Riforma Cartabia

Cartabia, nella riforma più problemi che soluzioni

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Due giorni fa la Camera dei Deputati ha licenziato il testo definitivo della legge di Delega al Governo per la riforma della Giustizia penale, un testo compromissorio, di sintesi tra posizioni inconciliabili e, per questo, molto lontano da ciò che avrebbe dovuto essere.

Il Disegno di legge n. 2435 è, infatti, un rimaneggiamento – piuttosto significativo ma comunque insufficiente – del ddl presentato nel marzo 2020 dall’allora Guardasigilli Bonafede.

La legge delega che ne verrà fuori ha fatto storcere non poco il naso ai pentastellati e ai loro riferimenti nella magistratura e nel giornalismo: i feticci a 5 stelle Cafiero De Raho e Gratteri hanno sollevato una serie di obiezioni – la maggior parte delle quali fortemente mistificatorie – circa i rischi che la riforma avrebbe comportato per i reati di mafia e un esagitato Marco Travaglio è arrivato ad insultare Mario Draghi e Marta Cartabia definendo quella della Presidente emerita della Corte Costituzionale una schiforma.

Insomma, nessuno tocchi Fofò e il ddl frutto del suo genio incompreso.

Riforma Cartabia, più ombre che luci

Sia chiaro, anche noi non consideriamo la riforma appena varata particolarmente pregevole ma, evidentemente, per motivi opposti a quelli di Toninelli & Co.

L’impressione è che il Ministro Cartabia abbia dovuto inventarsi qualcosa per accontentare tutti e dare l’impressione di aver riformato il sistema giustizia: la realtà è che questo provvedimento avrebbe dovuto essere una controriforma dopo la schiforma – quella sì – targata Alfonso Bonafede, ma sotto molti aspetti, primo fra tutti il tema fondamentale della prescrizione, mostra tutta l’anima pavida di un Governo di unità che di unito ha ben poco.

Certo, la proposta Cartabia propone qualche novità interessante: amplia il novero dei reati procedibili a querela, rivede i termini di durata massima delle indagini preliminari – oggi pressoché totalmente ignorati dai Pubblici Ministeri – riconoscendo al GIP maggiori poteri di impulso e controllo, tenta di incentivare la definizione dei procedimenti attraverso riti alternativi deflattivi – ad esempio prevedendo una riduzione di un ulteriore sesto della pena in caso di rinuncia all’impugnazione a seguito di giudizio abbreviato (che suona più mercato delle vacche che giustizia, ma tant’è!) – e interviene in materia di pene sostitutive e di digitalizzazione del processo.

Punta a garantire l’oblio all’indagato e agli imputati in caso di proscioglimento, prevede che sia il Parlamento a stabilire, con legge, quali reati vadano perseguiti con precedenza rispetto agli altri – la proposta Bonafede lasciava l’elaborazione dei criteri di selezione delle notizie di reato da trattare con precedenza alle Procure, ça va sans dire – e promette un – indispensabile – ampliamento delle risorse del comparto giustizia, atavicamente piagato dalla mancanza di personale e mezzi tecnici.

Il testo contiene previsioni molto suggestive ma evidentemente ingenue se guardate con gli occhi di chi frequenta le aule di giustizia.

Che senso ha, ad esempio, prevedere che il P.M. possa richiedere il rinvio a giudizio dell’indagato unicamente ove gli elementi acquisiti consentano una “ragionevole previsione di condanna”, in un sistema in cui primeggiano Pubblici Ministeri che ritengono che non esistano innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti?

Per non parlare della cristallizazione di casi d’eccezione introdotti con l’emergenza Covid che diventano la norma con questa riforma: il processo penale, per sua natura caratterizzato da oralità ed immediatezza, diventa cartolare o non partecipato.

Il DDL prevede, infatti, che il giudizio di appello sia di norma camerale e non partecipato – salvo richiesta dell’imputato di partecipare – e che il giudizio di Cassazione avvenga con contraddittorio scritto senza l’intervento dei difensori.

Con buona pace delle arringhe che hanno fatto la storia della retorica forense che diverranno sempre più rare ed eccezionali.

Ma, è inutile negarlo, il vero nodo è quello della prescrizione che, lungi dall’essere sciolto, è stato stretto con una soluzione che non solo non risolve il problema ma ne crea di nuovi.

Ma andiamo con ordine.

L’origine dei mali: Bonafede e Conte

Con una norma fortemente voluta dall’allora Premier Giuseppe Conte – nella sua versione giustizialista – e che porta il nome di Alfonso Bonafede, il suo prediletto tra i Ministri, dal 2019 il nostro ordinamento prevede che ogni cittadino imputato in un processo penale per fatti commessi dal 1 gennaio 2020 – e presunto non colpevole fino a sentenza irrevocabile, vale la pena di sottolinearlo sempre – possa rimanere imputato a vita.

