Nazione e Giovanni Gentile sono concetti – praticamente destinati a stare nella stessa frase. Il filosofo italiano, con l’attualismo e la volontà che si realizza tramite lo Stato, ha infatti incontestabilmente generato le basi di un pensiero patriottico moderno, con quella “Nazione che non è se non in quanto si fa”, in un passaggio noto di Guerra e fede, che ci offre una testimonianza della sua veridicità proprio ai giorni nostri.
C’è un elemento però in cui il pensiero gentiliano, involontariamente, può essere sfruttato dai nemici dell’Italia del XXI secolo, a differenza di cento anni fa. Ma andiamo con ordine.
La Nazione va fatta ogni giorno e Gentile è un modello indiscutibile
Al punto 10 de La dottrina del fascismo, Gentile sottolineava l’importanza della “creazione della Nazione”, in quanto entità alimentata dallo Stato e dall’azione pedagogica verso la società.
Non è la nazione a generare lo Stato, secondo il vieto concetto naturalistico che servì di base alla pubblicistica degli Stati nazionali nel secolo XIX. Anzi la nazione è creata dallo Stato, che dà al popolo, consapevole della propria unità morale, una volontà, e quindi un’effettiva esistenza. Il diritto di una nazione all’indipendenza deriva non da una letteraria e ideale coscienza del proprio essere, e tanto meno da una situazione di fatto più o meno inconsapevole e inerte, ma da una coscienza attiva, da una volontà politica in atto e disposta a dimostrare il proprio diritto: cioè, da una sorta di Stato già in fieri. Lo Stato infatti, come volontà etica universale, è creatore del diritto.
Insomma, in buona sostanza, la Nazione esiste solo in virtù di un’azione superiore volta a plasmarla. E sul fatto che non sia generata dallo Stato, Gentile si aggancia alla storia di quasi tutte le nazioni occidentali, dove la Nazione medesima è stata forgiata incontestabilmente dallo Stato, mettendo da parte le pecurliarità del caso italiano in cui essa, intesa come comunione culturale ed etnica del senso proprio ottocentesco, essa nasce effettivamente secoli e addirittura un millennio precedentemente alla formazione dello Stato nazionale.
Il concetto, il tema della “educazione nazionale”, è particolarmente sentito da Gentile, non a caso su di esso egli insisterà con energia, in particolare durante gli anni del Fascismo, la cui sua adesione fu proprio frutto del principio pedagogico da egli sempre inseguito e promosso, limitato nell’Italia democratico liberale e invece cardine del programma – già sansepolcrista – dei “fasci di combattimento”.
Se guardiamo ai giorni nostri, non c’è dubbio che la visione del filosofo siciliano non sia passibile di smentita. Di fatto, una comunità di persone inconsapevoli delle proprie radici, delle proprie azioni di volontà nel reale, dei propri tratti identitari, non è una Nazione e forse non è neanche una comunità.
Indipendentemente dalle proprie caratteristiche, esse si muovono come individui atomizzati, incapaci di costruire insieme e di costituire, quindi, un soggetto unico. Quindi, se si può discutere sull’essenza della Nazione “aprioristica” (ed è quello che faremo), non c’è dubbio che una Nazione senza consapevolezza sia come se non esistesse e, costituisca, di fatto, un corpo inutile.
Cito spesso l’esempio familiare in quanto emblematico del problema. Un figlio abbandonato a sé stesso – a meno di casi fortuiti – navigherà in modo ancora più imprevedibile nel mare della vita. E le possibilità che si allontani da valori costruttivi ed edificanti aumenteranno notevolmente.
Un figlio educato e seguito dai genitori secondo certi valori avrà più probabilità di seguire le strade migliori. Sottolineare l’assenza di patriottismo degli italiani è quindi stupido, oltre che inutile: essa è il frutto di decenni di mancanza di formazione e, anzi, di profonda pedagogia contraria alla Nazione, alla sua prosperità, ma addirittura alla sua sopravvivenza.
