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“L’ufficiale e la spia”: Polanski racconta il caso Dreyfus

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L’ufficiale e la spia“, il nuovo film del regista Roman Polanski, racconta la storia, celeberrima, del «J’accuse» di Emile Zola: nella Francia di fine Ottocento, l’artigliere ebreo Alfred Dreyfus fu accusato d’aver venduto alla Germania notizie sui progressi tecnologici dell’esercito francese.

Il colonnello Georges Picquart sostituì l’ufficiale, ormai moribondo, che aveva individuato in lui «quella canaglia di D.» indicata nelle prove, e si convinse d’un errore giudiziario; ma sia lo stato maggiore dell’esercito che il governo pretesero di insabbiare la questione.

Su questo episodio storico dirimente è nata la nuova collaborazione fra Roman Polanski e l’amico Robert Harris (scrittore coltissimo, storico non proprio rigoroso). L’ultimo bel film di Polanski, tra l’altro, era stato proprio l’adattamento di un romanzo di Harris: “L’uomo nell’ombra” (2010). Il colossale progetto per “Pompei” era invece crollato sotto il peso di costi eccessivi.

 

Le polemiche di Lucrecia Martel

Presentato a Venezia, il film è stato oggetto di una polemica accesa. Non per l’opera in sé (che anzi ha ricevuto consensi unanimi), ma per il passato di Polanski. Lucrecia Martel, cineasta argentina ritrovatasi chissà perché presidente della giuria, ha aspettato l’apertura della rassegna per lamentarsi che il film non avrebbe dovuto essere presentato (un ritardo probabilmente giustificato dalla volontà di ricevere attenzioni). Il motivo è stato sempre il solito: lo stupro inflitto dal regista franco-polacco ed eterno esule, nel 1977, ai danni dell’allora 13enne Samantha Geimer.

Quel che Polanski ha fatto è innegabilmente orribile. Ma è altrettanto palese che la pretesa della Martel di farsi giustiziera d’una vicenda la cui vittima ha perdonato il colpevole è stato solo un tentativo di cavalcare la cresta dell’onda del “Me Too. Polanski, infatti, è stato comunque inquisito e condannato da chi di dovere.

Insomma, una smania inquisitoria che avrebbe potuto fermarsi di fronte al vissuto di Polanski: un uomo che si trascina dietro una colpa atroce, ma che è anche accompagnato e segnato dall’orribile perdita della prima moglie, Sharon Tate, vittima (con amici, e col bambino che aspettava) dell’eccidio di Cielo Drive. Naturalmente non si giustifica Polanski, però si chiede pietà, laddove la sua terribile colpa è già stata espiata e pagata.

 

Premiato il film di Polanski “L’ufficiale e la spia

Varie sono state le reazioni: Luca Barbareschi, produttore del film, si è visto togliere dalla Martel l’attenzione che a sua volta sperava di attirare in quanto produttore (una volta tanto) d’un film prestigioso, ed ha reagito con furia. Giuria, addetti ai lavori e pubblico hanno acclamato il film. Polanski non ha risposto alla collega: interrogato sul perché, ha detto che a 86 anni è troppo stanco per lottare con i mulini a vento.

Con buona pace della presidente, il resto della giuria ha premiato il film col Leone d’Argento. “L’ufficiale e la spia” è infatti una pellicola molto bella, e segna una svolta nella produzione di Polanski, i cui ultimi tre film (“Carnage“, del 2011; “Venere in pelliccia“, del 2013; “Quello che non so di lei“, del 2017) sono stati mediocri.

 

Le interpretazioni ne “L’ufficiale e la spia

Più che di Polanski, “L’ufficiale e la spia” è il film di Jean Dujardin: nonostante il titolo ne indichi due, c’è un protagonista solo, la spia (il colonnello Marie-Georges Picquart; l’ufficiale, ossia Dreyfus, resta quasi sempre fuori scena), interpretata da un comico abilissimo a trasformarsi in attore drammatico.

Gli è quasi pari l’interpretazione di Gregory Gadebois, che dietro le parvenze bovine del maggiore Henry cela un’interpretazione – per l’appunto – ricca di sfumature. Il resto del cast funziona bene, tanto da potersi permettere due non-attori (l’attonito Louis Garrel nel ruolo di Alfred Dreyfus, l’inamovibile Emmanuelle Seigner in quello della solita fatalona).

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Il J’Accuse di Emile Zola

 

La ricostruzione fedele della vicenda

Uno dei punti decisivi del processo Dreyfus è la prova grafologica: ed il film infatti è calligrafico, calibratissimo (in una sequenza, la macchina da presa è collocata in modo da inquadrare tre attori allineati attraverso una porta socchiusa). Ed inoltre nitido, visivamente monotono (un continuo spostarsi fra salotti lividi in una Parigi perennemente rannuvolata), senza emozioni (tenendo fede al realismo propugnato proprio da Zola).

Una sola scena è grottesca: l’ufficiale che inveisce contro la degenerazione della Francia, mentre la sifilide lo divora. E due sole sono le scene di scavo psicologico: i due brevissimi dialoghi fra Picquart e Dreyfus, che mostrano nel primo l’arroganza e nel secondo l’ingratitudine dell’accusato. Un personaggio piccolo, strumento d’una vicenda enorme, reso celebre non per suoi meriti, ma per l’opportunismo col quale Zola e Clemenceau seppero amplificarne la vicenda per ribaltare il governo in carica.

Una ricostruzione insomma precisa, che non offre spazio né alla caricatura (a parte Bashir, impresentabile custode, e Bertillon, il grafologo interpretato da Amalric) né al sentimentalismo, evitando di indulgere nella santificazione della vittima in quanto tale. Impeccabile, quasi impressionante, la ricostruzione di ambienti e costumi d’epoca: la Francia di fine Ottocento, ancora sgangherata dalle batoste subite dai tedeschi ma piena di sicumera nella propria grandeur, sospesa tra conservatorismo ottuso e progressismo maligno.

(Tommaso de Brabant)

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