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Ciclicità e decadenza nella costruzione della storia

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Origini e significato di Kali yuga

Oggi si fa un gran parlare sul Kali-yuga, sulla oscura età: molti, a ragione, sono convinti che ci troviamo a vivere in un mondo caotico, pericoloso, dominato da una cultura nichilista fatta propria dagli ultimi uomini che ci stanno conducendo verso un tenebroso naufragio. Sembra quasi di vivere psicologicamente come negli anni Settanta, quando ogni anno  diventava “decisivo” per la Rivoluzione.

Il Kali yuga è, come si sa, l’età del ferro, l’ultima delle quattro età (yuga) del Manvantara vedico, che coincide appunto con la nostra età materialista, dalle cui macerie sorgerà, non si sa come o quando, una nuova età dell’oro. Comunque la durata di un Manvantara (detta anche era della temporalità cosmica o era di Manu) è un segreto ben custodito, sebbene si convenga che solo il Kali yuga, che è l’età molto  più breve rispetto alle altre, abbia avuto inizio nel 3102 AC, 35 anni dopo la grande battaglia raccontata dal Mahabharata, che racconta l’epica indiana. Tale data è stata sancita dal famoso astronomo Aryabhatta, col consenso di molti studiosi induisti.

Certo che credere a queste datazioni è cosa assurda. Se può essere accettabile  che l’intera storia umana abbia circa tra i  5 e 7 mila anni (c’è chi afferma che in realtà abbia, in base alle ultimissime scoperte archeologiche, come quella di Göbekli Tepe, circa 10.000 anni e più), non si può certo credere che tutta la storia sia stata caratterizzata da una parabola discendente che va verso la degenerazione, come se non fossero mai esistite culture straordinarie come quella greca, quella tardo-medioevale e quella dell’Ottocento europeo tutto, per non citarne altre come quelle di  alcune grandi dinastie indiane e cinesi.

 

La teoria della ciclicità

 Ad ogni modo quello che si è scritto sinora non ha l’intento di deridere la dottrina della ciclicità e dei cicli storici, poiché essa riflette lo spirito umano originario che si conformava al ciclo delle stagioni. Si è voluto solo sottolineare il fatto che essa può essere oggetto di varie interpretazioni e chiarimenti. In verità tale teoria fu fatta propria, seppur in forme diverse,  da tutti i popoli arcaici e antichi: dai Cinesi agli Indiani, dai Persiani ai Greci e così via. Essi si sentivano solidali con i ritmi cosmici: da questo sentimento nascevano i miti propri di ogni popolo. Miti, scriveva uno dei più grandi studiosi delle religioni antiche, Mircea Eliade, che conservavano e trasmettevano i modelli esemplari di tutte le attività umane, ossia degli archetipi paradigmatici che le caratterizzavano (1). Più tardi, anche in Europa, filosofi come Eraclito, Empedocle, Platone, e Stoici come Crisippo di Cizio  e Cleante di Asso e altri crederono fortemente a questa dottrina; dottrina che esercitò il suo fascino anche in epoche più recenti come su Bruno, Vico, Nietzsche, Guènon e tanti altri pensatori.

Sappiamo anche che fu con S. Agostino e col cristianesimo che l’Occidente interruppe il credo nella ciclicità, con l’imposizione di una veduta lineare della storia, tutta incentrata sulla venuta del Cristo. Fu abbandonato così il fatalismo astrologico che spiegava gli eventi  secondo il percorso degli astri: la storia veniva sottomessa alla volontà di Dio. La visione dei cicli astrologici, che per Agostino era atea, veniva di fatto sostituita da un altro ordine necessario, non più determinato dal ritmo cosmico delle stagioni o da un Demiurgo, bensì dal volere di un Dio-Provvidenza che s’era incarnato. Gesù Cristo venne a costituire e costruire il centro della storia: il suo messaggio di salvezza e di redenzione divenne il fondamento rivelato che donava all’umanità che aveva fede in lui, il senso profondo dell’agire storico. Per cui sorsero storicamente due dottrine contrapposte: quella circolare dell’eterno ritorno e quella lineare che conduce alla Redenzione escatologica dopo la Seconda Venuta del Cristo. Quest’ultima in Occidente soppiantò la prima.

