Italexit

“Fuori dall’Europa, liberi dall’euro”: ecco Italexit di Paragone

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Gianluigi Paragone ha presentato questa mattina alla Camera con Monica Lozzi – candidato sindaco a Roma – il suo nuovo partito Italexit – No Europa per l’Italia, che ha come obiettivo cardine l’uscita dell’Italia dall’Unione europea e dalla moneta unica. “Secondo i sondaggi dell’istituto Piepoli Italexit è al 5%, e per essere una forza che deve ancora radicarsi è un punto di inizio. La strada è lunga e da qui l’Europa sarà la mia migliore alleata perché i provvedimenti presi danneggiano gli italiani” ha affermato Paragone. “Come primo segnale occorre uscire dall’Unione, sono convinto che il processo dell’Ue andrà a consunzione. Non hanno mai considerato la possibile ribellione del popolo. Noi crediamo fermamente nell’uscita dall’Ue e dall’Eurozona. La scommessa che gioco è politica, l’Europa invece non vuole ragionare politicamente ma tira fuori meccanismi di tipo finanziario”.

Italexit

Italexit, recuperare la sovranità monetaria

“I Paesi – ha sottolineato Paragone – devono riappropriarsi della politica monetaria e a proposito dei tanti soldi che si stanziano negli scostamenti di bilancio, ci sarà il problema delle banche e di come rientrare nel debito. I governi dovranno riparare al malanno bancario, perché a fine anno il problema saranno le banche piene di Npl. Qui verrà veramente giù tutto. Il Paese non è abituato a subire uno stress sociale, e quando ci sarà una somma di disperazione di disoccupati schiereranno l’esercito per fermarli? Chiameranno la Lamorgese?”, ha concluso.

Immigrazione di massa funzionale al neoliberismo

“I flussi migratori sono funzionali ai disegni neoliberisti: quando guardi la morte in faccia nella traversata puoi affrontare il lavoro in nero, qui c’è la responsabilità di un’Europa che non ha saputo usare i mezzi a disposizione per fermare i flussi migratori. Vuol dire che ti sta bene non fermare i flussi per creare una situazione di continuo allarme sociale. Ti danno un pò di soldi e tu ti gestisci il problema, ecco la visione miope dell’Europa, ti danno mance per gestire i campi. Invece dentro le ondate migratorie, quando l’economia gira, c’è integrazione e gli stranieri non sono stranieri” ha ricordato Paragone durante la presentazione di Italexit.

Il manifesto di Italexit

Ecco il Manifesto di Italexit che pubblichiamo per intero.

