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Michele Sindona, il finanziere del malaffare in un’Italia controversa

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Michele Sindona è un personaggio, prima ancora che un banchiere, faccendiere, criminale e quant’altro. La sua storia è in un certo senso quella dell’Italia controversa e complessa successiva agli anni del boom economico.

Un Paese che affrontava la sua prima crisi economica successiva all’industrializzazione, che viveva gli anni di piombo, la scoperta della Loggia massonica P2. Sindona è uno dei protagonisti di quell’epoca.

Michele Sindona: infanzia e crescita

La biografia di Michele Sindona, come spesso accade, racconta un’esperienza giovanile assolutamente ordinaria, regolare. Quella di un ragazzo che studia, lavora per pagarsi l’università, e conclude il proprio ciclo da studente.

Sindona nasce a Patti, in provincia di Messina, l’8 maggio 1920, da genitori entrambi meridionali (il padre era un fioraio napoletano, la madre era siciliana). La sua formazione è rigorosamente religiosa, e infatti studia presso i gesuiti, svolgendo ogni tipo di lavoro per pagare le rette. Fino ai 14 anni, Michele Sindona si impegna del lavoro contabile, ma anche come dattilografo e impiegato delle poste presso l’ufficio di Messina.

Nel 1942 si laurea in Giurisprudenza, proponendo come argomento della tesi un’analisi de Il principe di Machiavelli. La sua esperienza negli anni successivi sarà concentrata nel lavoro presso uno studio legale, bruscamente reso complicato dall’arrivo della guerra e dai bombardamenti americani.

Finito il conflitto, Michele Sindona decide di trasferirsi a Milano. Ed è da lì che comincia la sua vera storia.

L’ascesa di Sindona: da commercialista a finanziere di successo

Nel 1946 Michele Sindona apre uno studio tutto suo: si occupa di consulenza tributaria e legale, entrando in contatto con diverse associazioni. Ma Sindona è anche un abile commercialista, e si occupa della gestione fiscale di varie società. Nel suo campo, nel giro di un decennio, diventa un nome di riferimento. Al contempo, sviluppa un vivo attivismo nei mercati azionari, nella gestione dei capitali e, soprattutto, si interessa dei cosiddetti “paradisi fiscali” che consiglierà a diversi suoi clienti.

Grazie al suo carattere intraprendente e spregiudicato, Michele Sindona negli anni Cinquanta accumula notevoli ricchezze grazie ai mercati azionari e alle borse, e nel decennio successivo è già uno degli uomini più ricchi d’Italia. In seguito introdurrà nel mercato azionario italiano strumenti fino ad allora utilizzati negli USA (su tutte, le OPA, ovvero le offerte pubbliche di acquisto).

Proprio negli anni Sessanta iniziano a manifestarsi le ombre che saranno scoperte dieci anni dopo: Michele Sindona diventa infatti il fiscalista di fiducia di Joe Adonis, espulso dagli Stati Uniti e residente a Milano in quegli anni. Adonis era legato personalmente al boss mafioso Lucky Luciano e alla famiglia malavitosa americana dei Genovese.

Comunque, gli anni Sessanta sono anche quelli in cui Sindona costruisce il suo impero finanziario: nel 1960 ottiene il controllo del pacchetto di maggioranza della Banca Privata Finanziaria., che negli anni successivi fungerà da ponte per la maggior parte delle sue operazioni. In poco più di un decennio, avrebbe controllato anche la Banca Unione, la Franklin National Bank di New York, e la Banque de Financement di Ginevra.

Michele Sindona banchiere
Michele Sindona a New York

Sebbene la fama del banchiere italiano fosse ormai mondiale, già verso la fine degli anni Sessanta cominciano ad emergere le prime accuse.

Su tutte, quella del 1967 lanciata dall’Interpol statunitense, che lo accusa di riciclaggio di denaro sporco proveniente dal traffico mondiale di droga, e mette in evidenza i legami dello stesso Sindona con Cosa Nostra americana.

Michele Sindona è infatti a stretto contatto con Ernest Gengarella e Ralph Vio, suoi soci in varie società di investimento all’estero, ma anche con Daniel Porco, appartenente al CDA di Uranya, un’azienda che collaborava alle manovre finanziarie della Banca Privata. Ma l’Italia, per il momento, non risponde: non ci sono riscontri di attività illegali, per ora.

L’impero finanziario “sfiorato”

Qualcosa si inizia a muovere agli inizi degli anni Settanta. Una fase in cui Michele Sindona è ormai un personaggio pienamente inserito non solo nelle dinamiche economiche, ma anche politiche dello Stivale. Dopo aver preso il controllo della Banca Vaticana, al faccendiere non riesce un colpo che aveva pianificato da tempo: quello alla Società Italiana per le Strade Ferrate Meridionali (dal 1972 in Bastogi Finanziaria). All’OPA tentata da Sindona si oppone infatti il finanziere Enrico Cuccia, presidente di Mediobanca che non consente la scalata.

La Bastogi non era una società qualsiasi: il suo controllo azionario si estendeva infatti a varie aziende di importanza economica capitale, dalla SNIA, alla Pirelli e la Pesenti.

