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Il mito calcistico del Brasile è finito?

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Il mito del Brasile finito? Forse. Ma andiamo con ordine. “Pelè”, film del 2016 diretto da Jeff Zimbalist è una riuscita trasposizione cinematografica che racconta i primi anni di vita di Edson Arantes do Nascimento, meglio conosciuto come Pelè, “O Rei de Futbol”, che dalla povertà della favela riesce ad emergere fino a portare a soli 17 anni la Selecao alla vittoria del Mondiale del 1958. Di fondamentale importanza nella pellicola è la scena in cui viene spiegata al giovane Pelè l’origine di quello stile di gioco tipico del Brasile, tanto primitivo quanto unico: la Ginga. Sarà Waldemar de Brito, ex calciatore brasiliano nonché scopritore dello stesso Pelè ad illuminargli la via al riguardo: Era l’inizio del sedicesimo secolo, i portoghesi giunsero in Brasile insieme agli schiavi africani, ma la volontà di questi ultimi era più forte e molti fuggirono nella giungla. Per proteggersi i fuggiaschi praticavano la ginga, la base della capoeira, l’arte marziale della guerra.

Il mito brasiliano e la fine della schiavitù dei neri

Quando la schiavitù fu finalmente abolita i capoeiristi uscirono dalla giungla ma solo per scoprire che la capoeira era stata bandita in tutto il territorio. Loro videro il calcio come il modo perfetto di praticare la ginga senza essere arrestati. Era la somma espressione. E in poco tempo la ginga si trasformò, si adattò tanto che non fu più solo nostra ma divenne il ritmo che c’è dentro tutti i brasiliani. Con la coppa del mondo del 1950 molti pensarono che la ginga fosse responsabile della nostra sconfitta e rinnegarono tutto ciò che era legato alle nostre origini africane. E proprio come il tuo allenatore cerca di togliere quella parte di ginga dal tuo modo di giocare, noi abbiamo cercato di toglierla da noi stessi come popolo da allora. O puoi mostrarci cosa accade davvero quando hai il coraggio di accettare chi sei veramente oppure puoi salire su quel treno e non scoprirlo mai”. Del resto come ha specificato il giornalista Alessandro Bertoglio «In Brasile il calcio è il ballo di chi non sa cantare».

Indolenti quanto irraggiungibili , pigri ma rapidissimi perché come diceva Didi «è la palla a dover correre»; capaci di trasformarsi da campioni a bidoni nel giro di un anno, spesso dopo aver raggiunto i 30 anni, quando cominciano a sentire il richiamo verso casa ; festaioli perché fanno l’amore con la palla ed al culmine della disperazione da un momento all’altro, dentro e fuori dal campo: i brasiliani hanno incarnato nel calcio tutte queste apparenti contraddizioni, a tal punto d’avere a Rio l’immensa statua del Cristo redentore e la parola progresso sulla propria bandiera ispirata dalla filosofia dell’ateo e positivista August Comte, a tal punto dal dare vita anche ad un culto ispirato al filosofo francese. Una mezcla tra le più grandi al mondo: influenze europee, africane e indios. Il tutto incarnato nello spettacolo del carnevale brasiliano. I brasiliani evolvono le tradizioni del continente nero in altre forme, essendo proibite e osteggiate dall’imperialismo portoghese e dalla religione cattolica, dal candomblè alla ginga. Oggi sembrano lontani anni luce i tempi in cui calciofili di tutte le età avevano un venerabile rispetto per i verdeoro e si incantavano davanti agli spot spesso firmati Eric Cantona con i campioni verdeoro che incantavano con le loro giocate fuori dal comune.

La fine del mito del Brasile

Il Brasile nelle ultime uscite internazionali, al di là dei risultati, alcuni incoraggianti come la vittoria in casa alle Olimpiadi del 2016, non suona più la samba nella felicidade né la bossanova nella tristeza, generi musicali che incarnano le ambivalenze e l’anima di un paese così eterogeno, che trova espressione in quello stato d’animo simile alla nostalgia che non trova corrispondenza precisa nella nostra lingua, la saudade. Così definisce tale sentimento il musicista brasiliano Gilberto Gil, debitore della poetica pessoana nonché di questo lascito da parte dei cugini lusitani: Ogni saudade è la presenza dell’assenza / Di qualcuno, un luogo o un qualcosa, infine / Un improvviso no che si trasforma in sì / Come se il buio potesse illuminarsi. / Della stessa assenza di luce / Il chiarore si produce, / Il sole nella solitudine. / Ogni saudade è una capsula trasparente / Che sigilla e nel contempo porta la visione / Di ciò che non si può vedere / Che si è lasciato dietro di sé / Ma che si conserva nel proprio cuore.

Il Brasile di Neymar e compagni negli ultimi anni hanno suonato tuttalpiù un reggaeton degenerato ed insulso simile alle tante canzonette insopportabili d’importazione latinoameriana che invadono il mercato europeo puntualmente un’estate dopo l’altra. D’altronde anche il calcio, come la musica, è cambiato, ma in peggio. Le cause di una decadenza come sempre sono molteplici : un po’ per via della frenesia dei nostri tempi a cui i sistemi di gioco si sono adattati a discapito dell’improvvisazione e delle creatività del numero 10, la cui leggenda non a caso nasce con Pelè, per l’estrema commercializzazione e spettacolarizzazione, perché forse è già stato detto e fatto tutto quello che si poteva fare con un pallone fra i piedi. Nel caso del Brasile, maggiormente rispetto al passato, i calciatori abbandonano in fretta la madrepatria, finendo per europeizzarsi prematuramente. Se non dovesse vincere il mondiale in Qatar del 2022, Il Brasile raggiungerà il record negativo di 5 edizioni senza vincere, cosa che successe già nel lungo digiuno tra il terzo ed il quarto mondiale vinto dalla selecao, dal 1970 al 1994. Di sicuro degli anni ’10 l’unica cosa che si ricorderà il Brasile sarà il Mineraizo, la terribile sconfitta in casa contro la Germania per 7-1, una batosta psicologica da cui i verdeoro non si sono ancora ripresi.

Il Brasile dei tempi migliori potrà risorgere solo se riuscirà a riscoprire la propria anima e, per dirla come Carmelo Bene, tornerà ad essere «un’orchestra di solisti che sappia suonare insieme».

(di Emilio Bangalterra)

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