No Europa per l’Italia – Italexit con Paragone è il partito di chi vuole liberare il nostro Paese dalla gabbia dell’Unione europea e della moneta unica.
Gli italiani si meritano un’Italia forte, libera e indipendente, che recuperi la propria sovranità e sia di nuovo capace di autodeterminarsi. Di fronte al fallimento del neoliberismo e della globalizzazione sfrenata, ora più che mai è necessario un radicale cambio di paradigma. C’è da cancellare gli effetti nefasti degli ultimi trent’anni di politiche antipopolari e ricostruire una società all’insegna dei diritti e dei valori della nostra Costituzione. Queste sono le nostre parole d’ordine per un’Italia che si desti dal torpore e sappia affrontare le sfide dei tempi a venire. Sarà una strada dura, ma con l’aiuto di tutti ce la faremo. Riprendiamoci l’Italia!
RECUPERARE LA SOVRANITÀ MONETARIA
La sovranità monetaria è la base dell’indipendenza di una nazione: un Paese che sceglie di rinunciarvi sceglie di mettere il proprio futuro nelle mani dei “mercati”, cioè dei grandi potentati finanziari. Come dimostra la crisi profondissima in cui versa il Paese da anni, senza sovranità monetaria l’Italia non sarà mai in grado di rimettersi in piedi. Al recupero della sovranità monetaria si deve aggiungere una rivoluzione copernicana nel concepire la finanza pubblica. Questa non può più essere asservita a vincoli arbitrari stabiliti da entità sovranazionali prive di legittimità democratica, bensì deve porsi una serie di obiettivi concreti da raggiungere. Solo con una politica monetaria e fiscale al servizio delle esigenze della società italiana, la spesa e gli investimenti pubblici diventano funzionali a una prospettiva di crescita e sviluppo. Nella consapevolezza che un Paese in possesso della sovranità monetaria non deve preoccuparsi della carenza di denaro ma soltanto di impiegare al meglio tutti i fattori produttivi, è essenziale, perché lo Stato possa farsi realmente strumento per la realizzazione dei bisogni e delle ambizioni del nostro popolo, sia lasciarsi alle spalle una fiscalità opprimente e invasiva, sia perseguire con nettezza le forme peggiori di evasione e ricostruire la progressività dell’imposizione fiscale.
RESTITUIRE AGLI ITALIANI CIÒ CHE È LORO
A fare la fortuna dell’Italia nel secondo dopoguerra fu il connubio della piccola e media impresa con le banche pubbliche, la grande industria di Stato e la pubblica amministrazione (istruzione, trasporti, sanità ecc.). Negli ultimi decenni tutte queste realtà faticosamente costruite con soldi pubblici – cioè con la ricchezza di tutti – sono state progressivamente privatizzate. Persino dei monopoli naturali come la rete autostradale e le reti energetiche sono stati smembrati e consegnati nelle mani di spregiudicati “prenditori”, che ne hanno ricavato rendite e profitti a scapito della qualità e dei costi dei servizi, dunque a scapito di tutta la collettività. È ora di restituire al popolo ciò che è suo, riportando questi settori sotto il controllo pubblico.
UN PIANO DI RINASCITA INDUSTRIALE
Il nostro Paese deve tornare a essere un’orgogliosa potenza industriale, che scommetta su qualità e innovazione per competere efficacemente sul piano internazionale. Allo Stato spetta un ruolo da protagonista in questo processo, non soltanto attraverso partecipazioni dirette al nuovo tessuto produttivo ma anche sostenendo adeguatamente il sistema della ricerca che traina l’innovazione tecnologica. È importante chiarire che l’espansione dell’industria pubblica è anche il presupposto di un settore privato dinamico e competitivo: non è un caso che storicamente sia stata la politica industriale a determinare un significativo indotto “a cascata” sulle piccole e medie imprese, facendo da volano anche agli investimenti privati. A questo scopo è inoltre necessario snellire gli oneri burocratici a carico delle aziende e dei professionisti, mettendo a disposizione delle imprese un sistema efficace che si lasci alle spalle inefficienze e cavillosità amministrative. Più in generale, bisogna ripartire dalla consapevolezza per cui il tessuto produttivo di un Paese può fiorire solo laddove lo Stato intervenga per creare un circolo economico virtuoso, anche attraverso la promozione della piena e buona occupazione e il sostegno alla domanda interna.
PER LA SOVRANITÀ ALIMENTARE
Proporre un modello alternativo alla globalizzazione sfrenata significa innanzitutto contrastare la logica mercantilista che distrugge la domanda interna e impone alle nostre aziende di rivolgersi al mercato estero. Questo fenomeno è particolarmente evidente nel settore primario: le eccellenze enogastronomiche che il mondo ci invidia sono diventate negli anni sempre meno ordinarie sulle tavole degli italiani. Sono state rimpiazzate da prodotti di bassa qualità e materie prime importate che, non dovendo sottostare a regolamenti e controlli, strozzano gli agricoltori e gli allevatori nostrani e li costringono a una competizione al ribasso che non si può e non si deve sostenere. Un’Italia che voglia davvero dirsi sovrana deve essere in grado di garantirsi la sovranità alimentare. Cosa che naturalmente non significa rifugiarsi in un’anacronistica autarchia, bensì sostenere le imprese del settore e far sì che gli italiani siano i primi a poter beneficiare dei frutti della propria terra.
LAVORO PER TUTTI
Impossibile? Solo se si crede che il lavoro sia solo quello creato dal settore privato. Ovviamente quest’ultimo ha un ruolo cruciale da giocare in un’economia dinamica, ma i processi di automazione e di robotizzazione implicano che saranno sempre meno i lavori che il settore privato sarà in grado di offrire. Dobbiamo dunque rassegnarci alla disoccupazione o al massimo a ricevere un reddito di sussistenza dallo Stato? Assolutamente no. Infatti non solo siamo drammaticamente a corto di organico nei tradizionali settori pubblici, in particolare sanità e istruzione, ma esistono un’infinità di lavori potenziali – e assolutamente necessari – da creare nei campi della riconversione ecologica, dell’urbanistica, delle infrastrutture, dell’assistenza sociale oltre che nei nuovi distretti industriali da lanciare. Va da sé che molti di questi lavori, poiché richiedono cospicui investimenti che non garantiscono utili monetari nell’immediato ma offrono grandi “utili sociali”, può crearli solo lo Stato. Una buona e piena occupazione è possibile ed è necessaria allo scopo di rilanciare la domanda interna, ripristinando il circolo virtuoso fra pubblico e privato che è stato distrutto dall’ideologia neoliberista.
