Prima gli americani: Trump può fermare la globalizzazione?

Dal discorso di insediamento pronunciato alla Casa Bianca di Donald Trump, il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America, emergono due aspetti in particolare a cui l’uomo sembra prestare parecchia attenzione: la crisi di reddito dei lavoratori delle fabbriche statunitensi e l’importanza di ricostruire un mercato interno.

Si parte con parole che tuonano come i fulmini di una tempesta voluta da un antico Dio greco: “Lo Stato deve tutelare i propri cittadini e garantirli sotto ogni punto di vista”. Nell’epoca del multiculturalismo e delle frontiere quasi inesistenti, suona come una bestemmia.

Per quasi tutta la durata del discorso, il neo-presidente non ha fatto altro che ripetere ossessivamente di voler ricostruire gli USA e la loro economia grazie “prima di tutto ai lavoratori americani, facendo prosperare aziende americane, vendendo prodotti americani”.

Un’ oratoria paradossalmente “rivoluzionaria” che sa di punto di rottura francamente sorprendente, anche per chi, come noi, ha sempre sostenuto l’importanza della candidatura di Trump rispetto a quella di qualsiasi candidato dell’establishment, indipendentemente dalla provenienza democratica o repubblicana.

Il protezionismo, elemento completamente smarrito da tutte le economie occidentali (con i risultati disastrosi che ben conosciamo), riemerge con prepotenza, mai sottaciuto nella campagna elettorale ma sorprendentemente ancora non passato sotto silenzio, come del resto le vicende Carrier e Ford avevano dimostrato già nei mesi scorsi.

Aspettiamo di vedere le opere, ma in un mondo che da vent’anni persegue nell’accrescere gli elementi di un sistema economico fallimentare, sentire parole del genere anche dopo un’elezione e dopo aver mostrato atteggiamenti incoraggianti prima della nomina ufficiale, non può che indurci all’ottimismo.

“Rifare l’america grande” è qualcosa che non ci dovrebbe riguardare. Eppure, visto il ruolo che gli Stati Uniti giocano nella politica occidentale, questa volta diventano non solo di nostro interesse, ma di nostro auspicio.

Perché mai come oggi rifare l’america grande significa rifare lo Stato grande, il confine grande, i lavoratori della propria nazione grandi, le tutele sociali grandi. Significa rimettere i cittadini al centro della vita di una comunità. Le auguriamo di farcela, signor presidente.


(di Stelio Fergola)