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La politica estera americana: dalla distorsione alla realtà

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La politica estera americana, dall’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump, sta finalmente suscitando un ampio dibattito negli Stati Uniti. Mentre prima la dissidenza rispetto alla dottrina neoconservatrice si limitava a pochi spazi culturali e di dibattito, oggi essa si colloca sotto gli occhi di tutti. Peraltro, niente di meno che grazie al Presidente in persona, il cui progressivo disimpegno da tutti gli scenari mondiali ha dato nuove consapevolezze alla popolazione. E nuovi scricchiolii all’impalcatura delle classi dirigenti, che sinora ha retto ma perché priva di chi fosse in grado di colpirla con durezza.

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La Siria vista dai falchi statunitensi

La Madama Grigia ha imparato a codificare. Nel corso della settimana fra il 28 ottobre ed il 3 novembre 2019, il New York Times ha pubblicato una mappa ad alta risoluzione ed alta tecnologia, ed interattiva, della Siria. Una mappa la quale, tenuto debito conto della usuale, tediosa e pedante pesantezza del giornale, ha dato l’impressione che può dare una nonna anziana che cerca di accedere il suo forno attraverso l’iPad.

La grafica, attraverso una visione panoramica, fa porre l’attenzione degli occhi dei fruitori su una rappresentazione topografica del nord della Siria, codificata da colori diversi per indicare quali parti sono controllate da Bashar al-Assad, quali dai ribelli e quali dai curdi. In seguito, i colori cambiano e sanguinano finanche insieme, nel frattempo che il panorama politico cambia per riflettere il ritiro delle truppe americane fatto eseguire da Donald Trump.

Senza ombra di dubbio, è tutto quanto molto all’avanguardia. Tuttavia, la mappa presenta un difetto fatale: essa non è affatto della Siria. Essa, infatti, rappresenta – secondo i dettami della politica estera americana – la visione che le élite della politica hanno di come possa essere la Siria. Perciò, una sorta di lettura visiva che ogni falco a stelle e strisce potrebbe avere, in maniera pregiudiziale, di questo sfortunato Paese. Pensiamola maggiormente come una landa dal nome di “Siria di Mezzo“, cioè una terra immaginaria fatta di eroi e di villani, con imperativi morali tanto facili quanto possono esserlo quelli di una storia di fantasia.

 

La Siria di Mezzo nella politica estera americana

Nella Siria di Mezzo, le forze curde alleate degli Stati Uniti sono dei benefattori dal cuore di leone, tuttavia quasi inspiegabilmente sono considerati dalla Turchia come dei terroristi. Nel frattempo, nell’attuale Siria, almeno alcuni di quei curdi hanno dei collegamenti al PKK (il Partito dei Lavoratori del Kurdistan): un fronte radicale con base in Turchia, il quale è stato designato come gruppo terrorista non soltanto da Ankara, ma anche da Washington.

I curdi siriani militanti sono per la maggior parte composti dalle YGP (Unità di Protezione Popolare), l’ala militante – per l’appunto – del PYD (Partito dell’Unione Democratica). E ciò è un’evidenza non di meno delle affermazioni dell’ex Segretario della Difesa Ashton Carter, il quale ha sostenuto che il PYD nutre «legami sostanziali» con il terrorista PKK. Foreign Policy riposta che le due entità «condividono un lignaggio intellettuale»; non incidentalmente, un combattente delle YGP ha detto in merito alla sua organizzazione: «È tutto fondamentalmente PKK, solo suddiviso in rami diversi. Loro sono tutti membri del PKK».

Pertanto, mentre nella Siria di Mezzo l’aggressione della Turchia è dovuta alla sua pura malvagità ed al suo imperialismo, nella Siria reale le azioni di Ankara sono in qualche modo più grigie. La Turchia è un bullo di quartiere, su questo non si discute, ma essa agisce anche nel suo chiaro interesse nazionale. In questo caso, contro un gruppo legato ad un partito i cui membri [non, però, la popolazione che vi si lega, che è innocente, N.d.R.] hanno commesso delle atrocità all’interno dei suoi confini.

Gli Stati Uniti medesimi, del resto, non permetterebbero mai ad un gruppo armato affiliato ad al-Qaeda di stabilire un enclave al loro confine meridionale. Perché i turchi non dovrebbero voler evitare una situazione di tal fatta? I curdi siriani hanno aiutato gli Stati Uniti a fermare l’ISIS – anche se, in verità, sarebbe più preciso affermare che gli Stati Uniti hanno aiutato i curdi siriani -, nondimeno il loro status è ben più complesso di quello dei valorosi giganti assassini che abbiamo evocato al di fuori di questa pagina. In questo senso, le analisi condotte secondo i dettami della politica estera americana dovrebbero essere altrettanto articolare e ricche di sfumature.

 

Bashar al-Assad ed i curdi

Il New York Times, inoltre, afferma che c’è di più. Dopo tutto, come si può osservare nella loro grafica, ritirando le truppe americane Trump ha costretto i curdi a fare un accordo «con un nemico degli Stati Uniti, cioè il governo siriano». Ciò, sic stantibus rebus, «ha spalancato la porta al Presidente Bashar al-Assad affinché egli provi a riprendere il controllo dell’intero Paese». Questo è il punto di vista nella Siria di Mezzo.

Ritornando alla vera Siria, Assad non è un “nemico degli Stati Uniti” – quantomeno, sicuramente non formalmente -, essendo che il Congresso non gli ha mai dichiarato guerra. E la Guerra Civile Siriana non è un certo tipo di gara, con in palio premi, alla quale la politica estera americana possa ancora dare un’inclinazione a proprio favore. Assad, sostenuto dai russi, ha vinto, e la sua riconquista di tutto il territorio siriano è soltanto una questione di tempo. I curdi, che avevano bisogno di un guardiano che fosse più vicino e più durevole di un piccolo contingente di truppe americane, hanno sempre avuto una qual certa possibilità di allearsi con lui, indipendentemente dalle decisioni di Trump. E, attraverso il loro comandante, Mazloum Abdi, infine lo hanno fatto.

