Robert Brasillach, il poeta nero

Robert Brasillach, il poeta nero

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Rivoluzionario nella militanza e nella scrittura. Romanziere, in primo luogo, ma anche critico e giornalista. Giovane e maledetto. Tra le consonanze stellari potrebbe richiamare il simulacro del connazionale Rimbaud, sebbene oltranzista. Politicamente affaccendato, tanto da morirne, come Andrea Chénier. Abbandonato nel Lete della memoria letteraria francese, dacché, insegna Richard Millet, ogni discorso sulla terra e l’identità nazionale è ad oggi sospettabile di vichysmo. E Brasillach, il poeta nero, di questo scrisse, benché non solo di questo: terra e identità.

Brasillach e la condanna a morte

È il 1945 quando il generale De Gaulle riceve una domanda di grazia firmata da illustri scrittori e accademici; tra questi Paul Valéry, François Mauriac, Albert Camus e Jean Coucteau. Il 19 gennaio dello stesso anno Brasillach viene condannato a morte: “intelligenza con il nemico”, l’accusa. “È una vergogna”, strepita una voce in aula durante l’udienza. L’imputato ribatte: “è un onore”. E che onore!, condividere lo spazio – per amore di analogia – con Gesù, Socrate e le altre vittime della storia che hanno rimescolato le carte sopra al tavolo del mondo, disponendole secondo la breccia del loro passaggio. Qualche giorno prima dell’esecuzione Brasillach prega, legge la Passione di Cristo e gli evangelisti, ripensa con dolcezza alle persone amate. Ha appena trentacinque anni, l’età in cui spirò Mozart; fa parte dell’ultima generazione che abbia potuto raccogliere ossigeno dal mondo antico e dai miti dell’Ottocento. Brasillach è l’ultimo di un drappello vespertino romantico, specialmente sul piano politico. La sorte decide di chiudere in bellezza servendosi di lui e lasciando un “nome insanguinato”, come avrebbe scritto il condannato alla ghigliottina di Victor Hugo.

Romanziere, giornalista, intellettuale

Romanziere prolifico. Con l’interesse di un’arcadia surrealista – poi rivelatasi velleitaria a causa dei totalitarismi – scrisse “Presenza di Virgilio”, il romanzo dove gli antichi incontrano i moderni oltre i confini del tempo. Brasillach, nocchiere di questa spedizione letteraria, assimila l’ammirazione di Virgilio per Catullo e Calvo con quella di Balzac per Walter Scott e di Dostojievskij per Eugène Sue. Dal Virgilio brasillachiano si evince l’ideale continuità stilistica nell’essenzialità secentesca di Racine e un’altrettanto ideale consanguineità nell’amor patrio di Maurice Barrès e di D’Annunzio.

La lettura storica dello scrittore francese non è fatta con gli occhi della carne, ma con quelli della mente, ricercando una chiave metastorica; il simposio tra i grandi letterati è uno spazio che vibra fuori dal tempo. Il consesso tra gli uomini di genio si consuma in un iperuranio di similitudini dove si scopre che “l’uomo cambia poco, e le sue preoccupazioni, anche letterarie, ricompaiono simili dopo alcuni anni”.

Virgilio non è il poeta sopra le parti che con la sua lunga veste – come da incisioni di Gustave Doré – accompagna Dante nell’oltretomba. È il ragazzo timido che ama il silenzio e lo studio, che ha compreso l’ordine del mondo tra i libri di Lucrezio e il fascino dell’ignoto nell’insegnamento degli orientali; è il mezzano che scrive con motivi alla moda le “Bucoliche”, che celebra la gloria del principe nelle “Georgiche”; è segnatamente l’autore che, raggiunta la maturità, compone un’opera monumentale di portata storica, morale, religiosa e politica: l’”Eneide”. E nel farlo propaga il suo ringraziamento a “tutti coloro che avevano plasmato, come un’opera d’arte, la nazione da cui egli era nato”.

Nella mescolanza dell’antico con il moderno Virgilio è Brasillach e Brasillach è Virgilio, sia per le consonanze biografiche, che per l’amore verso i giovani. Il poeta latino piangerà il diciassettenne Marcello, nipote di Ottavio, come il poeta francese piangerà il trentatreenne José Antonio Primo de Rivera, arrestato e ucciso dai repubblicani spagnoli.

