Per troppo tempo l’Unione Europea ha vissuto con artifici ed infingimenti, adattandosi ai cicli della storia ed alle esigenze temporali mediante accorgimenti di strutture ed aggiustamenti normativi. Ha approvato Trattati che ne disegnassero poteri, funzioni ed Istituzioni più o meno efficienti, senza curarsi di riempire di senso quel processo di unificazione dei popoli europei, di convivenza tra identità e culture, tradizioni ed etnie che ne hanno fatto la più bella e grande “utopia occidentale”.
A questo punto della storia, lo sterile e continuo richiamo ai valori ed alla visione dei “Padri Fondatori” non basta a garantire l’unità. Anche perché, storicamente, si tratta di pensatori mai troppo democratici nelle loro idee, come evidenziato dal giornalista Francesco Amodeo e dall’analista finanziario Daniele Della Bona. Non sono né un insieme di regole, di procedure e sistemi condivisi di partecipazione od approvazione delle leggi, a poter mantenere in vita il progetto dell’UE in assenza di vincoli di tipo prepolitico.
La spinta ideologica portata dai movimenti sovranisti e la conseguente temperie culturale non è la causa del malessere del malato Europa. Essa, anzi, è un effetto della annosa patologia la cui sintomatologia deve essere ancora compresa onde evitare equivoci sul futuro cammino da perseguire.
La condivisibile volontà di revisione dei Trattati Europei appare giustificata anche dalla logica di sottrarre al conflitto Stati diversi tra loro e privi di orizzonte comune. Tuttavia, essi sono modificabili soltanto attraverso l’unanimità dei 27 membri del Consiglio Europeo: opzione fattualmente impossibile.
Preliminare, però, alla scelta dell’architettura istituzionale dovrebbe essere l’analisi sulle premesse formative di uno Stato europeo al servizio di una società organizzata. Esso dovrebbe ispirarsi a valori condivisi ed ideali collettivi, legami unificanti che preesistono alle Istituzioni.
Senza elementi morali, culturali e religiosi prepolitici, ogni Stato moderno o forma di aggregazione sociale non può garantire i presupposti per cui viene edificato. Se tale fine è rappresentato dal bene della comunità, difficilmente tale obiettivo sarà assicurato.
L’idea della costruzione degli “Stati uniti d’Europa”, quale espressione dei rapporti tra gli Stati membri in senso federale (confederale potrebbe essere un altro discorso), appare obiettivo irraggiungibile. Innanzitutto per l’ambigua disarmonia di visione: la cooperazione solidale è frenata da moduli politici stabili che coabitano con la conservazione di autonomia ed indipendenza degli Stati membri nel governo degli affari interni. Solo la coesistenza di questi due pilastri permetterebbe di ridurre conflitti ed asprezze, rendendo sconveniente ogni abuso di posizione dominante.
La storia ha insegnato che l’Europa è naturale evoluzione di un percorso a formazione progressiva. Ogni Stato ha conosciuto condizioni differenti ed eventi con fasi temporali asimmetriche pur in uno spazio territoriale omogeneo. Solo laddove si riesca a comprendere le genetiche differenze ed a rispettare le naturali contraddizioni di ciascuno Stato, sarebbe favorito il dialogo per la stabilità.
L’UE ha fallito non solo nel disconoscere il necessario primato del Politico sull’Economico, ma soprattutto nella miopia con cui ha cercato di costruire un modello culturale unitario ed uniformante, privo di tutele per il pluralismo delle storie patrie.
Si è dimenticata a lungo delle differenti membra vive di cui si compone. Ha soppresso ogni riferimento agli insegnamenti della Chiesa cattolica, alla tradizione greco-romana, a Carlo Magno quali solidi formanti culturali su cui fondare una comunità dalla ferma identità. Ha ridotto tutto ad un’aberrante competizione liquida: per l’appunto, con miopia e testardaggine.
(di Pietro Mancini)