Prevenzione esseri umani

Prevenzione a ogni costo, l’opposto degli esseri umani

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La prevenzione e gli esseri umani, ovvero quelle entità biologiche indissolubilmente interconnessìe e interdipendenti tra loro, a diversi livelli di quantità e qualità dei rapporti di socialità.

In altre parole, siamo forme di vita intelligenti che operano all’interno di gruppi sociali ben descrivibili e presenti sin dalla nostra comparsa sul Pianeta, come specie umana, e fin dalla nostra nascita, come singoli individui. Eremitismo e anacoretismo sono modelli di comportamento, o percorsi di vita ben lontani da quel che rappresenta la prassi dell’agire umano. Possono essere intrapresi per motivi ascetici e spirituali, oppure a causa di veri e propri disturbi di personalità; in ogni caso, restano fenomeni statisticamente rari.

Esseri umani, ben prima della prevenzione

La consuetudine, dunque, è quella di venire al mondo per vivere in società, per integrarsi naturalmente e progressivamente nella propria comunità di riferimento. Indagando oltre il puro e primitivo istinto di sopravvivenza e di conservazione della specie, possiamo constatare come le ragioni di questa consolidata prassi di interazione tra individui all’interno di gruppi sociali, siano ragionevolmente fondate su due necessità principali: unire le forze materiali per ottenere vantaggi pratici, da un lato, e sul naturale bisogno emotivo, peculiarmente umano, di avere relazioni sociali che apportino benessere interiore elevando lo spirito, dall’altro.

Essere umano significa rischiare, ma anche vivere

Le relazioni umane apportano vantaggi, questo è la summa della socialità umana; ma in natura, dal momento che ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, dove un’azione apporti dei vantaggi, conseguentemente esporrà anche a dei rischi. Ogni essere vivente è fin dalla nascita messo di fronte al fatto compiuto di correre ogni giorno dei rischi, per il semplice motivo di esistere, evidenza di per sé piuttosto banale.

Come specie umana, quindi entità sociale, dovrebbe apparirci altrettanto scontato il fatto che vivere la socialità, interagire quotidianamente con altri nostri simili, comporta la necessità di accettare l’esposizione ad ulteriori rischi, dovuti proprio al rapporto con l’altro, al pericolo che si decide scientemente di accogliere nel momento in cui ci si associa.

Lo accettiamo perché è insito nella nostra stessa natura, non potremmo fare altrimenti; altresì, conosciamo istintivamente i contrapposti vantaggi che se ne possono ricavare, materialmente e spiritualmente parlando. Quello che scegliamo di sottoscrivere è una sorta di contratto sociale, basato sull’istinto della specie, sull’essenza che ci dà forma, sul moto di vivere, sulla reciproca fiducia e sul calcolo – volendo essere più pragmatici – del rapporto tra rischi che si corrono e benefici che se ne traggono.

Sopravvivenza

Prevenzione ed esseri umani. Ma è il principio di sopravvivenza della specie a renderci consapevoli del fatto che, evidentemente, l’esistenza umana è pericolosa per definizione. Oggi quel principio è rimasto, in quanto intrinseco e assoluto, ma quel che stiamo sempre più perdendo è la consapevolezza della nostra precarietà. La nostra società sembra voler esorcizzare questa consapevolezza, non più attraverso l’accettazione – attiva, alla costante ricerca di soluzioni nuove per sfidare l’ignoto, non passivamente e paurosamente ancorata all’agire preventivo e conosciuto – che passa per la ragione e per la forza dello spirito, ma operando una sua totale rimozione dalla propria coscienza, in quanto ritenuta intollerabile.

Proprio nel corso dell’ultimo anno e mezzo, la contingenza storica ci sta ponendo di fronte ad un fenomeno di crescente polarizzazione della società, del pensiero sensibile, tra chi è consapevole dei limiti dell’esistenza umana e cerca di affrontarli e chi, invece, tenta di nasconderli anche a se stesso. Restando in una posizione di razionale equilibrio, frutto di una mediazione tra pensiero ed esperienza sensibile, bisogna fare uno sforzo per tentare di analizzare le evoluzioni della realtà che, di giorno in giorno, si succedono davanti ai nostri occhi. Sfruttando questo neutrale – per buonsenso, non per pavidità – punto di osservazione, possiamo constatare come l’attuale contesto narrativo di perpetua emergenza sanitaria abbia pervaso il dibattito pubblico e radicalmente mutato, in una larga parte della popolazione, la stessa percezione della realtà.

