Karl Marx

Marx, i “capitalismi” e i liberali: parla Gianfranco La Grassa

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In questo articolo, arricchito da un video di circa un quarto d’ora, parliamo di «capitalismi» e di Marx con il professor Gianfranco La Grassa.

Dalla Prefazione de Il Capitale di Marx

“Il fisico osserva i processi naturali nel luogo dove essi si presentano nella forma più pregnante e meno offuscata da influssi perturbatori, oppure, quando è possibile, fa esperimenti in condizioni tali da garantire lo svolgersi del processo allo stato puro. In quest’opera [costata vent’anni di studio dell’Economia politica classica al British Museum dopo aver liquidato la sua precedente ed embrionale opera filosofica con l’ “Ideologia tedesca” del 1845, testo non destinato alla pubblicazione; ndr] debbo indagare il modo capitalistico di produzione e i rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono. Fino a questo momento [centocinquant’anni fa; ndr] loro sede classica è l’Inghilterra. Per questa ragione [lo riscrivo: per questa ragione e non altre; ndr] è l’Inghilterra principalmente che serve ad illustrare lo svolgimento della mia teoria”.

Quindi, fin dalla Prefazione Marx chiarisce il suo metodo d’analisi e il tipico procedere del suo pensiero teorico, che assimila a quello della scienza naturale. Niente semplici considerazioni filosofiche. Certamente, egli crede alla possibilità di “riprodurre il concreto nel cammino del pensiero” (Introduzione del 1857 a Per la critica dell’Economia politica) e magari è convinto di dover applicare (e di aver applicato) il metodo dialettico hegeliano, semplicemente rimesso con i piedi sulla terra. Tuttavia, il suo compito fondamentale, quello cui dedica la parte più matura dei suoi studi e delle sue riflessioni teoriche, è di carattere scientifico; egli lo sente come tale, e come tale lo persegue con il massimo di passione e tensione.

Un lavoro scientifico

C’è di più. Poiché si tratta di un lavoro scientifico, e tenendo conto dell’impossibilità di analizzare processi (ripetitivi) di carattere naturale (fisico) e dunque generalizzabili, egli avverte il lettore che deve osservare l’oggetto della sua indagine – il modo capitalistico di produzione e i rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono – nel luogo, cioè nel paese in questo caso, in cui tali processi si svolgono allo stato più puro possibile, giacché lì si è di fatto conclusa da tempo la transizione dalla formazione sociale feudale a quella denominata capitalistica. Tuttavia, simile processo non conosce sosta, non si ripete pari pari senza variazioni di sorta; dopo un secolo e mezzo, sono avvenute trasformazioni tali da non poter più trattare il capitalismo seguendo soltanto l’analisi che ne diede Marx con l’attenzione rivolta al “laboratorio” inglese. A me sembra che una simile analisi sia oggi decisamente superata.

Marx ha compiuto passi a mio avviso rilevanti nel porre in luce date caratteristiche della formazione sociale odierna, ha indicato alcuni percorsi essenziali per studiare più in generale la società, individuando ruoli e funzioni delle “soggettività”, la cui interazione costituirebbe l’intelaiatura (la rete) dei rapporti atta ad individuarne la “natura” in successive epoche (fasi) storiche del suo evolversi e mutare. Ed infatti la prima mossa che va compiuta, secondo la mia particolare visione teorica, è quella di afferrare come Marx conduca l’indagine intorno a questa rete di rapporti, da lui ritenuta la più decisiva nel caratterizzare ogni forma sociale “storicamente determinata” e in particolare quella capitalistica, di cui l’Inghilterra rappresenta il punto più alto quando egli elabora e scrive Il Capitale. Proprio perché Marx pensa di stare “riproducendo” detta rete o struttura mentre la sta invece costruendo secondo un angolo di visuale prescelto. Ed è questa costruzione che poi spinge lo sguardo del teorico a prevederne gli sviluppi trasformativi futuri.

