Fine vita: amare è "lasciar andare" o reagire insieme?

Fine vita: amare è “lasciar andare” o reagire insieme?

Vi confesso e mi confesso che io il suicidio non lo condanno né lo biasimo. Vi dirò di più, per me è l’estremo atto con cui un uomo o una donna ha tentato di chiedere aiuto senza riuscirci, o senza che nessuno se ne accorgesse o tentasse di porre rimedio; non lo vedo neppure come un peccato, e riconosco che nel togliersi la vita la propria esistenza ha raggiunto un grado così alto di insoddisfazione e pesantezza tale da dimostrare il lato più tragico di quell’atto troppo umano per tutti noi: la fragilità della solitudine. Cosa voglio dire, a cosa mi riferisco?

Guardiamoci attorno un attimo e focalizziamoci sulle persone che vediamo o che ci stanno attorno, siamo circondati da una massa informe di individui che sono lasciati allo sbando e crescono con il mito dell’individualismo radicale per cui io debbo realizzarmi a discapito degli altri, i quali sono prima di tutto nemici, e alla vita sono sempre e soltanto io a darle il valore che merita.

Non mi stupisce e non dovrebbe stupire nemmeno voi a questo punto la progressiva scomparsa di ogni sentimento di comunità o di solidarietà. Ci sono delle sacche di resistenza come le associazioni di volontariato, mi si dirà; non mi sto, però, riferendo a quello, né mi interessa: parlo delle relazioni, dell’amicizia o dell’affetto che legherebbe due persone non attraverso un like o un commento sui Social Network, ma dal continuo e reciproco prendersi cura dell’altro.

È un fenomeno in lenta estinzione sul quale ora potrei cominciare a parlare anche delle difficoltà con cui si inizia un progetto di vita in comune, un matrimonio o una famiglia, ma non voglio rubare troppo tempo a chi mi sta leggendo. Mi limiterò a scrivere che pure tutto ciò possiamo collegarlo alla solitudine, al suo sopravvento, e al suicidio perché mancano, a mio avviso, le forme più elementari di umanità.

Non nego che bisogna imparare a saper stare da soli e avere i propri spazi, anzi, sono il primo dei solitari, ma è pur vero che non possiamo fare affidamento soltanto su noi stessi: talvolta gli altri, o meglio coloro ai quali poniamo nelle loro mani la nostra fiducia e il nostro amore, scorgono in noi qualcosa che ci passa inosservato, che riteniamo di poco conto o futile o che non vogliamo vedere; e ancora, nel pericolo di una nostra sofferenza si sbracciano e si affaticano per aiutarci a salvarci, sfiorando il sacrificio.

Qual è il loro compito, in definitiva? Essere una valvola di sfogo; provocare una reazione; preservare la sua incolumità. La lista proseguirebbe ancora per molto, ma sono questi i punti su cui mi vorrei soffermare ancora un momento (posto che debba essere una relazione, in tal senso, reciproca e biunivoca, non a senso unico). Riprendo quello a cui ho accennato all’inizio, il suicidio come estrema richiesta di aiuto, la morte è l’atto conclusivo ma definitivo del fallimento o dell’incapacità non del suicida di affrontare la vita, bensì di chi non ha agito per evitare che ciò accadesse, vuoi per pigrizia, ipocrisia o semplicemente inettitudine, per una somma di elementi o solo uno di questi.

Il suicida è vittima al tempo stesso di se stesso e della società: perché, venendo meno le strutture e le relazioni intime e vicine a lui, quindi il porto sicuro più facilmente raggiungibile e in cui rifugiarsi, come nel gioco del domino spariscono anche quei sistemi che, in quanto comunità, dovrebbero aiutare il cittadino o l’individuo. E infatti, lo vedete bene pure voi nei giornali o in televisione, agli sforzi per provare ad affrontare il dolore – tranne quando è spettacolarizzato, lì va bene – lo si preferisce relegare in un angolo.

Ancora meglio, eliminarlo: se sono io a dare valore alla mia vita è giusto che sia sempre io a decidere quando non è più sopportabile e quindi andarmene in pace, per non soffrire più, senza che nessuno tenti di fermarmi. La direzione è quella, peggio, perché accanto alla decisione non è assente un beneplacito più o meno esplicito dei famigliari o degli amici, nessuno sembra voler contestare la scelta, debole oltretutto della domanda dal gusto retorico “chi sei tu per giudicare?”.

In effetti, prima di giudicare dovremmo ascoltare, comprendere e poi aiutare. Sinceramente, però, in quanti sarebbero disposti a stringere i denti e a reagire di fronte alla sofferenza e alla solitudine del proprio caro? Oppure, in quanti se ne accorgerebbero? Sono due domande che personalmente mi pongo spesso, e le risposte, non lo nascondo, variano a seconda dei giorni o dei periodi eppure continuo a rifletterci sopra. Vedo, d’altro canto, un atteggiamento passivo che ricalca grossomodo quanto ho scritto poco sopra: ciascuno è libero di agire come meglio crede.

E sorrido con un po’ di amarezza in bocca ricordando, credo, uno degli inni alla vita più belli mai scritti dall’uomo, l’Odissea, dove Ulisse per primo lotta tenacemente contro ogni pericolo e sventura con l’unico scopo di ritornare in patria, alla sua Itaca, e dall’amata Penelope, e penso in particolare all’episodio, notissimo, in cui assieme all’equipaggio affronta le malefiche Sirene: se volessimo trasportare nella realtà questo, noi dovremmo ricoprire il ruolo di quei marinai che si rifiutano di liberare il loro capitano, opponendogli un fermo “preferirei di no, lotta, ti prego” e aiutandolo sul serio, abbandonando inutili sofismi e frasi fatte o retoriche. Cerchiamo di riflettere, e di accorgerci di certo dolore, impedendo che sopraggiunga, poi, il rimorso.

Concludo ricordando questa volta una famosa scena, direi ormai classica, del cinema internazionale: la sfida a scacchi che il cavaliere Antonius propone alla Morte venuta apposta per lui, nel film Il settimo sigillo di Ingmar Bergman. Personalmente, la ritengo emblematica perché è il paradigma di un certo modo di affrontare la Vita, cioè totalizzante, sfidandola a muso duro persino con tutti i dolori e le sofferenze del caso, senza trovarsi mai da solo ma sempre accompagnato dalla fede (per chi crede) o dai propri cari. Valori, questi, che oggi sarebbero considerati blasfemi e buoni solo per pochi eretici, quelli che a me verrebbe da dire “che amano il respiro sospeso in un bacio”.

(di Alessandro Soldà)

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