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Biden-Sanders e la crisi d’identità del partito democratico

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Biden contro Sanders. la mappa elettorale delle primarie democratiche si sta progressivamente delineando. Dopo i primi appuntamenti elettorali gli scenari sono completamente cambiati. Infatti, a seguito delle pesanti sconfitte subite nell’Iowa e nel New Hampshire ad inizio febbraio, Joe Biden – già vice presidente nell’amministrazione Obama dal 2008 al 2016 ed esponente tradizionale dell’apparato del partito democratico – sembrava improvvisamente e clamorosamente fuori dalla corsa. Le sue sorti, però, si sono risollevate nel Super Tuesday del 3 marzo, un appuntamento elettorale decisivo in cui è riuscito a conquistare dieci Stati su tredici superando il senatore del Vermont Bernie Sanders.

I successi di Biden negli Stati del Michigan e del Missouri – zone in cui risiede la classe lavoratrice del Midwest – hanno delineato l’andamento positivo della sua campagna elettorale. La conferma, però, è arrivata la scorsa notte. L’appuntamento elettorale – svoltosi in un clima surreale per via dell’allerta sanitaria nazionale – ha determinato le sorti dei due contendenti e, di conseguenza, del partito democratico. La schiacciante vittoria di Biden negli Stati dell’Arizona, dell’Illinois e della Florida rappresenta un lasciapassare nella scalata al vertice del partito democratico che lo pone, di fatto, come il candidato più accreditato per sfidare Donald Trump alle prossime elezioni del 3 novembre. Il tassello fondamentale era lo Stato della Florida che, con i suoi 219 delegati, agiva da ago della bilancia.

La conta dei delegati vede Biden al primo posto con 1.147 delegati, seguito da Sanders con 861 (la soglia minima necessaria per ottenere la nomination è di 1.991 delegati). L’ex vice presidente gode di un vantaggio pressoché insormontabile. È difficile pensare ci possano essere futuri colpi di scena. Nonostante l’appello all’unità lanciato da Biden, il “vecchio leone” del Vermont non sembra ancora intenzionato ad alzare bandiera bianca. Continuare la campagna elettorale, però, sarà tutt’altro che facile. L’emergenza sanitaria nazionale, infatti, ha spinto il governo ad adottare misure restrittive impedendo lo svolgimento di manifestazioni e raduni elettorali. A pagarne maggiormente le conseguenze sarà Sanders.

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La crisi d’identità

L’inaspettato trionfo di Donald Trump alle elezioni del 2016 ha travolto il partito democratico facendolo precipitare in uno stato di instabilità perenne. Il profondo dissenso interno, creatosi negli ultimi anni, è mutato in due fazioni contrapposte che già nel 2015-2016 caratterizzarono le primarie democratiche tra Hillary Clinton e Bernie Sanders: i democratici moderati contro i socialdemocratici. Il duello tra gli attuali candidati dem incarna il medesimo conflitto ideologico, ponendo il moderatismo di Biden contro il progressismo anti-casta del socialista Sanders.

Le prossime settimane saranno fondamentali per capire quale percorso intraprenderà il partito democratico. La priorità assoluta rimane l’unità del partito. L’eventualità di un dualismo ad oltranza, infatti, rappresenta una vera e propria minaccia agli equilibri interni del partito, che rischia di arrivare alla Convention di luglio con una lacerazione insanabile. C’è chi considera Sanders una spina nel fianco e chi lo accusa, addirittura, di fare un assist a Donald Trump; secondo le accuse, la sua riluttanza a ritirarsi dalla corsa starebbe creando terreno fertile per l’ipotetica rielezione del magnate.

A loro volta, una parte dei sostenitori di Sanders nutre profondi sentimenti di diffidenza nei confronti dei vertici del partito democratico. Il loro sospetto è che ci sia in atto l’ennesimo tentativo di ostacolare la campagna elettorale del senatore del Vermont. Se i toni accesi e le critiche reciproche tra i due concorrenti – verificatesi anche in occasione del dibattito televisivo di domenica scorsa – dovessero continuare a lungo, l’unità del partito sarebbe a repentaglio. L’ipotesi che si verifichi la medesima frattura interna che ci fu a seguito della nomina di Hillary Clinton nel 2016 non è poi così remota. Il prolungato scontro tra Biden e Sanders renderà più difficile per i democratici la corsa alla Casa Bianca contro il presidente Trump che, durantequesto suo primo mandato, è riuscito a compattare e modellare il partito repubblicano a sua immagine e somiglianza.

Biden, la svolta moderata e l’ombra di Obama

Gli elettori democratici si trovano dinanzi ad un bivio. Dovranno decidere se contrapporre a Trump una forza moderata, capace di adunare le diverse anime presenti all’interno del partito, oppure una social-progressista. Ad oggi sembrano premiare Biden, dotato di un appeal più istituzionale e forte del sostegno sia dell’apparato democratico che di quello dei mezzi di informazione. Il tentativo dell’ex vice presidente di creare un’alleanza di moderati al fine di arginare il radicalismo di Sanders ha convinto gran parte dei candidati dem, ritiratisi dalla corsa, ad aderire; da Bloomberg a Buttigieg, passando per Klobuchar, Harris e O’Rourke, hanno tutti pubblicamente espresso il loro appoggio a Biden. Al contrario, il senatore del Vermont punta a prosciugare il bacino elettorale dei moderati nella speranza di far convergere il consenso verso l’ala social-
progressista.

Per superare questa crisi di identità, il partito democratico sembra avere individuato nella persona di Barack Obama il modello da seguire. I moderati, infatti, sono rimasti ancorati all’era di Obama e non riescono a conciliarsi con l’ala più radicale e progressista del partito. Il percorso intrapreso dai dem sembra quello di scommettere sul ritorno al passato piuttosto che sulla “rivoluzione politica” proposta da Sanders. Uno sguardo al passato per affrontare il futuro. Ci provò la Clinton in tempi non sospetti e l’esito fu disastroso. Joe Biden non è Hillary Clinton, ma il rischio di un altro flop è dietro l’angolo.

I democratici devono tenere a mente un dato che, per quanto possa ledere la loro sensibilità politica, è inoppugnabile: il fenomeno del trumpismo si è costruito ed alimentato anche sui fallimenti delle due amministrazioni Obama. Tentare di rivitalizzare, dunque, la sua eredità politica potrebbe rivelarsi nuovamente fallimentare. L’aspetto più allarmante di questo stato confusionale in cui riversa il partito democratico è la totale inconsapevolezza dell’insuccesso della loro comunicazione. Da poco più di tre anni a questa parte, l’anti-trumpismo ha rappresentato la sola ed esclusiva bussola politica dei democratici.

Un’opposizione senza confine, spesso irrazionale, che si è manifestata in tutta la sua miopia nel tentativo della messa in stato di accusa nei confronti del presidente in carica. Come se non bastasse, il 5 febbraio, al Congresso, durante il discorso annuale del presidente Trump sullo Stato dell’Unione, la presidente della Camera dei rappresentanti, Nancy Pelosi, si è esibita in un gesto simbolico e senza precedenti strappando il testo del discorso pronunciato da Trump. I democratici hanno condotto, con il sostegno incondizionato della stampa mainstream, una intensa campagna politico-mediatica tesa a screditare l’amministrazione Trump. Il fenomeno socio-culturale del trumpismo, tuttavia, non si sconfigge nelle aule di tribunale né tantomeno sui mezzi di informazione, bensì nelle urne.

(di Claudio Pasquini Peruzzi)

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