Infatti, essendo stata immaginata quella data struttura sociale, la sua prevista (e presunta) trasformazione diventa necessariamente una transizione dal capitalismo – quello considerato caratteristico dell’Inghilterra, ma che si pensa come modello generale cui si atterranno i processi di evoluzione in corso negli altri paesi – ad una nuova formazione sociale: prima socialista (“a ciascuno secondo il suo lavoro”) e poi comunista (“a ciascuno secondo i suoi bisogni”). Ed è in fondo la stessa (o quasi) angolazione a portare in tempi assai più recenti la “scuola” althusseriana ad abbandonare l’idea di una formazione socialista (la prima fase del comunismo), facendola invece rientrare nel processo di transizione dal capitalismo al comunismo, una transizione poi considerata “abortita” o quanto meno interrotta. Pensando poi allora alla “rivoluzione culturale cinese” come ad un tentativo di farla ripartire; e al maoismo come specifica revisione del marxismo adeguata a tal fine.

La “storia” dell’ultimo mezzo secolo ha fatto precisamente piazza pulita proprio di tutti questi tentativi, ponendo in chiara luce l’inadeguatezza della costruzione teorica marxiana. Solo la mancanza di spirito scientifico dei (falsi) marxisti, succedutisi in particolare dopo il ’68, ha potuto portare o alla cancellazione di Marx o a pensarlo come un semplice utopista, riducendo il comunismo all’aspirazione ad una società “giusta”, più “umana” e altre oscenità del genere. Più semplicemente, un modello teorico non riproduce la “realtà”, ma la osserva (e in definitiva costruisce) secondo particolari angolazioni dello “sguardo”. Quando quest’ultimo si dimostra storicamente o “miope” o munito di “lenti deformanti” (e anche più che deformanti), bisogna disporsi secondo un differente angolo d’osservazione, bisogna munirsi di altri occhiali. La prima cosa da farsi è in ogni caso il tenere conto dell’avvertenza marxiana, secondo cui egli stava osservando una specifica società, quella inglese. Ripartiamo da qui.

La nascita della borghesia mercantile

2. Non intendo fare qui opera di storia. Comunque, l’epoca del commercio su lunghe distanze ha portato allo sviluppo della cosiddetta borghesia mercantile. Si è trattato di una fase di iniziale e alla fin fine abortita transizione dal feudalesimo ad una diversa formazione sociale. Detta borghesia, fra l’altro, si imparentò spesso con la nobiltà. In ogni caso, accetto la tesi che un certo sviluppo dei commerci non sia stata la causa decisiva della dissoluzione progressiva della vecchia società. Lo sviluppo del commercio invogliò certamente le classi feudali a favorire il concomitante sviluppo delle prime manifatture; e soprattutto nelle campagne poiché nelle città vi era l’intralcio dei troppo rigidi ordinamenti corporativi dell’artigianato. Un indubbio fattore nettamente propulsivo fu tuttavia rappresentato dalla recinzione delle terre comuni, che si verificò in Inghilterra a partire dal XVII secolo con massiccia espulsione dei contadini dalla campagna.

Tale processo fu fondamentale per l’ingrossarsi di quella che divenne poi una gran massa di potenziali lavoratori, inizialmente non assorbiti per la lenta crescita delle manifatture, ma in ogni caso disponibili ed infine divenuti progressivamente dei salariati. Per tutto un periodo vi fu l’incremento del vagabondaggio, che poi però fu irreggimentato attraverso successivi ordinamenti stabiliti con ferree leggi. E’ quindi logico che l’Inghilterra divenne il primo paese a vedere l’affermazione della nuova formazione sociale – e a divenire così il “laboratorio” di cui parla Marx nella sua analisi del capitalismo – soprattutto a causa di tale processo. Proprio per questo, quando si sviluppò il dibattito sulla transizione dal feudalesimo alla nuova società, ho sempre pensato che avesse ragione chi (in particolare Maurice Dobb) sottolineò la decisività della formazione del lavoro salariato piuttosto che dell’ampliamento e sviluppo del mercato in generale. Se vogliamo, possiamo dire che l’impulso principale alla transizione lo diede la crescita di un particolare mercato: quello della forza lavoro. Certamente tale mercato fu intralciato nel suo sviluppo da una serie di leggi e leggine; tuttavia indispensabili in un primo tempo, come già detto, ad impedire che crescesse soprattutto il vagabondaggio.