 Tuttavia, se si crede nella dottrina dei cicli, è da considerare verosimile che ci troviamo in un periodo catastrofico dovuto ad una generale decadenza che porterà a una grande conflagrazione finale, ossia  a quella “l’ekpyrosis” del Grande Anno descritto dagli Stoici, a cui seguirà la palingenesi e l’apocatastasi, ossia il ristabilimento originario (in altre parole l’eterno ritorno dell’uguale) (2).

 

La differenza fra Toynbee e Spengler

Su tale questione assai interessanti furono le critiche che lo storico A. Toynbee (3) mosse ad O. Spengler. Quest’ultimo, nel suo capolavoro “Il tramonto dell’Occidente”,  riteneva che le civiltà, pur sfuggendo alla morfologia della causalità meccanica e dell’estensione cartesiana che riguarda le scienze naturali, dovevano comunque essere comprese all’interno della morfologia dell’organico, cioè della storia e della vita, che lui chiamava fisiognomica. Di fatto egli aderiva alla veduta ciclica, considerando inevitabili i corsi degli eventi. Toynbee pensava invece che è impossibile affermare dogmaticamente che ogni società abbia una sua durata predeterminata dalle leggi della biologia. Egli era d’accordo con Spengler nel sostenere che ogni società complessa, che è andata oltre il primitivismo arcaico, è soggetta alle fasi della nascita, crescita, crollo, disgregazione. Ma tali momenti non hanno, a suo parere, un percorso fatalistico, poiché molto dipende dalle differenti capacità intrinseche presenti in ogni civiltà.

E per dimostrare le sue ragioni fece innumerevoli esempi riguardanti soprattutto l’Italia, che, nei secoli che andarono dal decimoprimo al decimosesto, vide  la rigenerazione del popolo italiano che seppe superare tutte le sfide che gli si pararono di fronte. Questa rinascita non fu dovuta di certo al nuovo “sangue” dovuto alla sua mescolanza con le migrazioni del Goti e dei Longobardi. Infatti le città fondate da costoro (ad esempio Pavia, Benevento, Spoleto, ecc…) ebbero una storia marginale nel processo della straordinaria creatività culturale italiana. Toynbee ad ogni modo ammise che ben 16 civiltà nella storia erano perite, ma che ne restavano ancora altre 10, delle quali alcune oggi si trovano in crisi, ma altre sono in forte ascesa, per cui è impossibile stabilirne la durata.  Bisogna altresì aggiungere, per correttezza, che Spengler non fu sempre coerente con le sue idee. Tant’è vero che in un suo libro successivo al “Tramonto..”, ovvero “Anni decisivi” smentì in modo categorico che il crollo della “Kultur” (3) occidentale fosse ineluttabile.

 

Nella ciclicità, la decadenza

Si tratta perciò di chiarire, se si vuole comprendere meglio il senso del nostro discorso sulla ciclicità, i significati di decadenza e crollo, che possono sembrare intrinsecamente legati fra loro, ma che in realtà presentano notevoli distinzioni.

La parola decadenza proviene dal latino “de-cadere” che significa, in generale, il regresso da una condizione complessiva superiore ad una più inferiore. Il processo di una decadenza avviene sempre gradualmente nel tempo: dipende dal soggetto a cui ci si riferisce, che può essere un individuo singolo o una intera civiltà. E’ evidente che un singolo individuo decade sempre prima rispetto ad una intera comunità. Il crollo si ha invece nella fase terminale del processo della decadenza. Esso rappresenta una totale rottura di livello, sia si tratti di un livello positivo in termini di valori complessivi, sia in termini negativi. Infatti tale rottura può essere intesa o come una rivoluzione che implica un cambiamento generale di una società soprattutto sotto gli aspetti politici, economici e giuridici, oppure come un collasso che comporta l’esaurimento della civiltà stessa.