La Nazione, però, esiste anche “da morta”
Se la Nazione è concretamente e indissolubilmente legata al suo principio partecipativo, educativo e costruttivo, un errore può essere quello di tralasciare completamente tutto ciò che la rende possibile. Perché, per quanto la forgiatura pedagogica sia fondamentale, può agire molto limitatamente in contesti in cui non sussistano caratteri comuni o siano estremamente deboli (i casi più recenti sono quelli della Jugoslavia e della Cecoslovacchia, tralasciando l’esempio dell’URSS che richiederebbe ben altri approfondimenti).
Ciò che comunemente si fa quando si ricorda l’insegnamento di Gentile, correttissimo nel sostenere l’impronta “volontaristica” della Nazione, è quello di cedere a una “tentazione” che si rivela vulnerabile all’anti-italianismo, ovvero quella di tralasciare la storia e la cultura comuni, proprie del popolo italiano, almeno dalla fine del primo millennio dopo Cristo.
Gli italiani esistono indipendentemente dall’atto di volontà dello Stato. Esistono, senza neanche rendersene conto. Ignorare questo aspetto significa annullare completamente lo sviluppo di una lingua letteraria comune, la profonda identità cristiana e nella fattispecie cattolica, significa sminuire completamente il Rinascimento, la tradizione pittorica seicentesca, la Lirica, la Commedia dell’Arte e perfino una banalissima tradizione alimentare come quella della pasta, o per citare altri usi “sacri” più popolari, l’esempio del presepe.
Concentrarsi esclusivamente sulla Nazione “parto della volontà pedagogica” di uno Stato o della volontà interiorizzata del popolo di esercitarla è giustissimo da un punto di vista pragmatico, perché per quanto possiamo avere caratteri comuni, senza esercitarli, senza amarli e senza curarli allora è come se non ne disponessimo più, perché li conduciamo naturalmente all’estinzione.
Questo principio sacrosanto però non può ignorare – sempre pragmaticamente – l’importanza della millenaria cultura italiana, di usi e costumi che, oltre alle differenze che logicamente ci caratterizzano, forgiano un’identità comune che esiste indipendentemente dalla volontà di esercitarla.
Perché enfatizzare il primo aspetto dimenticando completamente il secondo non fa altro che dare ragione a chi sostiene che l’Italia non esista, a quella letteratura anti-nazionale che, da Benedetto Croce per proseguire con i vari Stefano Salvi o Alberto Maria Banti, ha prosperato nell’ultimo secolo. Significa dare manforte a chi ci paragona ogni giorno a una sorta di Jugoslavia “riuscita bene”, o de facto ridimensiona la nostra storia culturale a qualcosa di inferiore addirittura agli Stati Uniti d’America, formatisi come Stato ben prima di noi.
No, l’Italia esiste. Ed esiste per innumerevoli caratteri comuni i quali – nonostante l’inesistenza dello Stato, e ciò andrebbe esaltato come un miracolo, anziché inquadrato in senso problematico – hanno partorito una delle culture più importanti dell’Occidente nello scorso millennio.
Tornando alla metafora familiare: un figlio resta un figlio. Anche se lo abbandoniamo a sé stesso, anche se cresce con valori opposti. Anche se, per estremo, dovessimo disconoscerlo, rimane sangue del nostro sangue, con buona pace della nostra volontà magari “indispettita” di rifiutarlo. Così è la Nazione: gli italiani restano tali per tantissimi motivi di cui spesso non si rendono conto, che talvolta rifiutano perfino ideologicamente, incoraggiati dal Feudo e dalla sua volontà distruttrice.
Che questa esistenza sia sostanzialmente inutile senza un’azione comune e senza una pedagogia volta a forgiarla e formarla (“coi nostri sforzi, non credendo mai che essa ci sia già, anzi pensando proprio il contrario: che essa non c’è mai, e rimane sempre da creare“) è pacifico. Altrettanto sacrosanto è ribadire gli innumerevoli elementi che ci rendono italiani, ben prima di tutto ciò che ci caratterizza come napoletani, romani, veneti, lombardi, siciliani e tutte le altre genti che sono parte integrante di questa Nazione.
Ben prima della nostra volontà. Perché mio fratello resta mio fratello anche se lo disconosco. E forse, se mi rende orgoglioso, anche in una semplice affermazione sportiva (come avvenuto in questo mese di trionfi calcistici), mi fa anche più piacere ricordarmi di essere suo fratello, mettendo da parte le ragioni di dissidio.
(di Stelio Fergola)