all’albergatore locale, nella cui locanda aveva spesso affittato le camere per ospitare i suoi clienti e fare il suo lavoro. In tal modo, la famosa banconota da 100 dollari era ritornata a colui che per primo l’aveva avuta e messa a disposizione: l’oste.

Peraltro, giusto in tempo: infatti, proprio nel dì in cui egli la ebbe indietro, il ricco e pio ebreo era ritornato nella cittadina, per riprendersela, visto che l’aveva lasciata in custodia, senza infine usufruire dei servizi per cui l’aveva sborsata. Il locandiere tirò un sospiro di sollievo, soddisfatto per il fatto che infine avesse potuto restituirla. Ma, improvvisamente, un colpo di scena gli provocò sgomento e sorpresa. Il ricco ebreo, davanti ai suoi occhi, dette fuoco alla banconota, usandola per accendersi un sigaro, con un lapidario commento: «Tanto era falsa».”

Dalla favola alla realtà: il portoghese Reis

Alla fine di questo racconto, il colonnello cui era stato sottoposto (da Landau) stette un attimo a pensare, a meditare, salvo poi esclamare: «Sapevo sin da subito che c’era qualcosa che non andava in quell’ebreo!».
Questa favola di Kalecki, risalente agli anni Sessanta, si concludeva con una considerazione dell’economista polacco di crudo realismo: la maggior parte delle persone la pensa esattamente come il colonnello, senza capacità o volontà di entrare nei gangli della storia e dei suoi insegnamenti. Ovverosia: di fronte alla bellezza ed alla grandezza della Luna, moltissimi si perdono a guardare i dettagli “errati” del dito che la indica.

La storia è naturalmente costruita ed inventata, ma si ispira invero a fatti realmente accaduti: fatti di truffe e trafficanti di debito che egli ebbe modo di constatare ed osservare già a partire dagli Anni Venti, quando viaggiò moltissimo in Europa come giornalista economico. Di certo, il più celebre tra questi eventi – ben descritto nel volume di Sergio Cesaratto “Sei lezioni di economia” – fu la gargantuesca frode bancaria che lo spregiudicato ed astuto avventuriero portoghese Arturo Virgilio Alves Reis (1898-1955) perpetrò nei confronti del Banco del Portogallo.

Costui era stato uno dei tanti cittadini portoghesi penalizzati dalle politiche deflazionistiche che il loro Paese aveva avviato a seguito della fine della Grande Guerra, per stabilizzare il tasso di cambio dello scudo portoghese. Queste ultime, per proteggere il valore della moneta, avevano dato vita ad un piano strutturale di diminuzione degli investimenti pubblici, con conseguente crollo della domanda interna, restringimento del credito alle imprese ed aumento della disoccupazione: in una situazione tanto complicata, l’austerità volta alla stabilità dei prezzi non fece che danni.

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Così, lo scaltro Arturo Reis elaborò un piano che si rivelò estremamente efficace. Dal momento che stampare soldi falsi avrebbe costituito una truffa efficace nel breve periodo ma facilmente scoperchiabile, stampare soldi veri attraverso certificati falsi sarebbe senza ombra di dubbio stato più redditizio. Proprio tale stratagemma ebbe successo: attraverso firme false, intermediazioni finanziarie, clausole contrattuali nascoste, corruzioni e viaggi clandestini di documenti, ottenne il riconoscimento a stampare denaro per conto del Banco del Portogallo attraverso un’azienda inglese, la Waterlow & Sons. Il pretesto: finanziare progetti strutturali nella colonia dell’Angola.

E lo fece, attraverso una Banca di Investimenti (fondata da lui e dai suoi soci) la quale, tuttavia, non si limitò al territorio africano, ma guardò anche alla madrepatria, per la quale Reis – al di là del tornaconto personale – aveva progettato un novello boom economico, tramite quegli stessi strumenti monetari che il suo Paese avrebbe potuto utilizzare, ma che si rifiutava di adottare e sfruttare.

