La vicenda di Christian Eriksen, che ha scampato la morte solo due giorni fa sul campo di gioco, impone una riflessione importante. Una riflessione che abbraccia la paura della morte, la fede nell’onnipotenza della scienza, e lo stesso approccio che tutti noi (non) abbiamo all’idea di non essere eterni.
Erisken e la paura della morte
La paura della morte è umana. Ce l’abbiamo tutti, come è logico che sia. Diverso è renderla l’unica ragione della nostra esistenza, ma soprattutto ancora peggio è non comprendere la plausibilità della morte. Quasi dimenticarsi che essa esista, ragione per cui, proprio con il Covid 19, abbiamo assistito a un delirio ipocondriaco di massa, di dimensioni enormi e incalcolabili.
All’improvviso ogni singolo calcolo che normalmente non facevamo (sui rischi di prendere una malattia dall’ “unovirgola” come spesso dico riferendomi alle statistiche sulla mortalità) diventa onnipresente, all’improvviso diventa quasi essenziale controllare le particelle, dominarle e impedire che viaggino.
Massimo Fini, nel corso di un’intervista rilasciata a ByoBlu, lo aveva detto in modo chiaro: “C’è una paura della morte mai vista nella storia umana”.
Perché la vicenda Eriksen dovrebbe esserci di insegnamento
Cosa c’entra il Covid con la vicenda Eriksen? Perché proprio la storia del centrocampista danese dell’Inter dovrebbe farci comprendere quanto non possiamo controllare tutto, figuriamoci l’aria, come chiusure e restrizioni ci hanno illuso di poter tenere a bada, non supportati – è bene ricordarlo – da nessuna evidenza scientifica.
La storia di Eriksen è la storia di chi, al momento e dopo due giorni di analisi e controlli medici, non sa assolutamente per quale motivo ha avuto un arresto cardiaco durante la gara della sua nazionale contro la Finlandia. “Nessuno di noi sa ancora cosa è successo effettivamente a Christian. È per questo che è ancora in ospedale”, dice Martin Boesen, responsabile medico della Danimarca.
E la stessa Gazzetta, seguendo la vicenda, cita così: “Analisi su analisi, esami su esami: tutti negativi. E suona quasi sinistra, come sensazione. Perché c’è il sollievo misto all’inquietudine di non sapere, c’è il paziente che è felice di non essere malato, ma allo stesso tempo non sa perché è paziente“.
Esatto. Eriksen non sa perché è paziente. E noi, allo stesso modo, non sappiamo assolutamente come moriremo e non abbiamo alcuna garanzia nel merito. Si può morire in tanti modi probabilisticamente ridicoli. Incluso un arresto cardiaco accusato sul campo di gioco senza soffrire – a quanto pare – di alcuna patologia scatenante.
E se non possiamo prevedere nulla, perché dobbiamo ossessionarci su una malattia dell’ “unovirgola” la quale non solo ci impedisce di vivere, ma che aumenta le probabilità di viaggiare verso una morte diversa, per fame, che non è meno grave di quella che ci può portare un virus, qualsiasi virus?
Riflettiamoci.
(di Stelio Fergola)