 

Due esempi: Roma e Venezia

Ora, l’idea di decadenza non ha però una precisa definizione, poiché non corrisponde ad un oggetto tangibile e concreto ben individuabile. In effetti nel percorso storico alcune società sono state etichettate come decadenti “tout court”, perché così si è detto e scritto secondo consuetudine. Si prenda l’esempio dell’Impero Romano. Si è sempre sostenuto che l’epoca della decadenza sia iniziata con l’imperatore Commodo (180-192 DC): in realtà dopo un momento di torbidi, l’Impero Romano nonostante la pestilenza sotto l’imperatore Decio (249-251), conobbe una fortissima ripresa, in particolare sotto gli imperatori illirici Aureliano e Diocleziano. Quest’ultimo poi, pur inviso dai cristiani, operò riforme radicali che stabilizzarono l’impero.

La decadenza economico-sociale avvenne in realtà con Costantino che con una “riforma” monetaria introdusse il solidus, una moneta aurea fortissima che distrusse il valore della moneta d’argento, che era allora la moneta di scambio usata dal ceto medio che, a causa dell’introduzione del solidus, si impoverì drasticamente (4). Un fatto molto simile alla attuale “riforma” dell’euro che sta provocando la distruzione dei ceti medi moderni europei. Un altro esempio lampante è quella della Repubblica Veneta. Tutti pensano che essa sia tramontata a causa della sua decadenza. Se però si vanno ad osservarne i dati socio-economici e l’aspetto artistico-culturale vediamo che essa era ancora nettamente superiore a molti altri Stati europei. In verità essa non era più una potenza militare come lo era nei secoli precedenti, poiché le guerre secolari contro i Turchi l’avevano indebolita in tal senso. Di conseguenza non poteva certo gareggiare col formidabile esercito francese guidato da Napoleone. Esempi del genere ne possiamo trovare molti in Asia (si pensi alle terribili invasioni mongole) o in Centro-America, dove alcune civiltà (i Maya e gli Atzechi) furono annientate o perché  furono distrutte da eventi naturali o da potenze militarmente più avanzate a livello tecnologico come quella spagnola. Questi esempi concreti dimostrano perciò che  il concetto di decadenza sconfina nella vaghezza, perché non è possibile delineare in modo continuo e lineare processi storici che durano secoli.

 

Il concetto di crisi

Ben più precisi sono invece i concetti di crisi o crollo, poiché essi, se riferiti a fatti storici avvenuti o ad-venienti, colgono con sufficiente precisione il processo di degrado o di caduta di civiltà. Resta tuttavia inevasa la domanda riguardante la teoria dei cicli: deve essere considerata ancora valida, oppure essa è solo una semplificazione di tendenze in atto? Alla quale domanda possiamo aggiungerne un’altra: perché vi è un ritorno, seppur abbozzato, alla credenza della veduta dei cicli?

La risposta può essere data osservando il declino inarrestabile della veduta lineare della storia. Come si diceva, essa era tutta impostata sui valori fondamentali per un cristiano: la redenzione e la salvezza eterna. Ebbene nel nostro mondo occidentale il processo della secolarizzazione, iniziato diffusamente con l’Illuminismo, ha provocato un completo oblio di questi valori. Nessuno, o quasi, crede più nel Peccato Originale, né quindi nella redenzione e tanto meno nella salvezza. La morte di Dio annunciata da Nietzsche consiste in questo. L’umanità del nostro mondo crede invece in modo fideistico solo nella scienza e nella tecnologia: l’ultima presunta epidemia l’ha dimostrato in modo inconfutabile, durante la quale scienziati, per lo più venduti alle multinazionali del farmaco, venivano considerati alla stregua di novelli santoni.

Ormai si vive in una dimensione temporale di un presente ingessato, causato dal cosiddetto pensiero calcolante, in cui non c’ è più posto per il passato che deve essere cancellato (la cancel culture), né per un futuro programmabile, poiché sono stati distrutti tutti i baluardi che in prospettiva lo reggevano, ossia il farsi una famiglia, il lavoro sicuro, i benefici dello stato sociale e così via. Una vita che si palesa senza senso e senza riferimenti.

 

L’imprevedibilità

Ecco perché comincia a diffondersi l’idea del Kali yuga: almeno essa offre la consolazione sulla nostra inevitabile fine. Si tratta più o meno dello stesso annuncio heideggeriano che affermava che “ormai solo un dio ci può salvare”,  che quindi si situava intellettualmente in questo contesto. La condanna della nostra civiltà è qui sancita in modo definitivo. Il pensiero filosofico ha abdicato come quello religioso.

