“In fondo chi se ne frega se perdo questo incontro, non mi frega niente neanche se mi spacca la testa, perché l’unica cosa che voglio è resistere. Nessuno è mai riuscito a resistere con Creed, se io riesco a reggere alla distanza, e se quando suona l’ ultimo gong io sono ancora in piedi… se sono ancora in piedi io saprò per la prima volta in vita mia che… che non sono soltanto un bullo di periferia.”
(da Rocky, 1976)
È scomparso ieri a causa di un tumore al pancreas John G. Avildsen, regista che ha dipinto, sottovoce, la storia del cinema americano e occidentale. Dico sottovoce perché il suo contributo si concentra su pochi capolavori immortali che hanno tracciato una linea difficilmente ineliminabile.
E l’esempio più fulgido non può che essere Rocky, 1976, il geniale soggetto scritto da Sylverster Stallone e messo su pellicola in maniera magistrale.
Con quel film, intriso di dramma ma anche di vita quotidiana, si mostrava con audacia poetica l’america lontana dal potere, quella fatta di sforzi sovrumani per sopravvivere, quell’america divisa in due in cui le spaccature tra i ricchi e i poveri erano nettamente maggiori di come noi avremmo mai potuto immaginare fino a qualche decennio fa.
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Avildsen si ricorda soprattutto per questo. Per la genuinità della sconfitta, che in realtà è puro trionfo, per la vita che è l’unico vero obiettivo a cui dobbiamo rifarci. E quel finale – forse preso eccessivamente in giro da una retorica un po’ superficiale – in cui il modesto e sconosciuto pugile di origine italiana scopre che perdere non è nulla, se poi si ha la fortuna di aver trovato l’amore.
Ciao John, e grazie.
(di Stelio Fergola)