 

La Mezzaluna sciita in Medio Oriente

Oltre alla Turchia e ad Assad, il bestiario di nemici della Siria di Mezzo include anche l’Iran, che conduce il New York Times a preoccuparsi del fatto che, a seguito del ritiro militare operato da Trump, Teheran «potrebbe ottenere una lunga via di rifornimento per il suo mandatario e rappresentante in Libano, Hezbollah». Questo è palesemente ingannevole. È vero che la vittoria di Assad potrebbe consentire di spedire via terra rifornimenti attraverso l’Iraq e la Siria verso il Libano, la cosiddetta “Mezzaluna sciita“. Pur tuttavia, per quanto riguarda la Siria, tale transito iraniano non è di certo una novità.

Bashar al-Assad per lungo tempo ha permesso agli iraniani di utilizzare l’aeroporto di Damasco come punto di riferimento per le forniture sulla strada di Hezbollah. Se ci sarà effettivamente una Mezzaluna sciita compatta, essa non sarà stata provocata dalla vittoria di Assad nel suo Paese, ma dalla disastrosa politica estera americana, che ha invaso l’Iraq, tolto di mezzo Saddam Hussein – che era un nemico dell’Iran – e consegnato quindi Baghdad alla maggioranza sciita del Paese.

E non abbiamo neppure ancora toccato il mito più sacro e santificato della Siria di Mezzo: i cosiddetti “ribelli moderati, che nella reale Siria hanno la testarda abitudine di consegnare le nostre armi nelle mani di jihadisti assetati di sangue.

 

I Paesi di Mezzo nella politica estera americana

Questo è il modo con il quale, al giorno d’oggi, noi guardiamo la politica estera americana. Si tratta di un modo tremendamente intricato tramite il quale le mischie in Medio Oriente sono rese solubili all’interno del ciclo di 24 ore dell’informazione. Così, c’era anche l’Iraq di Mezzo, scena di un’eroica ondata e di una guerra duramente vinta, non fosse per la scelta del pusillanime Barack Obama di cancellare quei guadagni facendo uscire le truppe dal Paese.

Anche i bardi cantano della Libia di Mezzo, dove la brava gente fu liberata dal tirannico re Gheddafi grazie all’impegno degli Stati Uniti. Che questa novella ondata abbia implicato letteralmente la compravendita della pace da parte dei signori della guerra sunniti, un accordo che in nessun modo sarebbe potuto durare, questo raramente incontra l’obiettivo della camera. Come raramente lo incontra il fatto che il rovesciamento di Gheddafi abbia provocato una violenta anarchia fra tribù, tale da far struggere i libici per i “giorni dittatoriali” di un tempo. Le narrazioni dei libri di fiabe sono molto più gratificanti. Un indizio: Hillary Clinton che gongola per la morte di Gheddafi, come scena finale.

Il problema con tutto ciò è che noi la potremmo chiamare “irriducibile complessità“. Quel termine, garantito per infastidire gli atei nella stanza, è generalmente utilizzato dai cristiani che cercano di sfidare il darwinismo e la teoria dell’evoluzione. Esso si riferisce all’idea che la biologica per come la conosciamo sia troppo complessa per essersi evoluta in assenza di un demiurgo intelligente: anche se a volte viene applicata in modo più ampio, ovverosia all’universo più grande ed all’impossibilità di esistere senza Dio.

 

L’irriducibile complessità del reale

Questo ragionamento può fare più o meno acqua da tutte le parti. Ma l’insegnamento positivo che da esso possiamo trarre è che la costruzione della nostra nazione negli ultimi anni è stata afflitta proprio da una complessità irriducibile. Gli antichi odi settari ci hanno confuso. Una miriade di differenze tribali ci ha sopraffatto. La grande varietà di altre nazioni si è dimostrata impossibile per Washington, per ingegnerizzare socialmente. Le leggende potrebbero apparire in bianco e nero, ma la realtà sul campo è sempre frustrantemente caleidoscopica.

Niente di tutto ciò, comunque, giustifica ciò che ha fatto Trump il mese scorso [ottobre 2019, N.d.R.]. Il ritiro delle truppe, da parte del Presidente, è stata frettolosa, incurante e dal sapore amaro. Ha fatto sembrare gli Stati Uniti come una supplicante turca. Del resto, ha rischiato che, in tal modo, i prigionieri dell’ISIS fossero rilasciati in libertà; ha anche rischiato che gli Stati Uniti fossero trascinati in una nuova guerra siriana fra la Turchia, alleata della NATO, ed Assad. E non è stato nemmeno un ritiro netto, poiché le nostre truppe in partenza sono state rapidamente sostituite da altre forze americane.

Forse, quindi, coloro che, fra noi, supportano e sostengono una politica estera americana più contenuta nelle sue fattezze e fattualità, dovrebbero essere consapevoli che anche noi possiamo cadere vittime di questa tentazione di semplificazione, chiedendo che le truppe tornino a casa senza davvero pensare a quello che ciò comporta. Il compito di districare l’impero americano dal mondo non sarà facile. Infatti, vivere in una fantasia ancora lo batte.

–> LEGGI ANCHE “TRUMP HA RAGIONE SULLA SIRIA: LÌ PARTE LA FINE DELLA GUERRA INFINITA”

(Articolo di Matt Purple su The American Conservative – Tradotto e rielaborato da Lorenzo Franzoni)

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