“Forse che sì forse che no” e il futurismo dannunziano

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Gabriele d’Annunzio è stato conosciuto, letto ed amato dal grande pubblico in una panoplia di volti e stili. Lo si è visto come il sensuale ed erotico autore de “Il Piacere”, il dinamico e aristocratico profeta del Superuomo, il sensibile poeta panico di “Alcione”, il drammaturgo eroico dalle fattezze rustiche e popolari, il cantore nazionale e patriottico di “Maia” ed “Elettra”, o il crepuscolare sensitivo del “Notturno”.

Uno dei periodi narrativi meno toni del Vate, eppure molto caratterizzante, sicuramente tra i meno studiati a scuola, è quello dei tardi anni ‛00: un periodo di avvicinamento alle nuove tendenze futuriste, al dinamismo della vita cittadina e del motore, condizionato dalla felice esperienza teatrale e dalla pubblicazione dei primi libri delle Laudi.

Un periodo certamente tardo, preconizzatore della fase notturna, ma in realtà estremamente fecondo e innovativo. Fu in quegli anni, in quella congiuntura storica che superava il fin de siècle decadente e lussuoso, che si stavano levando le grida di guerra e di velocità delle nuove avanguardie. Fu in quell’ambiente cittadino, periferico e in costruzione che d’Annunzio elaborò il suo ultimo e grandioso romanzo: “Forse che sì forse che no“, del 1910, un lascito prima del suo esilio in Francia.

In quest’opera d’Annunzio si discosta in modo marcato dai romanzi precedenti: il protagonista non è più un nobile debole, decadente e (alla fine) perdente immerso in universi antichi e mortiferi; in questo romanzo prende corpo l’idea del volo, della velocità, della macchina come mezzo ulteriore e futuro capace di proiettare l’uomo in un’altra dimensione.

Quest’opera, che Proust definì «merveilleux roman» e che fu tradotta in francese da una delle numerose amanti dello scrittore, recupera in maniera grandiosa diversi temi propri del futurismo, preconizza tempi nuovi e propri del XX secolo, dando ad essi una cornice ben definita, in una trama ben elaborata (un’altra differenza con i romanzi precedenti, generalmente privi di una vera e propria trama), e risulta dinamico, violento, pieno di colpi di scena. Un romanzo dell’alba della modernità, della quale d’Annunzio poté scorgerne gli albori.

“Forse che sì forse che no” merita di essere menzionato tra le grandi opere dannunziane, se non altro per la alterità da tutta la precedente produzione: uno stile più classico, un linguaggio più conciso ma con sprazzi di lussuosità e profondità psicologica dei personaggi, la presenza marcata di elementi deteriori e brutali (tra i quali spiccano l’incesto, la violenza sulle donne, il suicidio, il sadomasochismo, l’odio in una forma particolarmente elaborata, la pazzia).

Non mancano certo ampi sprazzi di decadentismo e riprese di romanzi precedenti: dalla visita al Palazzo Gonzaga di Mantova, un luogo imputridito da un passato lontano che lo avvolge e che aizza gli istinti più smaccatamente volgari e sensuali, al grande scorcio di Volterra (dove è ambientato quasi per intero il II libro), una simbolica discesa infernale nella morte e nella pazzia-distruzione dei personaggi.

A caratterizzare ulteriormente il libro è il personaggio principale, Paolo Tarsis, diverso – eppure con ancora delle marcate somiglianze – dalle figure di “superuomo fallito” (Giorgio Aurispa, Claudio Cantelmo, e parzialmente Stelio Èffrena) delle sue precedenti produzioni. Si parla sempre di un alter ego di d’Annunzio, anche se la simbiosi con l’autore è meno marcata, meno pretenziosa, e soprattutto basata su una passione e non su destini nazionali: il volo.

Il volo si era appena diffuso nell’Europa, ed era visto come la nuova frontiera spaziale da conquistare, come la più grande possibilità umana sviluppata dalla tecnica: non poteva che ammagliare un esploratore nato come d’Annunzio, che qualche anno dopo si glorierà di diverse imprese compiute proprio in volo.

Estremamente significativa la descrizione di questa attività nelle prime pagine del romanzo: «L’anima immensa aveva valicato il secolo, accelerato il tempo, profondato la vista nel futuro, inaugurato la novissima età. Il cielo era divenuto il suo terzo regno, non conquiso col travaglio dei macigni titanici, ma col fulmine fatto schiavo».