Negli anni della collaborazione con il regime nazista Brasillach scrive nelle colonne del giornale “Je suis partout”; tre sono le parole predilette dal poeta: patria, gioventù e rivoluzione. “Il mio paese mi fa male”, aveva vergato un giovane Léon Degrelle – capo del movimento rexista belga -, e quelle parole indicizzavano l’idea patriottica di Brasillach, Cireneo sognatore di un fascismo francese sulla scia del regime mussoliniano, utopizzato a “favola fascista” e a “poesia visibile”. Una rivoluzione nazionale e sociale nella quale i ragazzi di vent’anni avrebbero dovuto essere mentovati ad avanguardia, “in attesa del nuovo mattino”, nella fedeltà e nell’ascolto della terra e degli eroi.

Brasillach, la politica e la tentazione fascista

Cultura e militanza, liturgia e disciplina; questi gli aspetti che alimentarono le simpatie ideologiche di Brasillach. La tentazione fascista era per lui un’esaltazione poetica, una presa di posizione più genericamente estetica e di unione solidale tra le gioventù europee delle “nazioni risvegliate”. Suo è il conio dell’espressione “fascismo immenso e rosso”, da intendersi come un nazionalismo sociale in chiave anti-bolscevica. Un’adesione che è l’esito della constatazione entusiastica di un attivista del Novecento di fronte a quella che chiamava “la gioia fascista”; i piccoli Balilla festanti che intonavano canti popolari, il giovane italiano “forte della sua razza e della sua nazione”, “sprezzante dei beni grossolani di questo mondo”. Il rispetto altresì per l’identità mediterranea di cui Brasillach era figlio per la sua origine catalana, e lo sconvolgimento di fronte ai bombardamenti di Siena, Firenze e Venezia durante la Seconda Guerra Mondiale, città alle quali si sentiva sentimentalmente legato.

D’altra parte l’ammirazione – spesso in cattivissima fede propagandistica – per la gravità pacata e possente del popolo tedesco, per le adunate della Hitlerjugend, per gli “stendardi a croce uncinata” che sventolavano e brillavano “sotto il sole splendente”. La penna di Brasillach vedeva sposarsi la Germania del Sacro Impero con quella del Terzo Reich. A reggerne il paragone era la convinzione che dietro al nome di una nazione viva un immaginario ben definito, poiché “non esiste un universalismo astratto, ma lo si realizza soltanto attraverso la nazione”. Ben si comprende perché, tra le accuse rivoltegli, fu detto che i suoi articoli avessero fatto più male alla Resistenza di un battaglione della Wehrmacht.

Nelle pagine del romanzo anti-romanzo “I sette colori”, la “liturgia hitleriana” è descritta come lo spettacolo più prodigioso a cui Patrice, il protagonista, avesse mai assistito. È sempre la parte maledetta di Brasillach a incedere con il volto mascherato da un suo personaggio; è lui a cogliere nell’ideologia il male inevitabile del suo tempo e ad assumerne la tragicità, facendone un destino personale: agere sequitur esse. Patrice sfugge alla vita piccolo borghese, alle facili sicurezze di un’esistenza scontata. Nel suo giovanile amore per Catherine sogna, soffre, elabora la farmacopea per non diventare mai veramente adulto, cerca di far dono della propria vitalità a un secolo che temeva piatto e inconsistente, per poi restare congelato dalla realtà e dal consolidamento dell’amore di Catherine per un altro uomo. L’attitudine immaginativa e estetizzante di Patrice è la stessa di Brasillach; il bruciarsi nell’ardore della propria fiamma, divorati ambedue dal progredire della realtà sul sogno.

In questo Brasillach fu poeta, giacché del poeta conservò la disposizione spirituale, il canto votivo alla giovinezza, così da mantenere sempre giovane il suo sguardo sul mondo. Nel thaumazein si rinnova il cosmo, nel “bagliore della visione” come direbbe Wordsworth.

Brasillach non fu consolidatore, ma fondatore. Così diceva di coloro che muoiono poco dopo i trent’anni. Perché sono questi che “donano la fiamma, l’avvenire”. Il poeta nero non ebbe mai ragione su nulla. Ma che cattivo gusto aver ragione.

(di Enrico Ildebrando Nadai)

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