È il fallimento del cosiddetto “Grande Disegno” che storici e osservatori hanno ritenuto appartenere a Sindona e ai suoi alleati: un’alleanza finanziaria e bancaria legata agli ambienti della DC dal profilo economico solidissimo e potenzialmente inattaccabile.

Con il fallimento dell’offerta di acquisto, Sindona perse quindi l’occasione di sostituire Cuccia, di controllare un impero piuttosto esteso che avrebbe incluso la stesaa Mediobanca.

La scoperta degli illeciti di Michele Sindona

“Quello guidato da Sindona era un gigante dai piedi d’argilla, e solo quando ci si rese conto le esposizioni avevano raggiunto un livello insostenibile si decise di intervenire. Ma la politica non aveva alcun interesse diretto a farlo e quindi scelse un professionista esterno ai circuiti, forse considerandolo facilmente manovrabile”.

Così descrive il giornalista Angelo Piroso l’impero di Sindona, da lì a breve crollato come un castello di carte, sotto i colpi dei bilanci fraudolenti e delle inchieste giudiziarie. Il “professionista” era Giorgio Ambrosoli, persona semplice ma rigorosa. Un uomo che avrebbe pagato caro il proprio impegno e il proprio senso del dovere.

Giorgio Ambrosoli Michele Sindona
Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore delle attività finanziarie di Michele Sindona

In quel momento, Michele Sindona era un re. Per l’opinione pubblica, per la stampa e, ovviamente, per la politica. Fortune lo definiva “uno dei più geniali uomini d’affari del mondo”, per Forbes era “il più geniale finanziere italiano del dopoguerra”, mentre Giulio Andreotti lo avrebbe apostrofato come “il salvatore della lira” nel 1974.

Ma proprio da quell’anno iniziano i suoi guai. Guai che prima coinvolgono la Franklin National Bank, che collassa nel 1974 e trascina dietro di sé anche la Banca Privata. La magistratura italiana si muove nel 1975, ordinando due mandati di cattura per Michele Sindona: l’accusa è di bancarotta fraudolenta. Il finanziere reagisce a modo suo, denunciando di essere vittima di un complotto, ordito dai rivali del mondo economico e politico. Non funzionerà.

Le indagini su Sindona erano partite dal 1971. Ed era stata la Banca d’Italia a commissionarle. Questo perché già in quell’anno alcune Banche di Sindona (Unione e Privata) si trovavano in situazione di possibile bancarotta. Michele Sindona aveva già tentato una mossa estrema per aumentare il capitale di Finambro, la società che controllava tutti i suoi istituti, da 1 milione a 200 miliardi di lire. E allo scopo di non farle fallire e di non intimorire i correntisti, il Banco di Roma e il suo governatore Guido Carli gli concessero un prestito: avrebbe preso vita così la Banca Privata Italiana, con vicepresidente Giovanbattista Fignon.

Quest’ultimo venne a conoscenza della natura illegale delle “iniezioni di liquidità” di Sindona e ne ordinò l’immediata sospensione.

Così nel 1974 Banca d’Italia nomina un commissario liquidatore. E quel commissario è proprio Giorgio Ambrosoli. L’avvocato assume la direzione della banca, esamina le operazioni poco pulite di Sindona, le scritture contabili falsate.

L’opera di Ambrosoli fu ostacolata da pressioni, tentativi di corruzioni e minacce. L’obiettivo era che lo Stato italiano sanasse le perdite degli istituti di Michele Sindona, evitandogli ogni condanna di tipo penale. Ambrosoli però resistette e confermò la necessità di liquidare la banca. L’indagine avrebbe coinvolto anche gli illeciti operati dalla Franklin, e di conseguenza l’FBI.

Nel frattempo, Michele Sindona non si arrendeva. Faceva di tutto per salvarsi, economicamente e penalmente. Arrivò a chiedere denaro anche al banchiere Roberto Calvi, conscio delle attività illegali del Banco Ambrosiano da lui diretto. Calvi, però, rifiutò, il che provocò una reazione violenta del banchiere siciliano, pronto a ricattarlo e infine a scoperchiarlo attraverso una campagna di stampa attuata da un giornalista amico, Luigi Cavallo.

Ma nulla avrebbe evitato a Sindona il peggio. Anzitutto ad essere messo sotto processo negli USA per una serie lunga di reati, tra i quali truffa, appropriazione indebita, falsa testimonianza. Nel 1980 la condanna: 25 anni di reclusione.

Poi a subire sorte simile in Italia, la quale otterrà la sua estradizione nel 1984: la magistratura lo condannerà a 12 anni per bancarotta fraudolenta.

Michele Sindona carcere arresto
Michele Sindona dietro le sbarre

È la fine di un uomo passato dagli apici alle sbarre in pochissimo tempo. Ma su Michele Sindona pende un’altra grave responsabilità: quella di aver ingaggiato il killer che aveva ucciso, nell’estate del 1979, Giorgio Ambrosoli.

Ergastolo. Due giorni dopo la condanna, il 20 marzo 1986, Sindona si suiciderà bevendo un caffè al cianuro nella sua cella del carcere di Voghera.

Di seguito un video di Enzo Biagi a proposito di Michele Sindona:

(la Redazione)

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