Reis perseguì un ribasso del tasso di cambio dello scudo, stimolando così la domanda interna e rialzando un’economia stagnante. Fu scoperto per il suo eccessivo acquisto di azioni della Banca Centrale portoghese – in quanto, comunque, come detto, perseguì scopi di arricchimento personale -: nel dicembre del 1925 fu arrestato e condannato a vent’anni di prigione, e così i suoi complici. Morì povero.

Il Portogallo dovette affrontare un serio imbarazzo a livello internazionale, per il colossale inganno cui era stato sottoposto. Tuttavia, a diversi suoi cittadini poco importò di questa perplessità da parte degli altri Paesi: erano stati in parte alleviati dai loro disagi, avevano potuto lavorare e guadagnare di più, ed avevano avuto la possibilità di risollevarsi dalla loro miseria. E tutto questo, semplicemente grazie all’immissione nel sistema della liquidità di cui avevano bisogno per scambiarsi beni e servizi. Anche se “falsa”.


Una riflessione sulla moneta

Che cosa imparare dunque dal racconto di Kalecki? Parte della sua verità ce la enuclea lo stesso Arturo Reis, magistralmente interpretato dall’attore Paolo Stoppa nella miniserie televisiva italiana “Accadde a Lisbona”, del 1974: «Esistono due maniere di fare soldi. La prima – la più logica, la più diffusa – è quella di guadagnarli. La seconda è quella di farli. Letteralmente, di crearli dal niente, come fa lo Stato, che su un pezzo di carta di nessun valore scrive il valore che da quel momento dovrà avere».

Naturalmente, questa dichiarazione è figlia della volontà di arricchimento personale che ebbe lo stesso Reis quando perpetrò la sua truffa. Nel monologo della puntata da cui è tratta la citazione, per di più, si paventa il sempreverde rischio di inflazione: l’unico appiglio, al giorno d’oggi, per le teorie dei contemporanei aedi del liberismo. Ma, sempre nella succitata dichiarazione, è nei dettagli che si nascondono tanto il diavolo quanto le soluzioni più interessanti: i soldi vengono creati dal nulla, e non hanno alcun valore. Almeno, ufficialmente a partire dal 1971, da quando la fine del “gold exchange standard” decretò la nascita della moneta Fiat.

Anche nella favola di Kalecki i soldi adoperati dal ricco ebreo per il pagamento della propria permanenza (poi sfumata) erano falsi, eppure essi permisero la cancellazione dei debiti di tutte le persone coinvolte nella loro circolazione, che in tal modo ebbero uno strumento attraverso il quale scambiare il loro lavoro con i servizi di qualcun altro. Come si suol dire, nel linguaggio comune: «fecero girare l’economia». In un sistema deficitario di liquidità, anche un “falso” ha costituito una boccata di ossigeno non indifferente. E per un semplicissimo motivo: perché è stato accettato da tutti.

L’unico valore della moneta è di tipo politico. Nel momento in cui la comunità in cui essa circola la accetti come metodo di pagamento, allora essa ha valore; in caso contrario, rimane mera carta (o vuoti zeri sui fogli di calcolo di un computer). I cittadini le conferiscono valore per il fatto che lo Stato in cui vivono le accetta come metodo di pagamento delle imposte: è il principio cartalista di sovranità, secondo il quale una nazione emette valuta per permettere ai suoi cittadini lo scambio di beni e servizi, raccogliendola sotto forma di tasse con il fine non di finanziare la spesa pubblica (la moneta si crea dal nulla), bensì di raffreddare o riscaldare l’economia.

Attualmente, ad esempio, l’Italia si trova in una condizione di perenne deflazione, dal momento che la Banca Centrale Europea – cui ha delegato l’operazione di emissione della moneta – crea dal nulla l’euro con il solo obiettivo di mantenere stabili i prezzi. Un’operazione che, in mancanza di liquidità, giova unicamente chi questa già la possiede (ovverosia, i ricchi): a maggior ragione, in un sistema dove si stimola la competitività sfrenata, la quale non può che gravare sugli stipendi e quindi sul potere d’acquisto delle persone, che progressivamente diminuiscono entrambi.

