Ambiente

L’ambiente è di tutti, non dei progressisti

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L’ambiente nel quale viviamo non appartiene a nessuno, in senso politico, ovvero è un bene di tutti, in senso assoluto. Fatta questa ovvia ma doverosa premessa passiamo al tema più spinoso, per così dire. Se è certo l’assioma introduttivo, è verosimile un secondo assioma, deduttivo: l’ambientalismo non è dei cosiddetti progressisti. Sì, una provocazione, che però racchiude una scomoda verità.

Ambiente ed egemonia culturale progressista

Osservando la moderna civiltà occidentale, possiamo constatare come essa sia costituita da una società impregnata dall’egemonia culturale imposta – in particolare dal secondo dopoguerra ad oggi – da quella specifica area politica di sinistra progressista. Costoro, oltre ad aver preso le redini dei principali gangli del potere – sia fattuale che intellettuale -, dalla magistratura all’istruzione e l’accademia, fino alla stampa, l’editoria e il sistema mediatico e informativo che vi ruota intorno, sono riusciti ad appropriarsi ideologicamente, in modo arbitrario e spesso artefatto, di molte delle battaglie più nobili, emozionali, seducenti e facilmente spendibili. Tra quelle menzionabili – la lotta alla mafia è forse l’esempio più emblematico guardando nello specifico del nostro Paese – vi è appunto l’ambientalismo.

Trovando scarsa o nulla resistenza essi sono agevolmente giunti ad auto-conferirsi il nobile fregio green, ideologizzando la salvaguardia ambientale fino a farla sfociare in una vera e propria forma di fanatismo. Un fanatismo che affonda le sue radici nello stesso brodo culturale dello scientismo tornato ultimamente alla ribalta. Entrambi i fenomeni, infatti, possono a ragion veduta essere ricondotti a quella concezione dell’esistenza, profondamente immanentista e materialista, che permea la nostra moderna società in generale e in modo radicale e totalizzante proprio l’area politica e culturale del progressismo globalista. I sostenitori di questa visione del mondo sono protesi verso una realtà che non prevede esattamente la rimozione del concetto di trascendenza, quanto piuttosto una sua traslazione verso nuove divinità. Nuove entità, finite e tangibili, accomodanti, da idolatrare e verso le quali proiettare la propria altrimenti ingiustificabile sete di spiritualità; il represso sentimento di esistere in nome di uno scopo superiore, oltre la pura sostanzialità del vivere.

Da qui nasce la Dea Natura, che non è più Creazione, ma si fa essa stessa Creatore: colui che incombe e domina su tutto, il grande Ordinatore. I fedeli di questo nuovo Essere divino si comportano esattamente come i membri di una setta religiosa: compiendo autentica opera di proselitismo reclutano ogni giorno nuovi adepti da iniziare al culto dell’ecologismo, tramite la falsa promessa di restituire loro un Mondo più ecosostenibile. Talmente è ben strutturato l’inganno che spesso vengono irretiti anche molti elettori, intellettuali e politici dell’opposta fazione cosiddetta conservatrice, sovranista, populista, o la si chiami come si voglia.

Sottrarre l’ambiente al monopolio progressista

Analizzando la questione non potrà che emergere una precisa idea: togliamo la battaglia per l’ambiente dalle mani di questi personaggi, i quali, a dirla tutta, per l’ambiente non si sono mai veramente battuti. Sì, perché l’ipocrisia del loro falso impegno sta alla radice, è strutturale, fondativa e insolubile. Essi infatti, non mettono mai in discussione due dogmi fondamentali – non sono gli unici a non farlo, a dire il vero, ma sono gli unici a voler contemporaneamente esibire il vessillo verde -, considerati il fulcro intoccabile della loro idea di società: il modello della globalizzazione sfrenata, unito ad un’economia improntata sulla degenerazione dell’ipercapitalismo neoliberista.

Un’impostazione di pensiero la quale, portando al consumismo schizofrenico; alla cancellazione totale dei confini – e dei poteri – nazionali in nome di una movimentazione sempre più sregolata di merci e persone; alla delocalizzazione sproporzionata della produzione industriale ed energetica degli Stati; al mantra della concorrenza esasperata volta alla divinizzazione del profitto a tutti i costi, come unica virtù; al parossismo della mercificazione di ogni aspetto della socialità umana – perfino delle arti e della cultura -, non possono che portare, inevitabilmente, all’esatto opposto dell’agire in nome della salvaguardia del nostro Pianeta, potendosi perpetrare soltanto con uno sfruttamento delle risorse naturali sempre crescente, il quale ha un rapporto direttamente proporzionale all’acuirsi dei processi sociali ed economici menzionati.

