Ddl Zan morto

Requiem del Ddl Zan e piagnisteo progressista

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Il Ddl Zan muore con questi numeri: 288 presenti, 287 votanti, 154 favorevoli, 131 contrari, 2 astenuti, Senatore Renzi in Arabia Saudita.

Eccolo, il bollettino dell’ultima battaglia, quella definitiva, che ha finalmente ucciso il mostro giuridico e ideologico che ha monopolizzato il dibattito politico nell’ultimo anno: il DDL Zan è morto – e con lui la pretesa di sanzionare penalmente la libera manifestazione del pensiero – e noi non possiamo che giubilare per questo.

Messo in freezer per dare spazio alla urgentissima lotta al fascismo, il disegno di legge delle meraviglie si è riproposto come una cena indigesta qualche giorno fa, con la calendarizzazione del voto in Senato per oggi, 27 ottobre

Un Ddl Zan “suicidato” dalla stessa sinistra

Quella di stamattina, comunque, è cronaca di una morte annunciata. E che a dare il bacio della morte al DDL Zan sia stato il Segretario del PD Enrico Letta è sotto gli occhi di tutti. D’altronde, da dote18 allo ius soli passando per il voto ai sedicenni, non c’è argomento sul quale la benedizione di Letta non abbia significato affossamento.

Ma con il disegno di legge per i diritti il segretario si è proprio superato: dalla forzatura in commissione Giustizia per ottenere la calendarizzazione in Aula, all’ordine perentorio e irrevocabile di approvare il testo “così com’é”, alla decisione opportunistica di trattare con Renzi e di incaricare proprio l’inamovibile Zan di condurre il negoziato, è la serie di errori (?) inanellata nelle ultime settimane dal neodeputato di Siena ad aver sancito quella che un disperato Lorenzo Tosa, con la sua solita sobrietà, ha definito “la fine di tutto”.

La mattinata si è aperta con la bagarre in aula sul voto segreto: strano ma vero, proprio loro, i democratici, hanno tentato in ogni modo di ottenere un voto palese, quindi controllabile, sulla mozione di non passaggio agli articoli, la cosiddetta “tagliola”.

Urla, strepiti e gestacci di ogni tipo all’indirizzo del Presidente Maria Elisabetta Casellati hanno fatto da preludio ad una votazione fulminea: il DDL Zan è morto nel volgere di pochi secondi.

“Il Senato approva”. E i progressisti strepitano

Parole che sono risuonate come musica nelle orecchie di chi da mesi prova a porre l’accento sulle mille storture di un testo giuridicamente abominevole e pericoloso ma che hanno dato il via a piagnistei di ogni tipo nonché alla più affascinante delle cacce al franco tiratore.

Al netto dei 28 assenti e dei due astenuti, mancherebbero all’appello almeno 16 Senatori del PD che, secondo Zan avrebbero “inseguito le sirene sovraniste”: con il solito delirio sinistro di chi non crede che esista altra via che quella tracciata dal PD, il genitore 1 del moribondo progetto di legge non contempla minimamente l’ipotesi che, liberi di votare secondo coscienza, i suoi colleghi abbiano deciso di fare la cosa giusta, di dire no a mostruosità come l’identità di genere o le giornate LGBTQ+ nelle scuole elementari.

Avevano i numeri, hanno preteso il passaggio in aula, hanno alzato un muro rifiutando ogni mediazione – ammesso che si potesse mediare su un testo così fortemente ideologizzato, e noi sul punto siamo fortemente scettici – ma la colpa è degli altri: di coloro che vogliono negare i diritti, che hanno fatto fare un passo indietro al nostro Paese.

Loro, quelli sempre dalla parte giusta, si trovano oggi a fare i conti con il frutto della loro protervia, dopo aver trascorso mesi ad additare chiunque dissentisse, accusando femministe, giuristi, liberali e persino omosessuali di omobilesbotransfobia.

Mentre attendiamo il più autorevole degli interventi, quello di Fedez, non possiamo che goderci questo esilarante teatrino di democratici che minacciano altri democratici, di uomini e donne che hanno fatto della prevaricazione e della prepotenza la loro bandiera – madamigella “Dio, Patria e famiglia che vita di merda!” prima tra tutte – che si stracciano le vesti in lacrime, di influencer deliranti che vomitano odio contro i “135 senatori della peggiore destra repubblicana, bianchi, etero, in larga parte uomini, in giacca e cravatta” colpevoli perché “alzano le mani in aria, si abbracciano, festeggiano per essere riusciti a negare i più elementari diritti [quali?] a milioni [miliardi!] di donne e uomini”.

Continueranno così per giorni, lo sappiamo. Per giorni ci sentiremo raccontare che ha vinto il male e che ha perso l’amore. Per settimane continueremo a sentir parlare di diritti negati, senza che qualcuno ci spieghi quali, e di fasciomofobosovranismo. Per mesi saremo tormentati dal racconto di questa epocale occasione persa per diventare un paese civile. Monopolizzeranno il dibattito scrivendo loro la storia, come sono abituati a fare da oltre 70 anni.

Non oggi. Oggi possiamo volgere lo sguardo sul meraviglioso spettacolo dei democratici che latrano contro il Parlamento sovrano, impiccati con la loro stessa corda.

Uno spettacolo bellissimo che ci restituisce la gioia – ogni tanto una – di una battaglia vinta: quella contro uno scellerato tentativo di imbavagliare il dissenso, di imporre una unica visione del mondo, di impedirci di dire che le foglie sono verdi d’estate.

E pazienza se per questa gioia dobbiamo ringraziare gente come Bellanova, Faraone o Renzi: lo spettacolo delle anime petaloprogressiste in ambasce per la – sacrosanta – disfatta vale il prezzo del biglietto. Anche doppio.

(di Dalila di Dio)

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