La lotta tutta interna al Partito Repubblicano americano tra il presidente in carica Donald Trump e l’anima profonda del Grand Old Party sembra essere ripresa in vista delle elezioni presidenziali del 3 novembre.
Il precedente del 2016
La scalata nel corso delle primarie di quattro anni fa del magnate newyorkese non fu accolta con i salti di gioia da chi lo vedeva come un outsider infiltratosi nei gangli vitali dello storico partito di destra statunitense per ottenere la candidatura pur non essendo un membro dello stesso. La stretta collaborazione con l’Alt right e un personaggio discusso come Steve Bannon, alzato al ruolo di vero e proprio guru, hanno fatto il resto e reso Trump per lungo tempo un problema nonostante la sorprendente affermazione su Hillary Clinton. Non c’è stata elezione suppletiva che non abbia visto l’acuirsi, nel corso dell’intero mandato, del divario tra i candidati trumpisti e quelli più vicini all’anima storica del “partito di Lincoln”.
Il GOP e la mancanza di alternative a Trump
Come scritto anche da Gennaro Malgieri sulle colonne de Il Guastatore i repubblicani “hanno rinunciato ad avere una visione al punto di non riuscire a trovare un’alternativa a Trump”. Anche la decisione oramai più che probabile dello spostamento della convention del partito da Charlotte in Nord Carolina alla Florida, eterno e decisivo Swing State, mostra come le decisioni siano prese da Trump in prima persona rispetto a quanto avvenuto nel 2016.
L’inevitabilità della ricandidatura di Trump alla massima carica istituzionale ha fatto pensare, almeno fino all’inizio di questo 2020, che la frattura fosse stata in buona parte ricucita ma davanti alla concreta possibilità che la crisi economica generata dalla pandemia di Covid-19 porti alla sconfitta nella sfida col democratico Joe Biden quell’anima profonda sostenuta dagli uomini forti del partito è tornata a farsi viva per aizzarsi contro The Donald.
I nemici interni di Trump
In quest’ottica sono giunti negli ultimi giorni le prese di posizione dell’ex presidente Bush junior e del candidato repubblicano alle presidenziali del 2012 Mitt Romney che hanno dichiarato pubblicamente che proprio come nel 2016 anche in questa tornata non voteranno per Trump e quelle della vedova del senatore John McCain, candidato alla presidenza nel 2008, e di Colin Powell, primo afroamericano sotto la presidenza Bush ad ottenere l’incarico di Segretario di Stato, che sin son detti certi del proprio sostegno a Joe Biden.
La risposta di Trump non si è fatta attendere, in particolare verso Powell che, accusandolo di essere un bugiardo cronico, ha dimenticato di essere passato alla storia come il falsificatore delle prove di detenzione di armi chimiche da parte dell’Iraq di Saddam Hussein.
Più delicata è la vicenda che riguarda l’eredità politica dell’ex senatore dell’Arizona, visto che proprio gli Stati del sud-ovest stanno subendo un cambio demografico per via dell’afflusso di migliaia di immigrati ispanici in grado, qualora si recassero in massa al voto, di sovvertire l’andamento degli ultimi decenni se non già nel popoloso Texas quantomeno nello Stato famoso per il Grand Canyon.
Quella di novembre, insomma, sarà l’ennesima partita nella partita tra chi sta modellando il Partito Repubblicano a propria immagine e somiglianza e chi vorrebbe riportarlo sulle posizioni meno aggressive e populiste dei suoi predecessori.
(di Luca Lezzi)