Lo sviluppo capitalistico

Marx e lo sviluppo capitalistico

In definitiva, la prima spinta allo sviluppo capitalistico la diede proprio la recinzione delle terre comuni – e per questo il capitalismo si andò affermando in Inghilterra – che dette avvio alla formazione del lavoro salariato. Una volta sviluppatasi la manifattura – e al di fuori degli ordinamenti corporativi che impedivano l’ampliarsi delle botteghe artigiane – si andò accentuando una delle caratteristiche fondamentali del capitalismo: la competizione concorrenziale. Nella manifattura, il rapporto sociale è già capitalistico; è cioè il rapporto tra chi possiede i mezzi produttivi, ne dispone, e coloro che, non avendone, vendono dietro salario la propria forza lavoro. E’ ovvio che lo sviluppo capitalistico, se in un primo tempo ha bisogno di leggi che rendano il mercato di tale forza lavoro fortemente “imperfetto”, deve infine renderlo sostanzialmente libero da intralci. E’ indispensabile che i lavoratori salariati vendano questa merce speciale con “libera competizione” fra loro, che favorisce appunto chi li assume a prezzi (salari) assai contenuti poiché la domanda è inizialmente bassa in relazione all’offerta di “liberi” venditori di forza lavoro.

La manifattura va crescendo e sviluppandosi e quindi cresce anche la domanda di “liberamente venduta” merce forza lavoro. Tuttavia, i capitalisti manifattori sono in competizione concorrenziale fra loro e molti falliscono e vanno ad ingrossare le file del lavoro salariato. Si verifica una “espropriazione” che “si compie attraverso il giuoco delle leggi immanenti della stessa produzione capitalistica, attraverso la centralizzazione dei capitali. Ogni capitalista ne ammazza molti altri” (Marx nel cap. XXIV de Il Capitale, libro I). Gli opifici dove si svolgono i processi produttivi – che sempre più si allontanano dal loro carattere artigianale – si vanno ingrandendo e diminuisce relativamente (non in assoluto ovviamente) il numero dei proprietari capitalisti rispetto alla massa dei “produttori” impegnati nel settore manifatturiero. Una parte crescente di tali “produttori” diventa appunto venditrice (e sempre meno intralciata nella “libera vendita”) di merce forza lavoro.

Si prepara così la successiva rivoluzione industriale, che nel primo paese capitalista – che diviene così “laboratorio” privilegiato anche per l’indagine di tale processo – si realizza grosso modo tra gli ultimi quattro decenni del XVIII secolo e i primi quattro del XIX. A questo punto, la nascita della nuova formazione sociale (capitalistica) si è “perfezionata” e può indubbiamente essere studiata nella sua forma “meno impura”. Nella seconda metà dell’ottocento si può ben dire che il mercato – in tutti i suoi comparti, ivi compreso quello della compravendita di forza lavoro – è finalmente libero pressoché integralmente. Marx è dunque favorito nella sua analisi dalla presenza di questo speciale “laboratorio” inglese; e tuttavia la sua specifica angolazione scientifica si constata proprio in questo frangente. Egli non si fa distrarre dal fatto che adesso esiste un mercato quasi completamente libero della forza lavoro mentre prima era intralciato da molti “lacci e laccioli”. Tanto più che pian piano si mette in moto un altro “intralcio”: quello della progressiva formazione dell’associazione (sindacale e anche partitica) dei salariati con contrattazione che via via diviene sempre meno individuale.

Marx, lo scienziato

Karl Marx

La scientificità di Marx si nota proprio qui. Egli prescinde (“galileianamente”) dagli ineliminabili “attriti”, suppone una perfetta libertà nello scambio mercantile e mostra come, proprio in virtù della presunta completa libertà contrattuale, la forza lavoro assunta ha un determinato valore (lavoro incorporato nei prodotti necessari alla vita del lavoratore e che questi compra con il salario o prezzo della particolare merce venduta, prezzo appunto oscillante intorno al suo valore per merito della piena libertà nella compravendita); ma, una volta ingaggiata e messa all’opera nei processi produttivi di merci con i mezzi di produzione posseduti dal capitalista, tale forza lavoro (lavoro in potenza) eroga una quantità di lavoro superiore a quella rappresentante il suo valore. Da qui il pluslavoro che si esprime in forma di valore e costituisce in definitiva il profitto capitalistico (oltre alla rendita, ecc.).

