In data 22 ottobre 2018, la multinazionale italiana Magneti Marelli, storica industria del Bel Paese, quasi centenaria, con sede a Corbetta (Milano) – oggi tra i leader mondiali nella produzione di sistemi ad alta tecnologia per l’industria delle automobili, quali sospensioni, sistemi di illuminazione, quadri di bordo e via discorrendo -, è stata venduta da FCA per il 100% delle proprie quote alla giapponese Calsonic Kansei, a sua volta controllata dal fondo statunitense KKR, per una cifra che si aggira attorno ai 6,2 miliardi di euro.
Un’operazione che ha l’obiettivo di rendere il neo-nato colosso uno dei principali fornitori globali di queste componentistiche tecnologiche, puntando ad un fatturato superiore ai 15 miliardi. Il CEO di FCA, Mike Minley, successore del recentemente decesso Sergio Marchionne, si dice entusiasta dell’operazione: “Dopo aver esaminato attentamente una serie di opzioni per consentire a Magneti Marelli di esprimere tutto il suo potenziale nella prossima fase del suo sviluppo, la combinazione con Calsonic Kansei, si è rivelata un’opportunità ideale per accelerare la crescita futura di Magneti Marelli a beneficio dei suoi clienti e delle sue persone eccezionali. Le attività così combinate continueranno ad essere uno dei partner commerciali più importanti di FCA e vorremmo vedere questo rapporto crescere ulteriormente in futuro”.
Fondata nel 1919 grazie ad una joint venture tutta italiana, Magneti Marelli è un’azienda da 7,9 miliardi di fatturato, con 43.000 dipendenti (di cui poco meno di 10.000 in Italia), 85 unità produttive, 15 centri di Ricerca e Sviluppo e sedi in tutto il mondo, dal Sud America (Argentina e Brasile) all’Estremo Oriente (Cina e Giappone), dall’Europa (Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Polonia, Russia, ecc…) al sud-est asiatico (India e Malesia), dalla Turchia agli Stati Uniti.
L’operazione, che era già stata programmata dalla precedente amministrazione, aveva destato preoccupazioni tra i sindacati metalmeccanici, soprattutto FIOM-CGIL; UILM e FIM-CISL, per bocca dei propri rispettivi responsabili, Rocco Palombella e Marco Bentivogli, si dicono sommariamente soddisfatti, ma pur sempre guardinghi.
L’analisi – in un’intervista rilasciata ad Industria Italiana – compiuta dagli economisti Fulvio Coltorti e Patrizio Bianchi lascia invece spazio a meno sorrisi: il primo enuclea come la fusione italo-americana della FIAT con la Chrysler non abbia condotto ad aumentare, come sperato, l’efficienza dell’azienda, che si è ritrovata quindi costretta a cedere la propria azienda di componentistica interna.
Il secondo sottolinea come ciò non sia un buon segnale per il sistema-Paese italiano, in quanto da questa scelta trapela la progressiva volontà di spostare l’asse portante delle attività dall’altra parte dell’oceano, con conseguente mancanza di garanzie effettive in merito alla possibilità di mantenere la produzione e la ricerca-sviluppo in Italia.
FCA – che pure a lungo, come evidenzia Lisa Stanton (che lavora alla FAO delle Nazioni Unite), ha ricevuto sovvenzioni statali, ma altro non ha fatto che vendere marchio dopo marchio, da Autobianchi a Maserati, da Bugatti a Lamborghini, da Zagato a Ducati – ha pattuito che per i primi cinque anni il fulcro aziendale rimarrà in Italia, ma sul più lungo periodo questa certezza immediata è tutt’altro che garantita.
La globalizzazione è per pochi, pochissimi
Questa recente perdita di un marchio italiano prestigioso, efficiente e conosciuto in tutto il mondo merita una riflessione, la quale non può che partire da due considerazioni fondamentali e centrali:
1) L’attuale sistema economico globale sta, sempre più prepotentemente, spingendo verso un progressivo inglobamento dei piccoli da parte dei grandi, che fagocitano i concorrenti, ne mantengono i marchi ma ne colgono i profitti, pervertendo il concetto di diversificazione attraverso l’obbligo ad una concorrenza spietata, non regolata da chi pure avrebbe il potere di farlo (gli Stati), con il risultato inevitabile dell’oligopolio, tramite un efficace sistema di matrioske russe, o di scatole cinesi, che dir si preferisca.