Proprio per questa contraddizione di base, il loro continuo e isterico sbraitare di lotta ai cambiamenti climatici – sulla causa dei quali la comunità scientifica è spaccata e tutt’ora si interroga, tentando a fatica di dibattere -, decrescita felice – ma selettiva: felice per alcuni privilegiati, infelice per tutti gli altri – o di sviluppo sostenibile – una contraddizione in termini, un’antinomia quando la sostenibilità dovrebbe essere garantita proprio da quei dogmi sopraccitati – suona abbastanza ipocrita e appare come un goffo tentativo di lavarsi la coscienza tramite soluzioni parziali e inefficaci. Soluzioni come i mezzi di trasporto elettrici, alimentati da batterie composte da materie prime molto rare, di complicata e gravosa estrazione; le fonti di energia rinnovabile, sicuramente allettanti ma sulle quali persistono ancora molte criticità; il cibo etico solo a parole, spesso importato da molto lontano – come la quinoa ad esempio, alimento molto consumato, se non abusato, nell’alimentazione vegana e causa di molti problemi sociali, economici e anche ambientali in Perù e Bolivia, tra i maggiori produttori mondiali. Allo stato attuale, poco più che palliativi dunque, a volte addirittura più dannosi del male che intendono curare.

Tentativi di alleviare i sintomi della patologia, senza però mai intervenire sulle vere cause alla base dell’affezione. Sia chiaro, a scanso di equivoci: sono lodevoli nell’intenzione – seppur ingenuamente funzionali al sistema – tutte le iniziative delle singole persone o gruppi di persone che, in buona fede, cercano di contribuire alla causa aderendo a questo ingannevole modello di transizione ecologica; quasi banale sottolinearlo, ma doveroso. Viceversa, bieche e degne della più aspra avversione sono le manovre di captatio benevolentiae scientemente perpetrate da coloro i quali, pur conoscendo bene le cause, si limitano ad intervenire esteticamente sui sintomi.

A tutto ciò si aggiunga poi un ulteriore elemento al dibattito, ben più grave, probabilmente meno evidente in quanto meglio dissimulato, ma comunque rilevabile oltre che paradigmatico della fallacia insita nell’equazione che vuole il progressismo dei diritti – umani e civili, mai sociali – come il più grande alleato della madre Terra.

Nella follia del loro fanatismo verde veicolano, più o meno fra le righe, una morale deviata e autodistruttiva: la percezione dell’uomo, nel senso assoluto di essere umano – e si badi bene, mai di se stessi, bensì degli altri, più precisamente di chiunque la pensi in modo diverso da loro – come l’unico reale problema, la sola causa di tutti i mali patiti dall’ecosistema, il vero e proprio cancro da estirpare affinché la natura possa sopravvivere. Il Pianeta è la vittima, l’essere umano il suo carnefice, l’acerrimo nemico dell’impegno per salvare l’ambiente. L’uomo così non è più una delle tante magnifiche esibizioni di Madre Natura, una sua diretta e prorompente manifestazione, è ormai ridotto ad un mero intruso, un osservatore totalmente estraneo; essa lo rigetta e, a dirla tutta, sarebbe quasi un bene se egli si estinguesse. Un’idea folle, pericolosa ed evidentemente pregna di un’idea antiumana, di quell’odio di sé – o più precisamente del prossimo – piuttosto diffuso tra certi ambienti culturali.

Ed è proprio qui che bisogna ribadire con forza l’ovvio: l’uomo non è nemico dell’ambiente che lo circonda e neppure estraneo ad esso, ne è parte integrante; essi sono incarnazione della stessa materia fondativa, diretta rappresentazione della stessa ispirazione immateriale. Egli non è semplice spettatore dinanzi alla maestosità della natura, ma è al tempo stesso attore e spettatore, interprete della stessa forza dirompente, delle stesse vette di grandezza come delle medesime imperfezioni e debolezze. Entrambi esistono in un reciproco rapporto di interdipendenza, sia sostanziale che essenziale, in un senso che trascende il tempo e lo spazio per giungere alla celebrazione di quell’impulso vitale frutto di una visione, di uno Scopo che è a noi inesprimibile, che oltrepassa la nostra possibilità di comprensione per sublimarsi nell’Assoluto.

Sterminare il genere umano per salvare la Natura dunque, ma da chi? Da essa stessa? E in che modo? Estraendo un suo organo vitale? Distruggendo un elemento fondamentale proprio dell’ecosistema che si vorrebbe salvaguardare? Privandola del suo primo, unico custode, del solo essere in grado di modificarla, quindi anche di proteggerla, financo da se stessa, dalla sua stessa forza distruttiva? Si finirebbe per defraudare la Terra, ad esempio, della raffinata e poetica bellezza della miriade di piccoli e grandi giardini, parchi e boschi cedui che affrescano in lungo e il largo il nostro Paese – come tutti gli altri luoghi del Mondo. Un perfetto e mirabile esempio di lavoro simbiotico tra uomo e natura.