È questo il risultato della strabiliante idea del Ministro pentastellato che, dietro suggerimento dei suoi consulenti più fidati – manettari e giacobini di provata esperienza – aveva ben pensato di sancire che il corso della prescrizione dovesse interrompersi con la pronuncia della sentenza di primo grado, con la conseguenza che il secondo e terzo grado di giudizio avrebbero potuto protrarsi anche per i successivi 30 anni, senza che l’ordinamento reagisse con alcuna sanzione sostanziale o processuale.

Un principio così assurdo da essere osteggiato dalla maggior parte della società civile e dai giuristi di tutta la Nazione, ma molto gradito a Travaglio e soci e difeso strenuamente dal fu Presidente del Consiglio Conte.

Cartabia, un testo per accontare tutti e non risolvere nulla?

Buon senso avrebbe voluto che il Ministro Cartabia spazzasse via senza riserve l’abominio a 5 stelle, ma questo sarebbe stato possibile solo se la riforma della Giustizia fosse un fatto tecnico e mirasse davvero a migliorare il sistema e a renderlo più giusto ed efficiente.

Purtroppo, in un Paese in costante campagna elettorale anche un tema così delicato è oggetto di propaganda e tornare indietro, cancellando la – raccapricciante – riforma Bonafede sarebbe stato impossibile a meno di non scatenare una crisi di Governo o piegare il Movimento ad un voto di fiducia che gli avrebbe assestato il colpo di grazia.

Così, Cartabia ha dovuto partorire un piccolo abominio per temperare un altro, enorme, abominio: l’improcedibilità dei processi in caso di mancata definizione del giudizio di appello in due anni e di quello di Cassazione in un anno (termini allungati per particolari reati) dal novantesimo giorno successivo al deposito delle motivazioni della sentenza.

Una proposta che le ha scatenato contro le ire dei Pubblici Ministeri di riferimento del Movimento 5 stelle – Gratteri fra tutti – che, come anzidetto, per difendere la legge Bonafede che gli garantiva processi sine die, hanno paventato pericoli inenarrabili per i processi di mafia e terrorismo che, a loro dire, sarebbero stati gravemente compromessi dall’entrata in vigore della norma sull’improcedibilità.

Nulla di più falso, dal momento che sia per la loro natura che per il fatto di riguardare quasi sempre imputati detenuti, i processi in parola godono di corsie preferenziali per la loro trattazione nonché di termini allungati ex lege.

Tralasciando gli strali di bandiera degli strenui sostenitori dell’abominio che vorrebbe gli italiani imputati a vita, il rischio è che questa riforma allunghi i tempi del processo.

Tentiamo di spiegare il perché: la previsione sulla improcedibilità non si sostituisce ma si aggiunge a quella sulla prescrizione sostanziale varata da Bonafede.

Ci troviamo, quindi, davanti ad una disciplina secondo la quale il primo grado può potenzialmente durare fino all’ultimo giorno del tempo massimo necessario a prescrivere – che per i delitti, ad esempio, non è mai inferiore ad anni sette e mesi sei – e a successivi gradi di Appello e Cassazione da celebrarsi, di contro, in tempi assai più brevi e perentori, pena l’improcedibilità.

Il tutto si inserisce in un sistema già saturo, in cui sono da celebrare ancora migliaia di giudizi di appello per fatti antecendenti alla riforma, cui andrebbero a sommarsi quelli sotto la scure dell’improcedibilità.

Il rischio – la certezza, potremmo azzardare – è che per non far collassare le Corti di Appello sotto il peso delle impugnazioni, i Tribunali dilatino i tempi dei giudizi di primo grado – approfittando della legge Bonafede – mantenendo l’imputato in uno stato di incertezza per anni, almeno fino allo spirare del termine di prescrizione.

Un simile stallo nella fase dibattimentale non potrà che comportare, a cascata, un rallentamento dei processi nella fase delle indagini preliminari molti dei quali – come già accade nel silenzio generale – nell’impossibilità di approdare al dibattimento moriranno di prescrizione ancor prima di vedere un’aula di giustizia.

In questo senso, significative appaiono le parole di conte di Conte che intervistato da La Stampa ha dichiarato che grazie al Movimento si è assicurata “la possibilità di portare al limite della durata massima tutti i processi su semplice iniziativa del giudicante”. Non è chiaro cosa intendesse il leader eternamente in pectore, ma non è un’affermazione che suona confortante se riferita ad una riforma che ha l’ambizione di accelerare i tempi del processo.

Insomma, una giustizia più lenta e meno giusta.

Come detto, una riforma che crea molti più problemi di quelli che mirava a risolvere.

Sarebbe bastato abolire la mostruosità targata Bonafede, disgregando con essa il colosso da piedi d’argilla del giustizialismo a 5 stelle.

Ma in un tempo in cui tutto ciò che conta è mantenere il consenso e fare apparire tutti vincitori, anche le cose più semplici diventano impossibili.

(di Dalila di Dio)

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