2) L’Italia viene spesso addebitata come incapace di fare industria, di produrre a livello di settore secondario, eppure i grandi colossi non la pensano esattamente alla medesima maniera, poiché negli ultimi decenni hanno fatto a gara per accaparrarsi delle fette cospicue di Italia, sia nel settore privato sia soprattutto in quello pubblico [le cui aziende, per inciso, sono ancora leader a livello mondiale: si pensi alla commessa da 4 miliardi a Fincantieri per costruire navi MSC, od al mandato esplorativo assegnato all’ENI in Mozambico, N.d.A.].
In merito al primo punto, le concrete manifestazioni della sua veridicità sono auto-evidenti: la libera circolazione di merci, capitali e lavoro ha abbattuto, anche in molti Paesi occidentali, i diritti sociali dei lavoratori; ha prodotto una deflazione salariale resa obbligatoria dalla concorrenza senza freni di aziende e multinazionali, capaci di produrre in enormi quantità a basso costo e con bassi prezzi di vendita, in grado di produrre grandi introiti; ha contribuito a finanziarizzare l’economia; ha arricchito i ricchi ed impoverito i poveri.
Inoltre, essa ha, cosa di non poco conto, indotto molti elementi della classe dirigente (politica, manageriale e così via) a ritenere che esso sia il miglior modello possibile, ideologicamente inattaccabile, nonostante i nefasti esiti, risultanti nella forma più estrema ed a-morale di capitalismo conosciuta, quella che Slavoj Zizek e Paul Mason chiamerebbero post-capitalismo.
Adoperando la ficcante argomentazione del professor Valerio Malvezzi – l’ordine naturale delle cose è stato ribaltato, cosicché la finanza non è più uno strumento dell’economia, a sua volta governata dalla politica e dalla filosofia morale, ma è il fine ultimo dell’economia stessa, che a sua volta ha subissato la politica, divenuto mero gregario, incapace di comprendere i propri reali poteri e la reale natura della dominazione che essa è costretta a subire.
Le nostre industrie: preda dei gruppi stranieri
L’Italia è, da questo punto di vista, l’esempio più eclatante. Nel suo documento “Outlet Italia. Cronaca di un Paese in (s)vendita” (6), l’Eurispes ha mostrato un lungo elenco di “caduti”, di eccellenze tutte italiane date al miglior offerente:
• la Zanussi alla svedese Electrolux;
• la F.I.V. Edoardo Bianchi alla svedese Cycleurope AB;
• la Saeco alla francese Pai Partners e poi all’olandese Philips;
• Gruppo Ferretti alla cinese Shandong Heavy Industry Group;
• Atala alla olandese Group Accell;
• la Ducati alla tedesca Volkswagen;
• la Lamborghini alla tedesca Audi;
• l’Algida alla anglo-olandese Unilever;
• la Riso Flora alla francese Marbour;
• Fattorie Osella e Splendid alla statunitense Mondelez;
• la Casearia Invernizzi alla francese Lactalis;
• Buitoni e Perugina alla svizzera Nestlè;
• Conbipel alla statunitense Oaktree Capital Management;
• Del Verde all’argentina Molinos Rio de la Plata;
• la Sergio Tacchini alla cinese H4T.
E si potrebbe proseguire con Telecom, Star, San Pellegrino, Ferretti, Galbani, Eridania, Bottega Veneta, Bulgari, Edison, Scotti, Valentino, Fastweb, Agnesi, Sperali, Cinzano, Vecchia Romagna, Parmalat, Sasso, Carapelli, Italgel, Levissima, iGuzzini, Panini, Ferrarini.
L’elenco sarebbe ancora lungo ma, per non tediare ulteriormente, sia sufficiente riportare questi ultimi dati: in soli quattro anni, dal 2008 al 2012, ben 437 aziende italiane sono passate nelle mani di acquirenti stranieri. “Nel 2015 le acquisizioni straniere di marchi italiani ammontavano a 65,5 miliardi di euro contro i 9,4 miliardi di acquisizioni all’estero operate dall’Italia. Cioè sette volte di meno.