La constatazione di un pervertimento e di un illanguidimento della nostra civiltà sembra incontestabile, tanto che è assolutamente inutile descriverne i motivi, visto che sono stati scritti migliaia di libri a proposito. “La catastrofe è necessaria”  urlava Albert Caraco, il più esagitato e disperato dei profeti moderni, terrorizzato, com’era, dal sovrappopolamento e dall’urbanesimo selvaggi.

Queste previsioni deterministiche, dalle quali apparentemente non ci si può sottrarre,  sono inoltre avvallate da una odierna attualità che è così caotica da preludere ad minaccia di una reale possibilità di apocalisse nucleare. Esse tuttavia non tengono conto di un aspetto, che seppur celato, è sempre presente nella storia umana, ed anche, aggiungo, in quella naturale: si tratta dell’imprevedibilità. Lo stesso Hegel, definito erroneamente quasi da tutti i suoi critici, come il filosofo dell’equazione “essere-dover essere”, senza tener conto che egli si riferiva solo al passato, e che riteneva che la ragione può sì comprendere l’ ”intiero” che è avvenuto, ma anche che il pensiero filosofico non può prevedere il futuro e che esso “può risparmiarsi di dispensare buoni consigli” a riguardo. Aggiungeva poi che ”…credere  che una qualsiasi Filosofia vada oltre il suo mondo presente, è tanto assurdo quanto credere che un individuo possa saltare al di là del suo tempo, che salti oltre Rodi” (5).

In base a ciò, se è innegabile che oggi  una parte del mondo umano è dominata dalla corruzione e dal degrado che rivelano la persistenza di una profonda malattia mortale, si può altresì osservare che non tutto il mondo è come il nostro. In molti Paesi vivono numerose comunità che fanno propri i principi dell’uomo tradizionale, il quale nulla ha da spartire con la degenerazione e con le incredibili disuguaglianze in atto nel mondo occidentale. L’imprevedibile forse può ancora riportare il percorso umano su una via più retta, poiché scriveva il Tao-te-ching che “ lo spirito della valle mai non muore”.

Note:

  1. ELIADE, Il mito dell’eterno ritorno, ed. Rusconi Milano 1975, p.6. In questa pagina Eliade distingue gli archetipi, intesi da C.G. Jung come strutture dell’inconscio collettivo, dal concetto di paradigmi, fatti propri dalle società arcaiche come modelli trascendenti rivelati sin dall’origine del tempo storico.
  2. Vedasi: Flores TOVO, L’illusione dell’eterno ritorno dell’uguale. Lo si trova in Rassegna stampa Arianna Editrice del 3/3/2020. In questo saggio su Nietzsche si dimostra, in merito alla ciclicità, la radicale differenza fra la dottrina dell’eterno ritorno ciclica da quella dell’eterno ritorno dell’uguale. La prima comporta la ripetizione dei cicli che però sono sempre differenti rispetto a quelli del passato. Ad esempio l’inverno è sempre inverno, ma tutti gli inverni non saranno mai uguali. Le seconda invece stabilisce un ripetizione tale e quale a quella precedente, senza nessun cambiamento, una apocatastasi appunto. Si passa cioè da una veduta circolare ad una sferica. Gli Stoici e Nietzsche in particolare furono gli assertori di tale veduta.
  3. La differenza fra Kultur e Civilization fu per prima stabilita da Kant, e poi fatta propria, con diverse opinioni, da T. Mann, Heidegger, Spengler, Huizinga, Weber, Freud ed altri.  Il concetto di Kultur è invero assai più profondo di quello della Civilization, poiché esso riguarda lo spirito profondo di un popolo, che diventa assimilabile a quello di un organismo vivente. Per questo ogni “cultura” è differente dalle altre, poiché essa è intrisa non solo dagli aspetti intellettuali, ma anche da quelli intuitivi, estetici, sentimentali, mitici, religiosi, eccetera. La Civilization invece riguarda i modi di vivere convenzionali politici ed economico-sociali che però poco hanno a che vedere con la  ancestrale profondità spirituale dei singoli popoli.
  4. MAZZARINO, L’impero romano, vol.III, ed. Laterza, Bari 1973, pp.673-686.
  5. W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, ed. Rusconi, Milano 1996, pp. 63-64.

(di Flores Tovo)

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