L'Oplita Spartano, la falange come comunità di vita

L’Oplita Spartano, la falange come comunità di vita

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« E così i Lacedemoni, che ad uno ad uno non sono inferiori in combattimento ad alcun popolo, uniti insieme sono i più valorosi uomini del mondo »
(Erodoto, Storie , VII 104 4,5)

La falange greca, composta dai cittadini-soldato delle diverse poleis della penisola ellenica, dominò i campi di battaglia d’occidente per centinaia di anni. L’oplita greco, pesantemente armato di scudo (oplon), lancia, corazza ed elmo, fu l’unità principale degli eserciti del panorama bellico mediterraneo dal suo avvento fino alla sua eclissi di fronte alla falange Macedone e alla formazione manipolare delle legioni romane.

L’efficacia della falange oplitica non ebbe eguali, e venne riadattata e imitata in tutto il bacino del Mediterraneo: da Cartagine agli Etruschi, fino ai Romani, ogni popolo combatté in strette formazioni a falange. La pesante fanteria oplitica vinse in svariati scontro non solo gli immensi eserciti persiani, Termopili e Cunassa per citarne alcuni, ma anche le orde dei Galli e le schiere dei Traci che invasero in diverse occasioni la Grecia. Fra le numerosissime città stato della penisola ellenica, ve ne fu una che fece della formazione a falange non solo il centro della propria arte militare, ma il fulcro della propria società: Sparta.

L'Oplita Spartano, la falange come comunità di vita

Sparta, una piccola città della Laconia nel Peloponneso meridionale, riuscì ad assurgere ad un ruolo dominante nella politica regionale, panellenica ed internazionale grazie non solo alla sua ben organizzata e gerarchica comunità di cittadini, ma anche grazie alla fama di imbattibilità sul campo di battaglia. L’oplita spartano era infatti riconosciuto come il più forte, il più coraggioso ed il più pericoloso dell’intera Grecia. Lo Spartiata, il cittadino spartano avente pieni diritti, era cresciuto ed allevato alla guerra ed alla difesa della patria; la sua educazione era incentrata fin dalla tenera infanzia al combattimento ed alla difesa della patria e della comunità.

Il sacrificio per la città era considerata l’unica morte degna per uno Spartiata, mentre fuggire di fronte al nemico era un’infamia ben peggiore della morte, considerato come il tradimento supremo non solo verso i propri camerati, ma verso il popolo intero, quel popolo che doveva difendere. A testimonianza di questo supremo attaccamento per la città, sono giunte fino a noi le parole che una madre spartana disse al proprio figlio mentre gli porgeva lo scudo, prima della sua partenza per la guerra: “Figlio mio, torna o con questo o sopra questo”, (Τέκνον, ἢ τὰν ἢ ἐπὶ τᾶς). O torna vittorioso reggendo il tuo scudo, o torna morto trasportato dai tuoi compagni su questo scudo; non esiste nient’altro se non la vittoria o il sacrificio supremo per la città.

L'Oplita Spartano, la falange come comunità di vita

Addestrati fin da fanciulli a combattere e rispettare l’ordine e la disciplina della formazione, obbligati dalla legge a partecipare ad ogni giorno ad umili pasti comuni (Sissizi), al fine di cementare lo spirito di corpo, costretti sempre per legge a non radersi né lavarsi troppo[1], perché il fetore doveva servire a terrorizzare il nemico sul campo di battaglia. Dimenticate dunque ogni cinematografica rappresentazione di Spartani seminudi e tirati a lucido: erano demoni del campo di battaglia dalle barbe a i capelli lunghi con corpi segnati da cicatrici e fatiche. L’armamento era fornito alla comunità dalla città stessa, ogni spartiata era uguale all’altro e all’unisono combattevano avanzando in silenzio, al contrario delle altre fanterie oplitiche infatti, gli Spartani erano gli unici a marciare con passo cadenzato seguendo il ritmo dei flauti.

A questo punto le armate avanzarono i primi passi; gli Argivi e gli alleati si spingevano avanti con il cuore in tumulto, fremendo: gli Spartani con fredda disciplina, al suono regolato di molti flautisti, come usa tra loro, non per devozione al dio, ma perché la marcia di avvicinamento proceda misurata e composta, ad evitare lo scompiglio che suole nascere tra le file dei grandi eserciti nella fase di attacco”.

(Tucidide, La guerra del Peloponneso, Libro V, 60).

La fredda disciplina con cui erano cresciuti ed allevati, nonché le rigide prove per diventare un cittadino a tutti gli effetti, (fra cui la famosa Krypteia che prevedeva l’uccisione a sangue freddo di uno schiavo Ilota), erano tutte funzionali alla prestazione sul campo di battaglia che doveva essere sempre ordinata e perfetta. Lo scontro fra due falangi oplitiche era infatti un combattimento tremendo, con centinaia di uomini che si spingevano l’uno contro l’altro cercando di colpirsi con le lance da sopra gli scudi. Riuscire a mantenere i nervi saldi in una situazione simile era un vantaggio enorme, e gli Spartani fecero della disciplina e dello spirito di corpo il fondamento della loro civiltà.

L'Oplita Spartano, la falange come comunità di vita

La fama degli eserciti Spartani era così grande che in più occasioni alla sola vista di uno scudo lambdato, (la lettera L, Lambda in greco Λ, era dipinta su tutti gli scudi degli opliti Spartani e stava a significare “Laconia”, la regione di Sparta, o “Lacedemoni”, il nome con qui si chiamavano fra loro), bastava a far scappare il nemico dal campo di battaglia.

Il pedissequo rispetto della tradizione militare spartana a lungo andare fu invece la causa della rovina della città, sui campi di battaglia di Leuttra e Mantinea infatti, il geniale generale Tebano Epaminonda inflisse gravissimi sconfitte all’esercito spartano utilizzando una strategia militare che sarà poi nota come “ordine obliquo” o “falange obliqua“. Con questa formazione, riutilizzata in futuro anche dal grande Federico II di Prussia contro gli Austriaci, Epaminonda vinse i temibili spartiati rinunciando alle tipiche formazioni oplitiche in favore di una nuova e più compatta formazione. Questo fu il tramonto degli Spartani, ma non del loro mito, che riecheggia ancora oggi nei manuali militari di tutto il mondo.

(di Fausto Andrea Marconi)

[1] “Avevano la pelle secca, perché non si lavavano né ungevano mai, tranne in certi giorni dell’anno, pochi, in cui erano concesse anche a loro tali delicatezze”, Plutarco, Vite Parallele.

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