La Francia da sola ha speso in Italia quanto tutta l’Italia fuori: oltre 9 miliardi per comprare fette del Made in Italy. Nel 2016 è andata anche peggio con 74 miliardi di euro di acquisizioni straniere contro i 3,6 dell’Italia“, riporta la Banca Dati Zephyr di Bureau Van Dijk.
Il tutto, senza considerare le delocalizzazioni e le cessazioni di attività, purtroppo frequenti per un tessuto socio-economico dove i grandi marchi, pur funzionanti, vengono venduti a stranieri, e dove le piccole e micro imprese (il 99% in Italia) faticano ad ottenere credito dalle banche, se non da quelle legate al territorio (BCC, Casse Rurali, Popolari, Casse di Risparmio), che presto potrebbero venire estinte, nelle loro funzioni fondanti, da un Decreto Legge del 2016, sempre nell’ottica neoliberista del “too big to fail”.
Una classe dirigente incompetente
Come non condividere, quindi, le amare parole del presidente dell’Eurispes: “Sembra che il nostro Paese faccia di tutto per negare il proprio valore e che a noi manchino il gusto e il piacere di sentirci italiani, sottovalutando quelle prerogative che ci distinguono. Si è esaurita la spinta che aveva consentito alle generazioni precedenti di trasformare un Paese arretrato, agricolo, in una moderna democrazia industriale, sia pure segnata da ritardi e contraddizioni“.
Nel 1453, dopo quasi due mesi di assedio, Costantinopoli, capitale dell’Impero Romano d’Oriente, cadde sotto i colpi dell’esercito turco-ottomano del Sultano Maometto II: nel frattempo che le mura venivano abbattute via terra e via mare, durante il saccheggio della città, la razzia delle sue bellezze e le violenze nei confronti dei suoi abitanti, i teologi – rinchiusi nel dorato isolamento di una torre d’avorio – stavano disquisendo del sesso degli angeli.
Nel 2018, dopo trent’anni di politiche economiche neoliberiste (privatizzazioni selvagge, esclusione dello Stato dall’imprenditoria, deregolamentazione, ecc…), la perdita della sovranità monetaria a favore di un organismo indipendente dalla politica (la BCE) ed anni di austerità anti-sociale, l’Italia, un tempo esempio fulgido di miracolo economico, sta progressivamente perdendo tutti i suoi pezzi più pregiati, sotto i colpi della globalizzazione imperante.
Nel frattempo che l’Euro – accordo di cambi fissi – spinge unicamente al monetarismo e ad un’economia di surplus commerciale e di distruzione della domanda interna, con il saccheggio degli asset strategici, la razzia dei vanti industriali italiani e le sofferenze dei cittadini (strozzati dall’avanzo primario, perpetrato per pagare gli interessi su un debito che non è fatto per essere ripagato), la classe dirigente – assorta nelle visioni ideologiche nella propria sfera di cristallo (internazionalismo non socialista ma beceramente inteso, europeismo non dei popoli ma delle èlite, tra gli altri) – ha disquisito e disquisisce di decimi percentuali di debito pubblico, di punti di spread, di rating delle agenzie [possedute dai medesimi che investono nel mercato finanziario che queste stesse agenzie giudicano, N.d.A.].
Pensando che l’UE e l’ottica neoliberista (da essa incarnata) siano i migliori mondi possibili, ci si dimentica di guardare al proprio popolo, e persino al proprio vicino di casa, spoliato illecitamente della sua sovranità costituzionale e tartassato da politiche economiche pro-cicliche in piena recessione, con un mercato senza vincoli né leggi e con un modello predatorio dalle conseguenze aberranti.
Senza politiche industriali efficaci ed a lungo termine, senza interventi statali che valorizzino la produzione nostrana e consentano investimenti per la domanda interna, senza la comprensione dell’origine della progressiva povertà dell’Italia, senza il rigetto di politiche monetariste e senza un’operazione di consapevolizzazione culturale della popolazione – terrorizzata colpevolmente dai media e dai “tecnici” -, i casi Magneti Marelli non cesseranno di moltiplicarsi.
Come nella Costantinopoli espugnata dagli Ottomani, così nell’Italia contemporanea a farne le spese saranno i cittadini, e con essi il loro sistema-Paese.
(di Lorenzo Franzoni)