Trump rivoluzionario? Culturalmente, sì

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La parola “rivoluzionario” oggi forse suona “storta”, come “storto” è il suo accostamento a Donald Trump. La rivoluzione mal si concilia con processi parlamentari, ma ben si sposa con altri di natura repentina, di protesta, che stravolgono qualche aspetto della società o addirittura delle istituzioni.

Nel caso di Trump, però, qualcosa sembra smuoversi seguendo i processi ordinari, nonostante la costante presenza del cosiddetto Deep State, nonostante l’opposizione di praticamente tutto il mondo culturale e mediatico statunitense.

Non è assurdo definire Trump rivoluzionario

L’affermazione è indubbiamente pesante, ma con la logica se ne motiva l’assoluta aderenza alla realtà.  Dando uno sguardo a tutte le dimensioni in cui un capo di Stato, in special modo occidentale, si trova a dover operare. E queste non possono essere che la globalizzazione, il neoliberismo, la tradizionale politica estera americana (specialmente nel Medio Oriente), organismi granitici come la NATO e la stessa ONU.

In ciascuno di questi ambiti Trump ha dimostrato, con dichiarazioni, leggi, scelte concrete, di essere in netta controtendenza rispetto alla politica presidenziale americana degli ultimi 30 anni.

Nell’ordine esposto, il presidente si è sempre scagliato contro i processi di globalizzazione, e lo ha fatto in modo esplicito, con dichiarazioni ufficiali alle Nazioni Unite. Già nel settembre dello scorso anno, Trump aveva parlato in modo chiaro di ostilità al modello costituito: “Rifiutiamo l’ideologia della globalizzazione e abbracciamo la dottrina del patriottismo”. Frasi nette. Ripetute e approfondite in un altro discorso del mese scorso, sempre all’ONU, in cui The Donald senza peli sulla lingua aveva dichiarato che “il futuro è dei patrioti, delle nazioni sovrane e indipendenti, non dei globalisti“.

Alle parole si sono affiancati alcuni fatti. Per carità non onnicomprensivi, ma indicativi comunque di una discontinuità rispetto al passato. Su tutto, la lotta alle delocalizzazioni, ovvero uno dei guasti maggiori sia della globalizzazione che del liberismo sfrenato. Niente più lavoratori all’estero a paghe misere per le aziende americane, sembra essere l’obiettivo di Trump. Ancora lontano dalla realizzazione piena, certamente. Ma se non altro avviato contro aziende nazionali con nomi e numeri: la Ford, che cancella un progetto di delocalizzazione in Messico, la Harley Davinson, che il presidente prende di mira dopo l’annuncio dell’azienda di trasferire fabbriche fuori dagli USA, la General Motors, minacciata di dazi per lo stesso motivo. Per citarne solo alcune.

Trump il rivoluzionario: ne avevamo già parlato

Avevamo fiutato qualcosa già dal suo primo discorso di insediamento, nel gennaio 2017. I fatti maggiori, incredibile ma vero, si sono verificati in politica estera, ambito in cui Trump riesce a interrompere le tradizionali tensioni che il mondo neocon teneva ben vive. Come avevamo osservato qualche tempo fa, i quadri a rischio sono sempre gli stessi.

“Certo i fatti parlano chiarissimo: Siria, Corea del Nord, Venezuela, Iran. Tutti possibili teatri di scontri, in tutti il presidente ha fatto la voce grossa, in qualcuno ha lanciato qualche bomba simbolica senza grosse conseguenze, in tutti si è tirato indietro in extremis evitando l’esacerbarsi o la nascita di una nuova guerra.

Gli ambienti neocon americani volevano, anzi desideravano da morire un conflitto in Siria che deponesse Assad. Il massimo che sono riusciti ad ottenere è stato il lancio della “terrificante” MOAB, peraltro con la perfetta conoscenza dell’azione da parte dei quadri militari russi. Il risultato finale è che Assad rimane al suo posto, l’esercito regolare siriano sconfigge i ribelli moderati e l’ISIS, e la situazione va progressivamente verso la normalizzazione. Con buona pace dei sedicenti “Osservatori siriani sui diritti umani”.

Poco prima dell’elezione di Trump la Corea del Nord non era soltanto uno Stato, ma argomento di dibattito feroce e possibile mira di un attacco militare americano. I test nucleari di Pyongyang, come sempre, la materia del contendere. Minacce, controminacce, sembra che lo scontro sia dietro l’angolo, poi all’improvviso la distensione, le dichiarazioni si fanno meno pepate, infine lo storico incontro a Singapore l’anno scorso: il Tycoon e Kim Jong Un si stringono la mano, inizia un dialogo sereno, irto di ostacoli che i due stanno affrontando ancora oggi. E che i media progressisti si sono affannati a definire un fallimento, ripetendo l’operazione anche per il secondo incontro di Hanoi nel febbraio scorso. Evidentemente non curandosi che aver evitato un conflitto militare sia già un indiscutibile successo, così come il fatto che i due presidenti abbiano ad oggi un dialogo costante e amichevole.”

L’ultima sorprendente mossa è quella delle ultime settimane. Abbandono della Siria, abbandono dei curdi, ma piena disponibilità a concedere a russi e siriani di poter proteggere proprio il tanto “dilaniato” popolo curdo dal recente attacco dell’esercito turco. Espressa con i soliti, efficacissimi tweet.

Trump rivoluzionario? Culturalmente, sì

Si tratta, forse, della discontinuità maggiore promossa da Trump. Una politica estera sempre meno ingerente e volta a far tornare gli USA ciò che erano agli albori, tantissimo tempo fa, nelle ere primordiali del presidente Andrew Jackson: una potenza isolazionista.

Perché “culturalmente” rivoluzionario?

A questa seconda domanda si risponde con la logica. Se è vero che Trump abbia operato effettivamente in senso rivoluzionario in ciascuno degli ambiti sopra esposti, è altrettanto vero che una rivoluzione sia tale nel momento in cui è compiuta. E il Tycoon non ha mutato il quadro attuale. Viviamo in un mondo globalizzato, ultraliberista, la politica estera americana è cambiata in gran parte ma non in toto. Questo non può smentire inversioni di tendenza che sono incontrovertibili.

Ma Trump sarà davvero rivoluzionario quando la sua opera di cambiamento sarà compiuta, almeno in qualcuno degli ambiti di cui sopra. Al momento dunque è l’apporto culturale della sua politica ad essere discontinuo, dalla pacificazione in politica estera, alla lotta alle delocalizzazioni, agli stessi dazi.

L’impeachment, però, è dietro l’angolo. E anche se non dovesse avere conseguenze drammatiche per la rielezione di The Donald, vedremo se i prossimi 5 anni saranno in grado di consegnare alla storia il mutamento epocale che noi tutti auspichiamo.

(di Stelio Fergola)

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