Ius Soli, ovvero la lotta per l’incivilità

Ius Soli, ovvero la lotta per l’incivilità

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Gli imbianchini morali li sentiamo chiacchierare ogni giorno. La vanvera (più che la verve) è ciò che connatura le loro parole. Una delle ultime tele tinteggiate di moralità è quella dello Ius Soli, nuovo disegno di legge accompagnato dall’immancabile appellativo di “lotta per la civiltà”.

Ma è davvero così? Veramente una legge del genere ha in sé il portato morale di “lotta per la civiltà”, oppure sarà piuttosto un tentativo del tutto incivile di introdurre un sapiente metodo di investimento a medio termine sui voti, nonché applicazione di ideologie considerate, per l’appunto, “civili” ma che in realtà si prefiggono proprio l’uccisione di questa civiltà? La legge sullo Ius Soli e sullo Ius Culturae prevede un iter per ottenere la cittadinanza più facile e snello rispetto alla normativa attuale.

Ebbene, proprio lo snellimento introdotto dallo Ius Soli aprirebbe de facto a diverse problematiche. La prima è di tipo simbolico: la cittadinanza italiana verrebbe svincolata dall’appartenenza culturale, per abdicare a una riduzione in termini prettamente burocratici. La cittadinanza consapevole (cosa possibile in un contesto culturale proprio da una profonda conoscenza di quel contesto, nonché da una aderenza allo stesso) sarebbe un miraggio ancor più lontano di quanto non lo sia ora.

Perché “ancor più lontano”? Perché già adesso gli attuali cittadini non partecipano, e quasi 1 su 2 non vota (sempre che poi il votare sia la massima espressione di partecipazione politica). Cosa ci aspettiamo dunque, che i nuovi cittadini naturalizzati e magari non integrati, perché culturalmente differenti, partecipino di più alla vita politica del Paese? Sempre che non votino la sinistra, generosa datrice del diritto di voto, il rischio è di creare nuovi cittadini menefreghisti. Ma i problemi non finiscono qui.

La seconda problematica riguarda la sicurezza e gli stessi neo-cittadini, figli dello Ius Soli, che si ritroverebbero in una situazione quanto mai ambigua: cittadini anche loro, con pochi diritti sociali assicurati. Nuovi disoccupati, nuovi poveri e nuovi ghettizzati. Ci ritroveremmo in una situazione di schizofrenia sociale, con nuove persone naturalizzate italiane ma non integrate. Quale sarebbe il risultato? Un rifiuto dello Stato, disillusione, risentimento verso un Paese che non pensa ai loro veri problemi.

Nient’altro insomma che il processo storico in atto in Francia, Germania e Regno Unito, ovvero la radicalizzazione di cittadini (in quanto tali che non possono essere espulsi) appartenenti a comunità ampie, naturalizzate ma non integrate. Perché dunque quest’ansia di far passare una legge che, stando al contesto attuale, rischia solo di portare danni a una società, a una civiltà, senza pensare effettivamente all’integrazione? Quest’ultima infatti affonda le radici, paradossalmente, in un confronto dei nuovi arrivati con una civiltà solida e consapevole, che li accetta e dunque li integra, non in una loro assimilazione meramente burocratica. Come può allora realizzarsi gettando i neo-cittadini in un mare di disoccupazione, povertà diffusa e differenze di classe? Cosa porta la sinistra a farsi promotrice di qualcosa del genere? Perché non si pensa prima a rilanciare la cittadinanza in sé?

Rispondiamo a queste domande premettendo che la sopracitata sinistra affonda le proprie radici teoriche nel concetto di uguaglianza. Ormai scollata dalla realtà come un malato di schizofrenia, pensa tuttavia che il problema della classi sociali sia ormai superato, un mero fenomeno storico ottocentesco già risolto nei due secoli a noi precedenti, e dunque ha convogliato le sue forze nella realizzazione di questa uguaglianza nei cosiddetti diritti civili, quelli che riguardano la parità (non usano “uguaglianza”, forse vergognandosi un po’ di loro stessi) di genere, sesso ed etnia.

Un milione e seicentodiciannovemila famiglie in stato di povertà assoluta (dati ISTAT 2016) dovrebbero invece smontare quest’illusione così petalosa dell’assenza del problema delle classi sociali, riportandoci coi piedi per terra, eppure questo non tocca la sinistra e la sua “società civile radical-chic”. In Italia un quarto della ricchezza totale netta è posseduta solo dall’1% della popolazione più ricca.

La sinistra pensasse prima a questa, di uguaglianza, anziché tentare di ampliare il proprio parco-voti con manovre completamente incivili, cioè contro una civiltà. La storia italiana è stuprata da questa legge, che permette a chi segue cinque anni di elementari di diventare cittadino (come se l’appartenenza culturale a un Paese dipenda da quello che si apprende in soli cinque anni scolastici). La sinistra crede di aver sublimato sé stessa dal contesto storico per distillarsi in purissime gocce morali, ma il risultato però è che semplicemente si è ubriacata e vive in un mondo tutto suo.

Tuttavia è doveroso riconoscere che qualcosa della nostra storia essi l’hanno accolta e applicata alla lettera, o almeno ci stanno provando: la famosa frase di Massimo d’Azeglio del 1861 (“Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”) è divenuta in effetti la loro prassi: laddove i voti iniziano a scarseggiare, e siccome questi possono essere ottenuti solo dai cittadini italiani, la sinistra si sta direttamente creando i nuovi italiani. Chapeau sinistra, il ragionamento è impeccabile, la soluzione è tutta qui: anziché adattarti alla civiltà che dovresti servire, siccome non ti va bene, te ne crei un’altra tutta tua; ma allora, cara sinistra, la tua non è una lotta per la civiltà, bensì una lotta per l’inciviltà.

(di Alessandro Carocci)

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