Un patrimonio artistico e botanico di valore assoluto. Meraviglie delle quali sarebbe impossibile godere se venisse a mancare proprio quell’elemento umano tanto vituperato. No, ovviamente ciò di cui abbiamo bisogno non è estinguerci, come non è ciò di cui ha bisogno il nostro Pianeta. Non sarà abbandonando la natura selvaggia a se stessa che la salveremo, perché la priveremo di un suo elemento essenziale. Senza di essa noi inaridiremo fino a disseccare completamente, come piante esposte troppo tempo al sole senza acqua; mentre essa prospererà, inizialmente, per poi dilatarsi e alterarsi in modo incontrollato, divenendo ipertrofica e totalmente caotica, fino al punto da fagocitare qualsiasi cosa esistente, fino alla formazione di un unico grande agglomerato, senza interruzioni, senza impronte di passaggio, senza spettatori. Sarà smisurata, ma incontemplabile, inesprimibile. Una volta che non esisterà più la prospettiva umana, il punto di osservazione che proietta lo sguardo fuori di sé per volgerlo a ciò che lo circonda, chi potrà più distinguere tra cosa sia natura e cosa non lo sia? Non avrà più alcuna importanza. Essa cesserà di esistere per quello che è, non materialmente, ma nella sua essenza: smetterà di essere etimologicamente ciò che sta per nascere, per diventare soltanto ciò che sta, immobile e indistinguibile.

Recuperare l’ambiente, non l’ambientalismo

Nessuna involuzione, nessun distacco. Al contrario, mai come oggi è per noi cruciale tornare ad appropriarci dell’ambiente che ci circonda, in quanto esso è parte di noi, ne abbiamo bisogno come esseri spirituali, prima che materiali. Il compito più delicato è quello di imparare nuovamente a farlo con sapienza, con lealtà, con la capacità di rieducare noi stessi a quelle perdute virtù ancestrali di saggezza, forza, fierezza, vigore, le quali ci permettevano di saper convivere con esso. Il solo modo che abbiamo per farlo è quello di propendere lo sguardo dentro di noi, scavando nella nostra più intima essenza, verso il solo e unico luogo che possa farci riscoprire l’indissolubile e atavico legame che abbiamo con la terra che calpestiamo.

Solo così, soltanto guardando nel nostro abisso potremo trovare il modo per tornare nuovamente ad essere i custodi della natura, per farla nostra, per vivere con essa e in essa, e salvare così anche noi stessi. Allo stesso modo la soluzione non può essere quella di regredire, di rinunciare al benessere economico e sociale faticosamente acquisito in millenni di evoluzione umana. Così come non possiamo impedire alle popolazioni in via di sviluppo di raggiungere questo nostro stesso livello benessere. Possiamo e dobbiamo far convivere i nostro beni e le nostre aspirazioni con il benessere ambientale, e potremo farlo soltanto evolvendo ulteriormente, accrescendo le nostre conoscenze scientifiche – di una scienza veramente libera da preconcetti e da forme di divinizzazione – e competenze tecnologiche – tecnica messa al servizio dell’uomo, e non il contrario. Il risultato sarà quello di curare la causa, non più i sintomi, ridisegnando la società in una direzione più funzionale, equilibrata, confacente ai nostri bisogni e a quelli dell’ecosistema tutto; una società fondata su ideali di giustizia sociale, di collaborazione, di integrità morale, di ragionevolezza. Questa, a mio avviso, è l’unica via praticabile.

Dunque, in conclusione, è necessario deideologizzare l’ambientalismo sottraendolo dalle mani del progressismo verde, interessato a nascondere la polvere sotto al tappeto per non dover mettere in discussione i propri principi. Bisogna far cessare l’idolatria del culto ecologista per rendere la custodia dell’ecosistema una civile espressione di buon senso, da affrontare con equilibrio, con le armi dell’intelletto e del sapere. Una questione ormai impossibile da ignorare e che andrebbe probabilmente inserita in un più ampio contesto culturale; quello dei punti cardine dai quali i suddetti conservatori, o sovranisti, dovrebbero ripartire – da qui la provocazione iniziale – per essere proiettivi e non reazionari, per opporsi a quella egemonia culturale che ormai da troppo tempo ristagna come una nube tossica sulle nostre teste.

(di Michele Lanna)

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