"Dafne", il romanzo che celebra la morte del mondo pagano

“Dafne”, il romanzo che celebra la morte del mondo pagano

Alfred De Vigny nacque a Parigi nel 1797. Proveniente da una famiglia aristocratica, si dedicò alla scrittura e alla poesia. In Francia rappresentò una figura di spicco del romanticismo letterario e fu membro dell’Académie française.

L’opera Dafne, rimasta incompiuta, venne pubblicata per la prima volta nel 1913 in Francia; nel 1977 fu tradotta in italiano e pubblicata da “Edizioni Il Sigillo”; successivamente, nel 2015, dalle “Edizioni di Ar”.

L’architettura di Dafne si articola in diverse sequenze narrative, di cui due le principali: la prima funge da cornice, e si trova all’inizio ed alla fine del romanzo; la seconda, inserita in posizione centrale, riporta le vicende principali. Lo stile con cui è scritto il romanzo è piuttosto piacevole, i periodi sono brevi ed il ritmo è lento. Prevalgono le sezioni descrittive e spesso, durante gli eventi, l’autore interrompe la narrazione e si sofferma sui luoghi che fanno da sfondo. Le descrizioni sono accurate e ricche di particolari. Gli ambienti descritti sono principalmente naturali ed esterni.

«Il caldo non s’avvertiva più sotto quelle vaste ombre e, poiché le palme battevano incessantemente l’aria come grandi mani, quel venticello diffondeva attorno a me i sentori deliziosi delle piante e i profumi del loto. Solo di tanto in tanto, allorché la brezza occidentale che spirava dal mare faceva piegare tutte le palme, i raggi rossi del sole piombavano nell’ombra, come spade di fuoco, e il loro ardore momentaneo rendeva più deliziose la frescura e l’ombra, turbate e percorse soltanto da qualche raro balenìo.»

I temi affrontati nel romanzo sono relativi agli stravolgimenti portati dall’irruzione di nuove fedi in un ambiente religioso già definito, ovverosia l’irruenta invasione dei tre maggiori monoteismi (Ebraismo-Cristianesimo-Islam) nella cultura pagana dell’Impero Romano (360 d.C). Sono tratteggiate dettagliatamente le posizioni che il popolo assunse nei confronti del cambiamento. Mentre le città furono propense ad accettare la sostituzione del credo religioso, nelle campagne i ceti contadini difesero con fervore la loro sacra fede politeista.

Ad introdurre le vicende del romanzo sono il Dottor Nero e Stello, due uomini che da una terrazza scrutano la folla festosa che gioisce sulle strade di Parigi. Quando una suora richiede l’intervento del dottore per un ragazzo, i due uomini si spostano e raggiungono quest’ultimo. Egli si trova in una stanza in cui i morenti trascorrono i loro ultimi momenti di vita. Arrivati, mentre il Dottore si occupa del ragazzo, Stello nota una croce che veniva baciata dai malati prima della morte. Dietro di questa v’è un ritratto di Giuliano il Grande ricoperto di polvere, e sotto di esso trova delle lettere. Queste lettere costituiscono interamente il romanzo. Il Dottor Nero e Stello ricompariranno solo in conclusione. Questo meccanismo narrativo attraverso cui due lettori settecenteschi si trovano a leggere di episodi relativi ad un passato lontano rende ancora più realistico il contenuto del romanzo.

"Dafne", il romanzo che celebra la morte del mondo pagano

Nelle lettere si legge che ad Antiochia, metropoli ellenistica e multiculturale della Siria, era approdato ormai da tempo il Cristianesimo, una religione oscura non intenzionata a convivere con le divinità del Pantheon romano, e disposta a distruggere ed eliminare ogni sacralità pagana. Come i Cristiani, anche Ebrei e Musulmani erano giunti nelle città dell’Impero, contribuendo a stravolgere il clima stabile della fede romana.

Riunitisi a Dafne, sobborgo di Antiochia, gli ultimi pagani organizzavano la disperata resistenza all’avanzata della barbarie. Un boschetto sacro che circondava il tempio di Apollo rappresentava l’ultima isola di purezza in un mare di barbarica inciviltà. Un giardino esotico, con elementi naturali che simboleggiavano la virtù e l’armonia, faceva da sfondo al drammatico supplizio vissuto da Giuliano e da Libanio. Entrambi erano consapevoli che tutto era irrimediabilmente perduto, ma ostinati a voler rimanere fedeli alle loro convinzioni non cedevano al nuovo nemico. I loro discepoli, tra cui Basilio, si erano già convertiti, e ormai gli intellettuali avevano abbandonato con i costumi degli antenati anche la loro fede. In un contesto così drammatico Giuliano partì per la Campagna persiana, che si rivelò un fallimento.

Viste le gravi perdite, Giuliano decise di sospendere momentaneamente la guerra, ma durante la marcia di ritorno scoppiò un combattimento nella retroguardia. Egli accorse subito, noncurante dei rischi che avrebbe affrontato se avesse raggiunto lo scontro senza armatura. Quando i legionari si disposero come un muro per permettere a cavalieri e consoli la fuga, Giuliano rimase con i suoi soldati.

Mentre i suoi uomini gli gridavano di ritirarsi un giavellotto lo colpì al fianco: Giuliano, ferito, fu sostenuto dal fedele Paolo di Larissa, che lo aveva seguito durante l’incursione nella battaglia. Paolo lo portò sulle rive del Tigri: l’Apostata aveva infatti chiesto di essere gettato nel fiume per poter essere rapito dal cielo come Quirino. La morte di Giuliano fu l’epilogo di una tormentata ribellione che aveva visto protagonisti l’imperatore stesso e pochi altri fedeli, uomini pronti a morire per le loro idee, che non accettarono, come la maggior parte dell’aristocrazia senatoria dell’epoca, di calpestare quella sacra cultura e quelle belle idee che i loro padri avevano loro tramandato.

Nel finale compaiono nuovamente il Dottor Nero e Stello, i quali riconoscono in Giuliano l’ultimo apostolo del paganesimo, l’ultimo uomo che non aveva ceduto ad un cambiamento ritenuto volgare e offensivo nei confronti degli antenati. La sua morte però non era stata sufficiente per arrestare l’avanzata dei monoteismi che avrebbero poi conquistato le anime delle masse.

I due lettori, guardando una statua dedicata a Giuliano, e riflettendo su tutti i sacrifici da lui inutilmente sostenuti, immaginano sotto di lui Lutero soddisfatto e Voltaire che lo deride, pensando che ormai «tutto è consumato» e che quindi la sua vita, come quella di tutti i difensori della Tradizione, è andata perduta invano.

(di Antonio De Vita)

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