I CONFINI NAZIONALI, BALUARDO DELL’AUTODETERMINAZIONE
I confini nazionali sono qualcosa di imprescindibile per la definizione stessa di Stato: averne un controllo capillare non può che essere una priorità per una politica degna di questo nome. La regolazione dei flussi migratori è necessaria innanzitutto per tutelare la coesione sociale di un Paese. Se è vero che nei momenti di crescita un’immigrazione – ben modulata – costituisce una risorsa preziosa, non c’è dubbio che durante le contrazioni del ciclo economico questa possa innescare drammatiche conseguenze sociali. Vale poi la pena soffermarsi su una riflessione: sebbene uno Stato d’arrivo che disponga della sovranità monetaria abbia tutti gli strumenti per garantire la piena occupazione e possa trarre il massimo profitto dal processo migratorio, gli Stati di partenza rimangono comunque piagati dal dramma dell’emigrazione di massa. Questi Paesi, perlopiù vittime del giogo neocoloniale, vengono in questo modo depauperati dell’unica ricchezza rimasta a loro disposizione: i giovani. Oggi la lotta per l’autodeterminazione dei popoli passa proprio attraverso il controllo dei confini, esercitato nei confronti di merci, persone e capitali. Gestirli accuratamente non significa solo salvaguardare le identità e le culture nazionali, ma vuol dire soprattutto difendere l’insindacabile diritto di tutti gli uomini di poter vivere nel proprio Paese. Al controllo dei confini deve accompagnarsi l’impegno per la massima integrazione possibile degli stranieri che lavorano nel nostro Paese, a tutela sia degli immigrati che della costruzione di un mercato del lavoro trasparente e non duale, coerente con l’obiettivo della piena occupazione.
SULLA SALUTE NON SI LUCRA
È prioritario invertire la rotta del processo ventennale di smantellamento del Servizio sanitario nazionale (SSN). Bisogna dire basta a esternalizzazioni, privatizzazioni e sovvenzioni alla sanità privata per rilanciare con vigore quella pubblica. Va ripristinato il diritto a cure gratuite di alta qualità per tutti i cittadini su tutto il territorio nazionale, non solo come sacrosanto principio etico e costituzionale ma anche come necessità di sicurezza nazionale. È proprio di fronte alle emergenze infatti che si manifesta tutta l’importanza di un sistema di salute pubblica, vera spina dorsale su cui si regge l’intera società. A tutto questo si deve affiancare una riflessione più ampia circa gli innumerevoli impatti sulla salute di un sistema che ha messo per troppi anni il profitto davanti a ogni altro valore. Fra le tante scelte figlie di questa logica che rischiano di rivelarsi nocive per l’interesse comune, ne è emersa soprattutto una negli ultimi anni: l’adozione acritica da parte del nostro Paese delle infrastrutture telecomunicative 5G. Una scelta sconsiderata e imprudente che fa scempio di qualsivoglia principio precauzionale sia in termini di salute pubblica che di collocazione geostrategica. Altra questione cruciale e volutamente esclusa dal dibattito politico è quella dell’obbligatorietà vaccinale: temi di questo calibro non possono essere risolti solo attraverso le imposizioni di uno scientismo ideologico e totalitario, dietro al quale spesso e volentieri si nascondono grandi interessi economici. Su questo così come su altri temi delicati bisogna rilanciare una sana dialettica che sappia coinvolgere l’opinione pubblica in una riflessione aperta sugli aspetti scientifici, giuridici ed etici di queste tematiche.
UN APPROCCIO RADICALE ALLA CRISI AMBIENTALE
La crisi ambientale che stiamo affrontando a livello planetario è una delle conseguenze più disastrose della globalizzazione sfrenata. Per uscirne occorre adottare nuovi paradigmi che scalzino il dogma economicista e riportino al centro il benessere collettivo, prestando particolare attenzione alla salvaguardia di tutto il patrimonio naturale, da quello paesaggistico a quello boschivo, in modo da poterlo tramandare alle future generazioni. Coniugare le esigenze ecologiste a tutela dell’ambiente con quelle sociali a tutela del lavoro è una sfida complessa che può essere affrontata soltanto da uno Stato che disponga della sovranità monetaria. Serve quindi sviluppare una visione strategica lungimirante e pianificare una politica industriale che porti alla costruzione di un innovativo tessuto produttivo che sia realmente ecosostenibile. Mentre oggi il costo dell’improrogabile transizione ecologica viene regolarmente scaricato sulle spalle delle fasce più fragili della popolazione, occorre acquisire la consapevolezza che questo rinnovamento in chiave verde può rappresentare, anche attraverso un vero e proprio piano del lavoro ambientale, il volano per rilanciare uno sviluppo finalmente sostenibile che traini la crescita e migliori davvero le condizioni di vita di tutti i cittadini.
OLTRE LA UE, PER UNA REALE COLLABORAZIONE EUROPEA
È ormai sotto gli occhi di tutti come il processo di integrazione economica europea, lungi dal promuovere «un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa», abbia enormemente acuito le divergenze intraeuropee, causando una diffusa devastazione sociale e fomentando sentimenti di rivalità tra Stati che non si vedevano dai tempi della seconda guerra mondiale. Questo rappresenta un ostacolo alla cooperazione multilaterale tra Paesi europei su temi cruciali quali la geopolitica, la gestione dei fenomeni migratori e la questione climatica. Abbandonare la moneta unica non comprometterebbe questo tipo di cooperazione; al contrario, mettere i singoli Stati nelle condizioni di poter tornare a operare nell’interesse dei cittadini rappresenta la conditio sine qua non per il rinnovamento del progetto europeo su basi radicalmente diverse, cioè sulla libera cooperazione tra i popoli d’Europa fondata sul rispetto delle prerogative sovrane e democratiche di ciascun Paese. Solo in quest’ottica è possibile reimmaginare l’Europa come uno spazio di pace, di cooperazione e di democrazia, ma anche di rispetto della pluralità e della diversità delle varie comunità nazionali e dei vari sistemi economici e produttivi.

 

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