Paolo Tarsis, in sunto, è un uomo vincente figlio della borghesia in ascesa, moderno uomo di mondo, non posseduto bislacchi sogni né da debolezze esiziali: è un aviatore di successo e determinato e che rimarrà lucido fino alla fine. Il protagonista più vivido e realistico di tutta la produzione dannunziana.

Il personaggio femminile, amante di Paolo, è la prima donna davvero capace di contendere al protagonista il suo ruolo: è la sensuale e sadica Isabella Inghirami, molto vicina alla femme fatale di altri romanzi, ma pervasa da sprazzi di malinconia e caratterizzata da un sadismo estremo, da una imponenza fisica e caratteriale che la rendono cupamente interessante.

Una figura che, durante il suo lungo e tormentato rapporto con Paolo, conoscerà un progressivo e nefasto capovolgimento, concretizzatosi in un finale dal sapore quasi di tragedia thriller. Hanno un tocco di profetico le parole che Isabella rivolge a Paolo nelle prime pagine, mentre i due viaggiano su una vettura veloce e nuova di zecca: «Pensate che io sono il vostro più gran pericolo, Tarsis. L’amore che io amo è quello che non si stanca di ripetere: “Fammi più male, fammi sempre più male”. Non eviterò mai nessuna pena, né a voi né a me. Fuggite, giacché avete le ali, giacché studiate il vento».

Altri tre personaggi, i più giovani fratelli di Isabella, popolano l’universo del “Forse che sì forse che no”. Innanzitutto la 20enne Vana, innamorata anche lei di Paolo Tarsis, e posseduta per tutto il romanzo dal dolore e dall’odio di un amore non corrisposto. Vana si caratterizza come una figura perdente, estremamente malinconica, debole e maltrattata, in grado di dar voce alla sua sofferenza attraverso un canto melodioso, ma capace, nelle stanze di Volterra, di affrontare a viso aperto la sua sorella-nemica Isabella: «Tu m’incalzi, mi serri, non mi dai quartiere, mi sei sopra come una nemica che non si contenta di vincere ma vuol martoriare, vuol profanare il corpo e l’anima con una tortura che sembra una libidine…».

Se Vana è attorniata dalla debolezza di animo e da presagi mortiferi, lo stesso non può dirsi per il più giovane fratello: Aldo, quasi maggiorenne. Un giovane tetragono, decisamente spiccato e sicuro, che nasconde nel suo animo un terribile segreto che, sebbene aleggiante in svariati momenti, diventerà chiaro solo alla fine. È infine l’ultima delle sorelle, la piccola Lunella, secondaria nell’intreccio, l’unica a rappresentare la sanità, la purezza, e l’affabilità in un mondo famigliare dominato dalla disgregazione, dall’odio e da terribili presagi: la lievità delle descrizioni dannunziane, che ritraggono questa bambina nei più dolci e semplici atteggiamenti infantili, la uniscono alla capacità di vedere con perspicacia nel cuore delle sorelle.

È il più spregiudicato futurismo, con venature ottimiste e superomistiche, ad aprire il romanzo. Un sigillo che inizialmente conferisce intonazioni eroiche molto simili a quelle di Claudio Cantelmo, mischiate con motivi latineggianti e profetici, richiamanti all’eredità di Icaro e alla necessità di “vendicare” la sua sconfitta.

E come le ali di cera del mito cadettero di fronte al fuoco, i piloti vogliono emularlo e superarlo nel nome della gloria e dello spirito di impresa: «Ora i Latini venivano alla riscossa. Il novo strumento pareva esaltare l’uomo sopra il suo fato, dotarlo non soltanto d’un novo dominio ma d’un sesto senso. […] A uno a uno la Natura aboliva i suoi divieti. Contro la maschera velata del mistero brillava il viso adamantino del rischio. Il dèmone della gara traeva il combattente sul margine dei più voraci abissi». Ed è proprio la morte, la morte tragica del compagno di una vita di Paolo, Giulio Cambiaso, nelle prime pagine del libro, a modificare rapidamente la scena.

La morte, che il pilota Giulio definiva «la compagna d’ogni gioco che valga la pena d’essere giocato», colpisce mortalmente il giovane nel tentativo di andare oltre le sue potenzialità, di andare oltre i limiti: nello specifico caso, nel tentativo di innalzare sopra i cieli un fiore donatogli da Vana. È questo evento a turbare Paolo Tarsis, spingendolo nella disperazione per la morte eroica di Giulio ad nuovo e totale tentativo di «andare più oltre».