Purtroppo, si è usato per questo pluslavoro il termine di sfruttamento; e i marxisti limitati (compresi quelli degenerati nel ’68 in “grundrissisti”) hanno cominciato a pensare nei termini di Dühring (attaccato da Engels) al “capitalista con la spada in pugno” che estorce il pluslavoro (plusvalore, profitto) con la violenza e la sopraffazione. E i “poveri” lavoratori sono divenuti dei diseredati, dei miserabili cui dedicare tutta la propria pena e solidarietà. E alla fine qualche limitatissimo studioso, preso per seguace di Marx (anzi per chi lo avrebbe riportato in auge), ha potuto sostenere che il nuovo “Papa buono” (Bergoglio) ha ben interpretato Marx. Una vergogna assoluta, una idiozia montante a partire appunto dai devastatori culturali del ’68. I quali, per modernizzarsi, hanno magari sostituito al capitalista con la spada in pugno il “terribile” Stato (delle multinazionali) e poi direttamente le massonerie finanziarie internazionali e altre asinerie tipiche di cervelli incapaci di qualsiasi ragionamento logico-scientifico. E ancora oggi questi ignoranti vengono presentati (in tutti i media dei dominanti) come seguaci di Marx. Sono solo imbroglioni, che si credono sapienti. Ragliano e fingono di argomentare!

Marx e i liberali

Marx e il liberalismo

Diverso il discorso per i liberali (e liberisti), che tutto sommato meritano rispetto. E con cui si può quindi discutere. Hanno solo enfatizzato il mercato, l’hanno preso come unico luogo in cui misurare i pregi della società capitalistica. Sono partiti da una caratteristica senza dubbio molto evidente di tale formazione sociale: l’eliminazione, ad un certo punto pienamente realizzata, di ogni vincolo servile, di ogni precostituita ed unidirezionata dipendenza da dominanti a dominati. Hanno sostenuto quello che anche Marx aveva constatato: il capitalismo, alla fin fine, ha bisogno della piena libertà di contrattazione nello scambio mercantile. Perché solo dalla libera competizione (la concorrenza) può nascere lo sviluppo che indubbiamente tale forma di società ha conosciuto; e che ha dato condizioni di vita materiali via via più alte alla popolazione tutta, sia pure con grandi differenziazioni di reddito percepito e di ricchezze accumulate.

Adesso non discuto qui del punto di partenza logico di tale concezione che è pur sempre rappresentato dalla situazione di Robinson Crusoe, l’individuo con i suoi bisogni e i mezzi limitati per soddisfarli. Tuttavia, ci si limita all’eguaglianza tra venditori di merci e alle leggi “impersonali” (in realtà derivanti dall’interazione complessa tra i soggetti compratori e venditori di merci) che regolerebbero, e secondo razionalità, il libero scambio appunto nel mercato. C’è una forte caratterizzazione della libertà di ogni individuo con sottovalutazione dei forti legami interindividuali esistenti in base ai rapporti sociali che stabiliscono ruoli e funzioni.

Cito ancora Marx e sempre dalla Prefazione: “Non dipingo affatto in luce rosea le figure del capitalista e del proprietario fondiario [e ovviamente quelle dell’operaio, del contadino e delle diverse “sottosezioni” in cui possono essere divisi i vari raggruppamenti sociali; ndr]. Ma qui si tratta delle persone soltanto in quanto sono la personificazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classi. Il mio punto di vista, che concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale [secondo me è un punto di vista troppo strettamente legato alla scienza naturale, comunque vi si riscontra chiaramente l’intenzione di Marx di fare scienza, non discorsi “buonisti” e misericordiosi sullo “sfruttamento” dei “poveri” dominati, com’è nella concezione di alcuni ottusi marxistoidi degli ultimi decenni; ndr] può meno che mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi”.