Tutto quel che fino ad un anno e mezzo fa appariva come naturale, congenito all’esistenza stessa, appare oggi come qualcosa di straordinariamente peculiare; l’ordinario che si fa tragedia senza fine.

Nel quadro presente, la nostra società sembra essere finita all’interno di una sorta di bolla di pensiero isolata dalla realtà, un’anomalia della percezione esterna che provoca reazioni emotive e intellettive fuori scala, le quali risuonano e si espandono, con un riverbero che travolge qualsiasi tentativo di ritorno ad un ritmo regolare.

Nel mondo reale, contrarre malattie è l’ordinarietà – rivolgersi alla medicina per tentare di curarle è l’umana forza opposta e conseguente -, così come la possibilità che ogni singolo individuo, compresi noi stessi, sia veicolo di un qualsiasi agente patogeno tra gli innumerevoli esistenti.

La bolla di pensiero corrente non concepisce più questa possibilità, in assoluto; sembra piuttosto intenzionata a edificare un suo mondo ideale, eradicando totalmente l’idea stessa della possibilità di venire in contatto, o essere portatori di un qualsiasi agente patogeno oltre a quello attualmente dominante sul palcoscenico internazionale.

Un ulteriore elemento osservabile è rappresentato dalla paternalistica divisione tra i presunti sostenitori del bene collettivo e la loro nemesi, i presunti egoisti – prescelti a tavolino. Sia chiaro: la salute e la sopravvivenza di un gruppo di persone, di tutta una nazione o dell’intera civiltà hanno la priorità rispetto a quelle di un singolo individuo, lo stesso dicasi tra quelle di chi che rappresenta le future generazioni rispetto a coloro che hanno già sorpassato i propri anni migliori. È sull’ipocrita deformazione di questo principio, di per sé sacrosanto, che si sta incardinando l’odierna narrazione del presunto altruismo caritatevole di coloro che, applicando pedissequamente qualsiasi indicazione istituzionale in merito all’emergenza sanitaria in essere, si elevano eticamente al di sopra di coloro i quali, ponendosi il dubbio che si stia effettivamente operando nel miglior modo possibile, finiscono relegati al ruolo di pericolosi disertori che si disinteressano della salute del prossimo.

Prevenzione ad ogni costo, l’opposto degli esseri umani

Senza entrare nel merito pratico delle molte variabili in gioco nella questione, che necessiterebbero un’approfondita analisi, ci si può soffermare sul principio fondativo dal quale si estrinseca questo agire contrapposto tra probi per autoreferenza e improbi per conseguenza. Il concetto teorico alla base è quello della prevenzione. Prevenire sopra ogni cosa, per avvicinarsi il più possibile all’azzeramento di qualsiasi rischio per la salute individuale e collettiva. Stiamo assistendo alla nascita di una sorta di società della prevenzione.

Le straordinarie misure di prevenzione medica messe in atto nel contesto sanitario in cui ci troviamo, infatti, non si sono probabilmente mai viste prima nella storia recente – e forse non soltanto recente – delle società umane. La prevenzione è senza dubbio un caposaldo della pratica medica, ma come ogni applicazione pratica basata su presupposti scientifici, oltre che di essere costantemente validata, ha bisogno di essere regolata in base a quelle che sono le contingenze e le variabili del contesto in cui si trova ad operare; da questione di principio teorico deve, di volta in volta, esprimersi come questione di merito pratico.

Prevenzione significa, inevitabilmente, comprimere le possibilità di azione degli esseri umani; nel caso di patologie fortemente contagiose, alcune scelte possono ragionevolmente essere imposte ad ogni cittadino in nome del bene collettivo, ma, dal momento che prevenire significa limitare – ed anche esporre ad alcuni possibili rischi per la salute, in specifici casi -, la scala di intensità della prevenzione deve andare di pari passo con l’ordine di grandezza riguardante la pericolosità complessiva della patologia che intende prevenire; allo stesso modo va modulata in base al riscontro concreto dei risultati ottenuti o non ottenuti, all’efficacia fattuale delle misure attuate.