Caduto sui cieli industriali del nord Italia, in provincia di Brescia e commemorato nella cittadina bresciana di Montichiari, la dipartita di Paolo sposta progressivamente l’azione dal nord vitale e industriale (Mantova e Brescia, dopo si ambienta il I libro) ai remoti paesini centro-italiani: qui la prospettiva cambierà tragicamente.

Lo scorrere nefasto degli eventi fa emergere le qualità decadenti di d’Annunzio, la sua capacità di dare tinte paesaggistiche di gran vigore e al contempo tenui, di dar vita a stati d’animo all’interno di determinati ambienti. E questo ambiente è la cittadina toscana di Volterra, alla quale il poeta aveva dedicato alcuni versi nelle “Città morte”, una serie di liriche contenute in “Elettra”.

Sono Vana e Aldo i primi ad andarsene dalla Lombardia per la città toscana, dove hanno una reggia. Entrambi i fratelli sono particolarmente sofferenti per aver scoperto la relazione della sorella maggiore Isabella con Paolo, e l’antica città etrusca, ricca di antri e rovine, attrae fatalmente i due ed esercita su di loro influenze morbose, sovente descritte con tinte riprese dall’Inferno dantesco – e che propizieranno tendenze al suicidio nei due giovani infelici.

Giungeranno presto anche Paolo e Isabella, la quale anch’essa inizia un percorso di decadimento mentale e fisico, schiacciata dal peso del suo animo mefitico, crudele e vendicativo. Il peso della storia antica, delle catacombe, di echi di disfacimento, inizia a pervadere tutti i personaggi a parte Paolo Tarsis, malinconico per la morte del suo amico Giulio e determinato a vendicarlo con nuove imprese aeree.

La residenza dei personaggi nella reggia volterrana porterà alla loro implosione: Isabella inizia ad avere allucinazioni, paranoie mentali, e gli oggetti e gli ambienti attorno a lei si caricano di presagi (un pazzo vaga per la Casa della Badia, di proprietà di Isabella). La sua psiche si aggrava col sospetto, costantemente crescente in Isabella, che Paolo ami segretamente la sorella Vana, alimentato proprio dalla convinzione/speranza di quest’ultima che esista tra Paolo e lei un legame più forte, più autentico e sincero di amore platonico rispetto a quello violento, carnale e smaccatamente volgare con la sorella Isabella. Un amore segreto che li legò quando loro due si trovarono di notte, da soli, a vegliare sul feretro di Giulio.

Apice del decadentismo è la visita ad una Reggia nella quale un tempo abitò Isabella da parte di Vana e Aldo: gli ambienti rovinati dal tempo, dimenticati dalla storia, in disgregazione ed oblìo, riportano subito alla memoria i paesaggi decadenti delle “Vergini delle rocce”. È in quel frangente che i due leggono una lettera di Isabella che annuncia loro il fidanzamento con Paolo (fidanzamento dei quali erano già a conoscenza), in quella Volterra che assume caratteristiche sempre più distruttrici: «Non gli argini verdi, non le pallide vie diritte, non i canali molli, non i filari di salci di pioppi di gelsi; non acque, non ombre, non arte agreste di festoni e di ghirlande; ma una terra senza dolcezza, un paese di sterilità e di sete, una landa malvagia, un deserto di cenere». I due saranno tentati dal suicidio, dal gettarsi giù nei baratri rocciosi, ma desisteranno.

È quanto avviene nel palazzo, tra Vana e Isabella, a turbare in modo irreversibile l’equilibrio e a spostare ulteriormente l’azione – questa volta a Roma. Isabella, già assalita da visioni e sdoppiamenti della personalità («Una demenza è in me, più antica di me, che non mi dà recquie. La sento, la soffro, e non la conosco»), decide di non congiungersi più con Paolo fino a quando resteranno lì, e nuove nubi si addenso su un rapporto che, per la perversa passionalità che lo regge, è sempre teso e violento.

Ma è il sussulto di orgoglio ferito di Vana nei confronti della sorella maggiore a dare la scossa decisiva. Vana, insonne anche lei come la sorella, si presenta alla sua camera una notte: e la incolpa di tutte le sue sventure, punta il dito contro la sua perversione, il suo sadismo, il piacere che prova a vederla soffrire per Paolo. La accusa con vigore e dignità in un modo che nemmeno Isabella avrebbe previsto. L’equilibrio e il rapporto tra i personaggi si spezza definitivamente. Volterra diventa ora un «bulicame», abitato da «spiriti violenti», che spinge Paolo ad andarsene, a fuggire verso Roma.