I legami sociali per Marx e lo Stati per i liberali

Marx non dice però che questi legami sociali – in cui gli individui sono stretti secondo ruoli e funzioni dai quali sono determinati pur avendo certi “gradi di libertà” in quanto individui diversi gli uni dagli altri (sia biologicamente sia per educazione, primi anni di vita, ecc.) – richiedono l’intervento dello Stato quale garante dell’associazione fra questi individui; per Marx lo Stato è sempre strumento al servizio della classe dominante, nel senso che ne garantisce fondamentalmente la proprietà dei mezzi di produzione.

E’ quindi evidente la torsione, tutt’altro che marxiana, fatta subire alla concezione dello Stato durante la cosiddetta “costruzione del socialismo”; non a caso, prima del totale cedimento “dottrinale” dopo Stalin, si sosteneva che vi era bisogno dello Stato per la difesa verso l’esterno, a causa dell’accerchiamento dell’unico paese, erroneamente considerato socialista, da parte degli Stati ancora borghesi (capitalisti).

In definitiva, per i liberali lo Stato è necessario per assicurare alcune (poche) regole di vita associata, realizzatasi tramite l’incontro dei tanti Robinson: tale organo (in realtà sistema di apparati) deve difendere da perturbazioni sempre possibili la libera competizione tra di essi, deve garantire le proprietà acquisite da alcuni di loro per merito di una superiore abilità produttiva, commerciale, ecc.; e astenersi invece dal tentativo di livellare radicalmente le differenze venutesi così a creare. Qualche livellamento è ammesso (è stato concesso in una data fase storica) per impedire disordini sociali, ma senza che ne venga alterato il libero funzionamento del mercato.

Manca ciò che è il carattere precipuo dell’analisi marxiana: il riconoscimento della “strutturale” necessità dell’associazione tra esseri umani, senza la quale non è possibile alcuna sopravvivenza. Il punto di partenza logico (sia pure in processi che poi hanno sempre un carattere circolare, magari a spirale) è per il liberale l’individuo solo con i suoi bisogni. Ma se così fosse realmente, non si tratterebbe dei bisogni di Robinson, bensì di Tarzan; ed infatti un serio liberale avrebbe dovuto prendere le mosse dall’eroe di Burroughs, non da quello di Defoe.

In Marx si parte invece (logicamente) dall’associazione degli individui umani, astretti da “rapporti storicamente determinati”, che li assegnano appunto a specifici ruoli e funzioni. E di questi rapporti sociali – di cui quelli della sfera economica assumono per Marx una rilevanza del tutto particolare – si indaga l’aspetto considerato principale, quello effettivamente determinante: a chi spetta la proprietà, il controllo, il potere di disporre, ecc. dei mezzi di produzione. Non si studiano tali individui nella loro “carnalità”, nella loro psicologia, nella complessa materialità della loro vita individuale, e via dicendo. Si osserva in quali “caselle” il rapporto, in quanto primordiale stato degli uomini in società, li ha collocati; e da tale collocazione si evince la loro funzione non quali individui, quali “soggetti”, bensì come elementi singoli costitutivi però di un dato raggruppamento sociale, che interagisce con altri formati da altri “portatori” di funzioni differenti.

Il mercato e i liberali

E’ evidente che per un liberale, poiché la formazione del mercato avviene tramite l’incontro dei vari Robinson ognuno dei quali si specializza nella produzione di un dato bene, alla fin fine si sviluppa una benefica competizione tra questi individui che, inseguendo il loro interesse, soddisfano anche i bisogni degli individui ormai entrati in relazione sociale. Come di ce Adam Smith ci si deve aspettare di poter mangiare della buona carne per l’interesse privato del macellaio e non per la sua benevolenza verso i suoi simili (“esseri umani”). La critica a simili tesi, che si basa sulla produzione di merci peggiori a basso costo, sull’abbassamento quindi della qualità delle merci, sulla preferenza capitalistica che durino poco in modo da aumentarne la quantità richiesta e dunque venduta, ecc. sono critiche quanto mai superficiali, che non intaccano assolutamente l’organizzazione di questa società. Si penso ai beni (e servizi) prodotti nel regime di sedicente socialismo, alla loro scadentissima qualità, e ci si renderà conto che Smith aveva da questo punto di vista ragione: la competizione ha effetti positivi comunque promuovendo come minimo un maggiore fluire di merci per il consumo crescente di quote crescenti di popolazione.

(di Gianfranco La Grassa)

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