Se la prevenzione è una pratica medica, il suo utilizzo come strumento sociale per garantire la salute collettiva diventa questione politica e, in quanto politica, deve ben guardarsi dal degenerare in strumento tecnocratico: la tecnica consiglia, la politica decide, non il contrario. Delegittimare l’azione politica, delegando totalmente ogni decisione alla pura tecnica, ha finito per estremizzare l’azione preventiva arrivando ad assolutizzare la sua validità fino al dogmatismo. Se ciò non bastasse, ci si è spinti anche oltre: si è smesso di mettere la prevenzione al vaglio del rigore della stessa logica, abdicando all’osservazione sulla sua effettiva efficacia e sul rispetto di quel rapporto tra limitazioni alla persona e pericolosità della patologia in essere. In questo contesto degenerato, saltato ogni punto di riferimento, la pratica preventiva è stata istituzionalizzata, resa organica al sistema ed elevata a dottrina di Stato.

Uscire dall’ideologizzazione della prevenzione

Prevenzione ed esseri umani, quando tutto diventa ideologia. Se non si pone un argine politico a questo processo, un limite oltre il quale non è possibile andare, si finisce per scivolare su un piano inclinato molto ripido e apparentemente senza fine. Verrebbe da chiedersi: perché fermarsi soltanto all’attuale emergenza sanitaria e non estendere le misure preventive ad ogni altra potenziale causa di messa a repentaglio della salute collettiva? E una volta messo al sicuro il bene collettivo, perché non passare ad imporre limiti anche in nome del bene individuale, per la salute di ogni singolo cittadino, prevenendo qualsiasi possibile causa di infortunio, malattia e di morte non naturale? È chiaro che, in uno scenario del genere – volutamente iperbolico, s’intende -, la degenerazione assumerebbe dei contorni a dir poco inquietanti.

Questa ideologizzazione della prevenzione in nome della salute sopra ogni cosa, è stata resa affine al concetto di vera-scienza che si contrappone ad una presunta anti-scienza, cattiva maestra dei recalcitranti alle crescenti misure preventive. Separare la società in due fazioni, tra altruisti ed egoisti, buoni e cattivi, guelfi e ghibellini, è stato il perfetto grimaldello per chi guida le operazioni, per scardinare le dinamiche psicologiche di massa e poter sempre avere, da un lato un corpo d’armata pronto a rispondere a qualsiasi comando e dall’altro un capro espiatorio sempre a portata di mano, da poter additare come il solo e unico colpevole di ogni problema, ogni qual volta ce ne sia bisogno.

Così, i primi, forti della convinzione di essere i depositari della verità, di essere i responsabili, i giusti, invocano sempre maggiori limitazioni riversando bile sui secondi, i quali non sempre riescono a mantenere un equilibrio perseguendo la via del buonsenso, e spesso cadono vittime della stessa dinamica manichea, avventandosi a loro volta rabbiosamente contro i primi e rendendo così un pessimo servizio alle idee che intendono sostenere. Il dibattito pubblico è stato totalmente atrofizzato dall’emersione di questo impulso primitivo, di questo moto emozionale che con forza crescente ha reso sostanzialmente vano qualsiasi tentativo di confronto, eclissando quella parte di persone che intendono smarcarsi dal manicheismo in atto, per cercare, con equilibrio, con la forza della ragione, la strada più logica da percorrere.

Le dinamiche osservabili tra gli adepti della cosiddetta vera-scienza, piuttosto che ad un reale rigore scientifico sembrano aderire maggiormente a forme di settarismo, di fanatismo religioso. Essi sono dei fedeli, hanno fede senza avere dubbi, non si pongono domande che non abbiano già una risposta data; e data da chi? Dagli esperti, una nuova figura mitologica metà uomo e metà oracolo; ma non tutti gli esperti, ovviamente, soltanto quelli che aderiscono alla prescelta schiera dei provvidi, dei giusti. La loro parola è la sacra fonte del sapere, metterla in discussione – anche quando a farlo è un più che esimio collega – equivale a profanare la scienza; è un’operazione di sacralizzazione della scienza stessa. Ma se Atene piange, Sparta non ride; ed infatti dalla parte opposta – quella che chiameremo degli estremisti dell’antiscientismo, per semplificare – le cose non sempre vanno molto meglio. Anziché opporre obiezioni basate su dati reali, sulle osservazioni empiriche, sul pensiero logico, spesso costoro si perdono nel correr dietro a teorie del tutto ipotetiche, sensazionalistiche, prive di basi solide e di riscontri effettivi. Quel che i fanatici dell’una o dell’altra schiera sembrano ignorare, è il fatto che nessuno di loro, nonostante ne facciano una bandiera, indossa l’abito della scienza nel suo significato più autentico; essa non abita in mezzo a loro e si guarda bene dal diventare oggetto della contesa.