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In un abisso potenzialmente infinito, in mancanza di misure efficaci di rinsavimento dell’economia: questa è la logica liberista che sta dietro al paradigma della scarsità monetaria .

«Ó mýthos déloi óti»…

La favola di Kalecki ci insegna che ogni strumento di scambio può essere buono, nel momento in cui venga accettato da chi ne usufruisce per beni e servizi. Perciò, con un’abbondanza di disoccupati che potrebbero ricoprire più ruoli, con un’enormità di mezzi e risorse a disposizione, con una grande quantità di lavoro da compiere… Quanto può essere stolto (per non dire criminale) non dare alle persone quel mezzo, creato dal nulla e privo di valore intrinseco, affinché esse si attivino?

La risposta può essere duplice: o per ignoranza; oppure – ed è l’ipotesi più terribile, eppure più verosimile – per consapevole “modus operandi”. Infatti, l’organismo internazionale deputato alla creazione della valuta per l’euro-zona, la BCE, pur potendone emettere una quantità potenzialmente infinita, non soltanto non sostiene la crescita dell’occupazione negli Stati – in quanto indipendente, e quindi svincolata dalla politica e dalla democrazia -, ma addirittura applica politiche di austerità che mantengono le nazioni nella spirale deflattiva di cui sopra.

Esiste persino, come riportato da Guido Salerno Aletta su Milano Finanza, un livello minimo di disoccupazione richiesto affinché i prezzi rimangano stabili e l’inflazione non salga. Le sole parole fanno accapponare la pelle: «un livello minimo di disoccupazione». Ovverosia, si richiede un certo quantitativo di povertà, affinché coloro che ancora non la stanno sperimentando possano avere per i loro soldi un valore stabile.

Dunque, non può che essere coerente (e necessario) affermare che la struttura sovranazionale europea – irriformabile, nella sua insensata “illeggibilità” – non soltanto soffra di profondi deficit democratici, ma persino di deficit di buonsenso economico (nel momento in cui ancora non si desideri intraprendere la pista dolosa).
In questi, rientra la mancata comprensione della natura della moneta e dei suoi scopi: essa rappresenta un mero mezzo di scambio, di nullo valore se non per il fatto che i suoi fruitori lo riconoscano come valido. Questo mezzo potrebbe essere adoperato per abbattere la disoccupazione, per dare un lavoro a tutti e consentire anche ai più umili una vita degna di essere vissuta.

È esattamente questo che insegna la favola di Kalecki (corroborata dalla storia realmente accaduta di Reis e del Banco del Portogallo): 100 dollari falsi hanno rivivificato e ravvivato l’economia depressa di un piccolo paese polacco con il semplice riconoscimento che le persone le hanno conferito. Poco importa che essi fossero falsi.
Questa ovviamente non vuole essere un’apologia di reato, ma una lettura tesa a chiarificare un concetto. Un concetto del quale anche un fatto recente d’Italia potrebbe essere emblema. Nel marzo del 2019, sotto le mentite spoglie di una macelleria, è stata scoperta a Napoli una zecca di euro falsi, che aveva stampato banconote da 50 per un totale di ben 36 milioni.

Ecco, un ragionamento provocatorio del giornalista Francesco Amodeo su questo peculiare evento potrebbe far profondamente riflettere:

«Vi spiego perché i falsari dell’euro sono quelli della BCE e molto più di quelli arrestati a Napoli. I falsari creano la moneta e poi la spacciano a chi la richiede. Per ogni banconota di 10 euro, loro in cambio non richiedono il valore nominale, ma quanto è stato speso per fabbricarla maggiorato da una quota di guadagno per loro stessi come avviene in una normale tipografia. Nel mercato delle banconote contraffatte una banconota di 10 euro viene venduta per 3 euro circa.

