Oscar inclusione

Oscar dell’inclusione: tutti muti di fronte a un delirio dittatoriale

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Oscar dell’ “inclusione” al miglior film, un premio che può scordarsi chi si “permette” di non introdurre temi “inclusivi” nelle pellicole che aspirano al riconoscimento. In questi giorni la questione ha fatto discutere, o per meglio dire: non ha fatto discutere affatto. Tranne qualche regista che, per fortuna, ha acceso il cervello e forse si è visto un tantinello penalizzato da questo delirio psicotico.

L’Oscar dell’ “inclusione”

Non parleremo del regolamento di per sé, visto che è stato ampiamente dibattuto in questi giorni. Potremmo ricordare che non basterà certamente “trattare il tema delle minoranze” per poter concorrere alla vittoria, ma bisognerà obbligatoriamente utilizzare cast diversificati, provenienze etniche o sessuali differenti. Giammai, dunque, poter vincere l’Oscar al miglior film con una pellicola storica sull’impero austriaco (esempio), dal momento che potremmo trovarci tutti individui di razza germanica, a meno di non falsificare la storia in pieno stile Netflix.

Quest’ultimo punto ci porta alla radice del problema: la morte dell’arte e della creatività. E non è un certo strano che contro gli “Oscar degll’inclusione”, si siano schierati Andrea Occhipinti, Gabriele Muccino e Giulia Base.

“Gli Stati Uniti mi sembrano un Paese schizofrenico che va per estremi”, dice Occhipinti. E’ una “ossessione del politically correct, prosegue Giulia Base, e “il sistema del cinema hollywoodiano e quindi anche l’Academy e le sue regole in continuo mutamento, sono ormai da anni sempre più avvitati nell’insicurezza sistematica che governa quel mondo e che viaggia in parallelo col suo abnorme ego per cui si sente paladina della civiltà: una responsabilità che il cinema non deve assumersi, secondo me. Il cinema non deve mai pensare in modo politico o morale”, conclude Muccino.

Tre conservatori? Non credo proprio. Tre persone che lavorano in un settore e che, giustamente, si vedono strozzati nel loro lavoro, che è quello di creare. Bene o male, ma il verbo è lo stesso: creare.

D’altronde negli ultimi anni la manifestazione ha dato prova di correre sfrenatamente verso la totale dittatura culturale.

La dittatura dell’inclusione: tutti muti, con qualche elogio

Muti, zitti. La stampa mainstream, al contrario di qualche regista (peraltro non certo lontano dall’ideologia politicamente corretta) presenta la notizia come un normalissimo nuovo regolamento, senza esprimere nessuna riserva. E se qualche opinione c’è, è la solita finta critica che sostanzialmente avalla il provvedimento. Su un sito minore, un articolo delirante cita nel passaggio finale le seguenti parole:

Perché se siete tra coloro che non fanno parte di una minoranza, ma che si intimoriscono all’idea che le minoranze possano essere più rappresentate, il problema non è degli Oscar né degli Standard dell’Academy, ma solo e soltanto vostro. 

Sì, abbiamo paura, caro genio. Primo perché per rispettare una minoranza non bisogna né necessariamente parlarne né renderla obbligatoriamente protagonista o tema centrale in un film. Secondo perché soltanto un cretino può pensare che il cinema non sia “inclusivo”, dal momento che tratta i più disparati argomenti da decenni e tra questi nessun imbecille potrebbe pensare che le minoranze non siano trattate.

Terzo perché soltanto un essere umano veramente piccolo può essere così irrispettoso e insensibile alle caratteristiche culturali di qualsiasi pellicola cinematografica che può avere – ebbene sì – anche una tinta unica a rappresentarne l’identità. Che né tu né i penosi organizzatori degli Oscar avete alcun diritto di sopprimere. L’Oscar dell’inclusione è in realtà l’Oscar dell’esclusione: delle differenze, delle peculiarità, dei colori inconfondibili.

Vergognatevi.

(di Stelio Fergola)

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