I personaggi si ritrovano in una Roma mondana, una capitale cittadina e brulicante. Ed è qui che si consumano gli ultimi atti di questa tragedia. Paolo vive da solo nella sua casa, mentre Isabella e i suoi fratelli sono in un Palazzo di loro appartenenza. In quel palazzo vivono anche i loro genitori, figure terribili e terrificanti, che mai compariranno, ma la cui sola idea di presenza è sufficiente per alimentare paure antiche e follia.

Il microcosmo di Roma ingloberà fatalmente i personaggi, in un finale con indagini da “romanzo giallo”, fughe, una brutalità inaudita e inaspettata, che condannerà a due fini diverse, altrettanto tragiche, sia Vana che Isabella. Nella loro fine vi è il compimento dei presagi che le hanno accompagnate in tutta l’opera, e delle quale loro stesse sono state sempre e lucidamente coscienti. Un finale che non risparmia martellanti richiami religiosi, pazzia e fanatismo, sacralizzazione delle peggiori aberrazioni, e che ben si ricollega al nome stesso del protagonista – Paolo Tarsis, ovvero Paolo di Tarso, San Paolo.

Lui solo, di fronte alla morte e alla follia, è rimasto lucido e cosciente, ma sa di non poter restare a Roma: nutre il terribile peso della responsabilità degli eventi, in larga misura sua propria. E in questo finale, dove Paolo giunge sull’orlo del baratro, ricompare il motivo conduttore di tutto il romanzo: il volo. Nella velocità, nel tentativo di compiere un’impresa eroica per vendicare e raggiungere il suo amico Giulio, il protagonista si spinge verso una missione assurda e suicida – volare fino alla fine delle sue possibilità nel Mar Tirreno e morire schiantato eroicamente nelle acque.

È sul suo storico aereo, l’Àrdea, che Paolo, fuggito il prima possibile da Roma non appena udita la sorte di Isabella, vuole trascorrere i suoi ultimi momenti. Nella calda solitudine blu del Mar Tirreno, Paolo ritrova la sua pace, la sua serenità nella fusione tra Uomo e Macchina, la sua vita, in un raffinato gioco di echi biblici e danteschi: «Il volatore non vedeva più se non acque acque acque in una infinita e chiara solitudine senza turbamento senza mutamento, in cui gli pareva esser sospeso e immobile su le sue ali adeguate. Era la grande serenità alcionia come nei giorni favolosi del solstizio iemale; era l’albàsia mattutine senza soffio senza flutto. Come quella quiete aboliva la rapidità così quel silenzio aboliva il romore. Il moto dei congegni non aveva risonanza, ma era simile al moto del cuore e delle arterie».

È in quella calma superiore, che, improvvisamente, Paolo abbandona i suoi progetti di suicidio eroico, «perché v’era rinata la volontà di vivere, di vivere per vincere». Il pilota ritorna cosciente di sé, cosciente che, nonostante abbia spinto il suo aereo per centinaia di miglia lontano dalla costa, egli possa ancora vivere. Paolo non si abbandona ad una serena apatia, ma riprende i comandi e riesce a raggiungere una spiaggia. Riesce a fare atterrare la sua Àrdea sulla sabbia, la sabbia della Sardegna: una impresa che certamente, in quel frangente storico, avrebbe superato ogni record.

Il tanto rimaneggiato Superuomo dannunziano trova infine la sua gloria e compimento vittorioso nell’ultimo romanzo del Vate. Eppure ad attendere Paolo, su quelle spiagge deserte e silenziose, non ci sono il trionfo, l’esaltazione o la gloria. Vi è un mesto, solitario silenzio, una trionfo interiore e contemplativo, a chiudere il romanzo – l’unica parte che d’Annunzio ritoccò del libro nella sua revisione del 1927:
«Non clamore, non tuono di trionfo; non moltitudine pallida di facce, irta di mani. Silenzio selvaggio, erma gloria; e il mattino ancor fresco; e il respiro del mare fanciullo che le braccia piegate della terra blandivano; e la parola della segreta nutrice che sa la vita e la morte, e ciò che deve nascere e ciò che non può morire, e il tempo di tutto».

(di Leonardo Olivetti)

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