Questo perché chi la richiede deve a sua volta avere un guadagno se riuscirà a smerciarla. Quella banconota genera quindi un credito sia per chi la fabbrica sia per chi la richiede e poi la usa. Se anche la richiesta di quelle banconote dovesse aumentare vertiginosamente e quindi per la legge della domanda e dell’offerta il suo prezzo dovesse lievitare, il falsario sa bene che quel prezzo non potrebbe ma essere pari né tantomeno superiore al valore nominale.

[…] Vediamo invece cosa avviene con la BCE: la moneta viene creata sganciata da qualsiasi tipo di copertura, […] ma questa volta viene data in prestito a chi la richiede ad un prezzo che tiene conto non solo del valore nominale (quanto c’è scritto sopra e non quanto è stato speso per fabbricarla). Esempio: una banconota da 10 euro viene “venduta” a 10 euro e non a 20 centesimi, che è il prezzo della carta più il lavoro di manodopera per fabbricarla.
Ma non solo, essa viene anche gravata di interessi. In pratica chi fabbrica gli euro (quelli considerati autentici) per ogni banconota di 10 euro ne richiede in cambio 12. Questo sistema genera un credito infinito per chi la emette ed un debito inestinguibile per chi la richiede. Perché al momento che la moneta viene richiesta il richiedente è già automaticamente indebitato».


Postilla conclusiva

Il messaggio è chiaro: perché dover ricorrere al prestito (privato) con interessi di una moneta senza valore e creata dal nulla, quando uno Stato potrebbe fare la stessa operazione gratuitamente? Perché mantenere una bassa liquidità monetaria in un sistema che necessariamente la richiede per funzionare, specialmente se in deflazione? Perché dire che “non ci sono i soldi” se essi sono mera invenzione umana?

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Per l’Italia, esisterebbero varie soluzioni – la Moneta Positiva (di proprietà dei cittadini e libera dal debito) di Fabio Conditi, la Moneta Fiscale di Stefano Sylos Labini, un modello impostato sul SIMEC (moneta a credito e di proprietà del portatore) di Giacinto Auriti, una lira parallela come suggerito da Worren Mosler – che potrebbero accompagnarla senza traumi e progressivamente fuori dalle follie contabili dell’euro. Soluzioni che ravvivino la domanda interna e risollevino l’economia. Tuttavia, il primissimo problema cui porre rimedio è quello di tipo culturale. È quello che si innerva sul pensiero e sulle idee delle persone.

Ovverosia: occorre comprendere (e far comprendere) che la moneta, senza un riconoscimento politico, è priva di qualsiasi valore. Senza i cittadini, è priva di valore. E, con i cittadini, qualunque mezzo di scambio può avere valore, purché riconosciuto: poterlo creare gratuitamente, nella quantità necessaria a far circolare il sangue nelle vene e nelle arterie del corpo economico di una nazione, è sovranità e democrazia.

La parabola kaleckiana lo suggerisce con semplicità adamantina. Una banconota da 100 dollari falsa ha estinto debiti, ravvivato il tessuto economico e promosso le attività commerciali di un paesino per un solo – e tremendamente semplice – motivo: è stata accettata. Così potrebbe funzionare, nel pieno rispetto delle leggi, per qualunque Stato: con uno strumento legale – dallo stesso creato e distribuito – con il quale i cittadini possano scambiarsi beni e servizi, ogni obiettivo potrebbe essere (e già adesso dovrebbe essere) sempre finanziariamente perseguibile. La moneta, infatti, va trattata per quello che è: un mezzo potenzialmente infinito, non una ricchezza fattualmente finita.

Nel XXI secolo, le persone, gli strumenti, le capacità, le conoscenze e le tecnologie di certo non mancano. Dunque, adoperare tutta la moneta necessaria, iniettandola nel circuito economico di un Paese con investimenti proficui e mirati al bene collettivo – e magari intervenendo a livello pubblico laddove il privato non riesca a giungere (il modello misto del miracolo italiano) -, affinché ogni cittadino possa non soltanto sognare, ma concretamente avere un lavoro ben retribuito, diritti sociali, servizi efficienti per sé e per la propria famiglia, insomma dignità, è niente di meno che una scelta politica.

(di Lorenzo Franzoni)

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