Il turbinio dei fenomeni sociali correnti si sta facendo sempre più nocivo per l’autentica indagine scientifica. La scienza per come viene oggi evocata, sembra essere diventata un’entità che possiede vita propria e si autodetermina, per poi rivelarsi a noi come una sorta di apparizione divina. Essa, in realtà, è opera dell’uomo che, attraverso l’osservazione della natura, la sperimentazione, il calcolo, acquisisce la conoscenza delle leggi che regolano la realtà – o la percezione della realtà – sensibile. In quanto opera dell’uomo si fa intrinsecamente fallibile, e fallendo confuta se stessa per evolvere e affermarsi nuovamente: è proprio grazie alla sua fallibilità che il sapere scientifico può evolvere costantemente.

Fede nella scienza e fiducia nella scienza

Prevenzione ed esseri umani, capitolo finale. In definitiva, aver fede nella scienza, come oggi si sente ripetere, non può significare accogliere ogni scoperta come verità di fede, assoluta e definitiva, ma accoglierla piuttosto come una parte di verità che viene svelata, figlia dell’esperienza presente e protesa verso una ulteriore evoluzione; e a proposito di esperienza, nessuno dei tanto decantati esperti sarà mai sufficientemente esperto da conoscere completamente il presente e prevedere l’evoluzione del nuovo.

Per queste ragioni, la fede va riposta nella fallibilità della scienza – e degli esperti o scienziati – e non nella sua infallibilità; la conoscenza scientifica non sa che farsene dei dottrinali atti di fede, essa ha piuttosto bisogno del costante dubbio che stimola e rinnova sempre la ricerca del sapere, che, come detto, sarà sempre parziale e mai definitivo. Perpetrare questo fenomeno di trasformazione della scienza in Verbo, delle sue scoperte in Rivelazioni della fede, degli scienziati in Profeti, non otterrà altro che una progressiva e inesorabile perdita di credibilità della scienza stessa, agli occhi di tutti coloro che, da essa, non desiderano il Verbo, non cercano Rivelazioni e non vogliono Profeti, ma risposte razionali a problemi reali.

Problemi come quello dal quale siamo partiti, l’emergenza sanitaria che si perpetua da ormai quasi due anni. Quel che dovremmo a questo punto chiederci, come esseri umani, è se siamo effettivamente pronti a tornare ad accettare, come fatto per millenni fino ad ora, il fatto che esistere e interagire nella società comporta naturalmente dei rischi di ogni tipo, pericoli per la salute e cause di morte non naturale che sovrastano qualsiasi numero dell’emergenza in atto. Dobbiamo chiederci se siamo disposti, in nome della riduzione – spesso assai limitata – di qualsiasi rischio, a continuare la ripida discesa sul quel piano inclinato della prevenzione a tutti i costi, che accelera la caduta verso una voragine ignota in maniera direttamente proporzionale all’inasprimento delle misure preventive.

Oppure se desideriamo riprendere in mano le redini della nostra esistenza, accettare i rischi che essa comporta affidandoci alla volontà umana attiva, all’ingegno, alla conoscenza che evolve, per limitare quei rischi in modo compatibile con le necessità del vivere, con i bisogni non solo materiali ma anche dello spirito.

Affidandoci, infine, al sapere scientifico che evolve fallendo, scevro dalle rivelate verità di fede, liberato dai falsi profeti, dagli esperti con l’esclusiva sulla verità, per cercare, di volta in volta, le possibili soluzioni ai nostri problemi, le cure ai mali che ci affliggono ed evitare un’esistenza che si illude d’essere sovrana della natura, in totale controllo degli eventi da poter dirigere a proprio piacimento, ma è in realtà ripiegata su se stessa, incapace di un autentico agire cosciente e consapevole delle proprie facoltà come dei propri limiti, sulla via di una decadenza passiva dello spirito e dell’azione, inesorabilmente avviata verso un implosivo suicidio collettivo.

(di Michele Lanna)

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