Città e Patria possono costituire un binomio solido. Chissà cosa avrebbe detto oggi della sua città Umberto Saba, poeta che scrisse famosi versi su Trieste:( “La mia città che in ogni parte è viva, ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita,pensosa e schiva”), nei quali delineava uno scorcio realistico e onirico della sua città natale.
Scritta tra il 1910 e il 1912, “Trieste” è l’emblema di un’appartenenza che non finisce mai, di un ombelico del mondo da cui guardare fuori e guardarsi dentro, fatto di piazze,strade e pezzi di cielo, luoghi che sono allo stesso tempo spazi fisici e luoghi dell’anima.
Italia, città, patria
L’Italia è la nazione dalle mille città, dei campanili che si affrontano e confrontano in un misto tra sfida e reciproca ammirazione. Il rapporto tra identità locale e nazionale è complesso, a volte difficile ma comunque strutturato; lo stesso Saba citato precedentemente, nonostante la forte connessione con la città natia, non si definiva solo un poeta triestino ma un poeta italiano.
La riunificazione italiana è stata tardiva rispetto a quella degli altri paesi europei,e questo, unitamente ad una tradizione fortemente cittadina e non accentratrice, ha fatto sì che si sviluppassero luoghi urbani molto diversi fra loro e con una storia architettonica, culinaria e politica molto differente tra loro..
Questa Italia delle “piccole patrie” è l’occasione per ripensare un’identità forte, che sia nazionale e regionale ma saldamente ancorata a delle appartenenze urbane, la cui specificità sia conservata e consegnata alle generazioni future come antidoto al mondialismo imperante.
Uno dei primi a delineare questo problema fu nel 1996 l’antropologo Marc Augé, coniando il termine “non luoghi” per dare una sintesi di un processo sociale e antropologico che si stava venendo a creare negli ultimi decenni. Le tre caratteristiche principali che Augé utilizza per descrivere i luoghi sono l’identità, la storicità e la relazionalità. La piazza centrale di un paese, per esempio, è uno spazio identitario nella misura in cui viene riconosciuto come un luogo specifico, ci si ricorda degli eventi salienti che lì sono capitati, si tiene in memoria chi di solito la frequenta e perché; inoltre è anche un luogo storico, ovvero immerso nel tempo, perché ha una precisa data di costruzione e fa parte di una generazione piuttosto che di un’altra. Le piazze, infine, proprio come i fori latini, sono gli spazi relazionali per eccellenza, nei quali la gente (soprattutto prima di Internet) vi si recava per saldare o rinsaldare amicizie.
Gli ultimi decenni invece, sono stati caratterizzati dai “non luoghi”, centri in cui il passante viene immerso in una dimensione priva di identità, a tratti straniante, dove il tempo è esploso e non ci sono chiare trame relazionali se non di facciata. Ne sono un esempio i centri commerciali, i franchising, le nuove e moderne stazioni e i parchi divertimenti. In questi tipi di luoghi non ha rilevanza che storia li caratterizzi (spesso perché non ne hanno una o a volte perché volutamente non ci sono scritte e segni che li rendano caratterizzabili), bensì appaiono immersi in un eterno presente. Si pensi ad esempio alle stazioni, anche in quelle che potenzialmente hanno una tradizione si trovano strutture come cartelli di indicazioni o di divieto, simboli asettici che regolano il rapporto tra il passante e i non luoghi. Passante, si, poiché le persone che li attraversano perdono la loro identità per diventare dei consumatori o degli avventori.
In un periodo storico in cui non esistono più confini né patrie, in cui si può bere uno Starbucks in tutte le grandi città del mondo senza capire mai se quello è il vero gusto del caffè, c’è da chiedersi se anche le città stesse non stiamo diventando dei non luoghi, schiacciati come siamo dalla velocità di un mondo che è diventato sempre più “liquido”.
Città contro il globalismo?
L’idea è che le città italiane possano essere un’arma contro il globalismo, poiché è una battaglia culturale che si può fare partendo dal locale, valorizzando i luoghi urbani e dandogli urbanisticamente una specificità che sia sentita come identitaria dalla popolazione. Occorre ristrutturare le vecchie costruzioni abbandonate, i palazzi storici, ricostruire i campanili ma non i campanilismi, poiché l’appartenenza è un qualcosa di plurimo che non ha bisogno di eccessivi e inutili scontri fra fratelli.
Del resto cosa cos’ è l’identità se non un insieme di cerchi concentrici? Una matrioska di appartenenze che non si escludono ma si rafforzano, come nel nostro caso la provenienza urbana, ma anche regionale e nazionale?
C’è da chiedersi cosa resti di autentico delle persone senza identità, senza radicamento ad un territorio che è insieme terra dei padri e dei figli,che suggella un patto implicito fra le generazioni. C’è da domandarsi, come fece Saba, se avesse senso credere “alle parole o alle opere degli uomini che non hanno le radici profondamente radicate nella loro terra”, poiché in qualche modo “sono sempre opere e parole campate in aria”.
(di Claudia Ruvinetti)