La scomparsa della musica: intervista ad Antonello Cresti

La scomparsa della musica: intervista ad Antonello Cresti

•Todos caballeros direbbero in Spagna o parafrasando Leopardi “quando tutto il mondo fu musicista, La musica non ebbe più musicisti”. Vuoi sottolineare anche questo nel tuo saggio, cioè un processo di saturazione per cui trovandola ovunque, non sappiamo più dove si trovi la musica, come sosteneva Jean Baudrillard riguardo la sparizione dell’arte?

Il punto di partenza del nostro contributo non differisce in effetti granché da quello di Baudrillard, da te correttamente indicato. Il paradosso, per quanto possa apparire provocatorio, è semplice: nel momento in cui un fenomeno artistico/creativo è dappertutto, tale fenomeno è come se non fosse presente da nessuna parte. Anche perché ragionando sulla “presenza”, poiché essa possa essere ritenuta effettiva, occorre un ricevente (ascoltatore) che mantenga un atteggiamento attivo.

Se questo non avviene, ed è il risultato di un continuo bombardamento di stimoli, la musica resta nella migliore delle ipotesi un ninnolo, un soprammobile, ma perde ogni sua reale valenza incisiva. Questo poi si lega ad un fenomeno epocale: la musica per la prima volta nella storia non si lega ad una istanza socioculturale “differenziante” (movimento giovanile, controculturale, politico, etc…), ma si limita a rappresentare bellamente la standardizzazione assoluta del Pensiero Unico neoliberista.

Per disinnescare questo stato delle cose occorre riconsegnare al Suono il suo potere intimamente scatenante e rivoluzionario, sottraendolo da un lato dal ruolo di puro rappresentante dello Zeitgeist, dall’altro a certe false trasgressioni e contestazioni (dalla “pappa del cuore” dei messaggi umanitari via via a scendere fino ai cortocircuiti di senso rappresentati dalla Trap). La musica può ancora rappresentare uno straordinario strumento di consapevolezza, se saremo abbastanza desti da accoglierlo nella giusta maniera…

•Come deve armarsi allora l’ascoltatore medio del nuovo millennio per difendersi dalla musica di massa ed effimera?

Deve per l’appunto riscoprire il senso dell’ascolto, che in tempi di fast-tutto rappresenta uno straordinario esercizio di attenzione. Quella che ci hanno fatto smarrire per poi blaterare a sproposito di “analfabetismo funzionale”… Ciascuno dovrebbe dedicare dieci minuti della propria giornata a veri e propri esercizi di ascolto, ossia dedicarsi per questo breve lasso di tempo esclusivamente a coltivare un rapporto diretto con la musica che si sta ascoltando, senza mettere altre azioni in mezzo, o altri pensieri (l’orribile “multitasking” tanto amato oggi…).

Io lo intendo quasi come una sorta di “esercizio spirituale” che rimanda a un insegnamento tanto antico quanto centrale, ossia quell’“essere qui adesso” che negli anni settanta, quando, per dirla con Battiato, si stava “a quote più normali”, era divenuto un motto di massa… Mi riferisco al libro di Richard Alpert “Be Here Now”, per l’appunto!

•L’informatica ha reso possibile fruire della musica in qualsiasi luogo ed in qualsiasi modo: siamo passati dal materiale all’ immateriale, dai dischi,i vinili agli ipod, Spotify ecc.. In questo modo non si ha un eccesso di quantità a discapito della qualità?

Non amo l’atteggiamento manicheo prevalente quando si affronta l’argomento della tecnologia: o l’apologia più ebete o l’antimodernismo senza sfumature… Credo che la tecnologia, come tutte le cose, se dominata possa essere uno strumento eccezionale, anche in ambito creativo. Il problema è che stiamo subendo questo avanzamento tecnologico, perdendo la nostra umanità, con tutti i rischi conseguenti…

In ambito culturale secondo me la problematica maggiore che è emersa è quella dei fraintesi che porta con sé la cosiddetta “era dell’accesso”, ossia l’illusione che si possa conoscere tutto. In ambito musicale abbiamo oggi una possibilità di ascolto illimitata, a portata di mano, ma questo produce una sorta di apatia e di compulsività che, di fatto, ostacolano il cimento di un vero percorso conoscitivo.

Il paradosso è che, impigrendoci come ascoltatori, abbiamo perso ogni curiosità verso quelle manifestazioni sonore meno visibili (che pure sarebbero più “accessibili” rispetto al passato). Ecco perché, al di là di una proposta quantitativamente enorme, il cosiddetto “underground” ha perso il suo significato originario. Siamo in presenza di un immenso mainstream a cui si contrappongono oramai meri atti di testimonianza. Per quanto essi possano essere apprezzabili, il loro peso sociale è pressoché nullo…

•Il talent show appare a tuo avviso come un’arma di addomesticamento e conformismo musicale dei talenti dettato dal Mercato?

Come spieghiamo nel libro tanti sono i meccanismi strutturali della musica di oggi che inducono alla omologazione. Il talent show opera il discorso più distopico incarnando una sorta di “laboratorio eugenetico” per la voce. Se ci pensiamo bene, infatti, lo strumento vocale è davvero il mezzo che esprime la nostra più profonda individualità; i vocal coach che impongono ai loro allievi due tre timbri di riferimento non fanno altro che espungere ogni forma di reale personalità dall’interprete ponendo le basi per una serialità che dall’oggetto, all’opera creativa giunge infine all’artista stesso.

Ovvio che questa serialità è intesa per realizzare una eterna intercambiabilità degli interpreti tenendo strette le redini del discorso musicale. Al di là delle valutazioni estetiche che si possono dare ai prodotti di questi contenitori, ritengo tutta questa ideologia occulta altamente inquietante.

(Intervista di Emilio Bangalterra)

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