Fin dalla tenera età, ci viene insegnato che donare indistintamente a chi è meno fortunato di noi sia cosa buona e giusta; non sentire il bisogno di farlo sarebbe invece segno di insensibilità, cinismo ed indifferenza verso il prossimo. Tuttavia, se la società sembra imporci questa visione morale dei rapporti sociali, la natura umana ci suggerisce una diversa prospettiva.
Gli esseri umani, è vero, sono istintivamente portati ad adottare comportamenti altruistici, perché l’altruismo è una strategia adattiva di successo. La cooperazione ha permesso alla specie umana di sopravvivere ed evolversi. Ma considerato che, nel corso dell’evoluzione umana, i nostri antenati non hanno mai avuto la possibilità materiale di relazionarsi con individui geograficamente distanti, trovandosi sempre nella condizione di cooperare con le persone presenti nelle immediate vicinanze, è chiaro il motivo per cui il nostro sentimento morale è circoscritto alle relazioni “faccia a faccia”.
Si consideri il seguente esperimento mentale proposto dal filosofo e neuroscienziato americano Joshua Greene: ci troviamo di fronte a due casi in cui ci viene chiesto di aiutare persone in difficoltà o in pericolo. Nel primo caso, stiamo guidando lungo una strada di campagna quando, ad un certo punto, udiamo una richiesta di aiuto.
Ci fermiamo e notiamo una persona a terra, le cui gambe sono coperte di sangue. Il malcapitato rischia di perdere una gamba se non lo carichiamo immediatamente in macchina e non lo portiamo in ospedale; tuttavia, se decidiamo di dare un passaggio a quest’uomo, le macchie di sangue rovineranno la tappezzeria dell’autovettura, e noi saremo dunque costretti a spendere soldi per rimediare al danno.
Nel secondo caso, invece, ci arriva a casa una lettera da parte di un’organizzazione umanitaria, in cui ci viene richiesta una modesta donazione per far fronte alle esigenze sanitarie di persone che si trovano dall’altra parte del mondo.
In entrambi i casi, ci troviamo a dover decidere fra due opzioni: investire una piccola somma di denaro per salvare vite umane, o non farlo. Ciononostante, il nostro intuito morale ci suggerisce che rifiutarsi di aiutare la persona bisognosa nel primo caso sia inaccettabile, mentre non sia altrettanto riprovevole ignorare la richiesta di donazione nel secondo caso.
Non siamo mostri insensibili: siamo semplicemente il risultato del nostro percorso evolutivo. «Chi è vicino e simile a noi – afferma Greene – preme i nostri tasti emotivi, laddove coloro che sono lontani dai nostri occhi, sono lontani dai nostri cuori», piaccia o no ai guru della beneficenza spersonalizzata.
Va da sé che, a rigore di logica, biasimare coloro che affermano «Prima gli italiani» significa in realtà svalutare ed alterare la dimensione morale dell’essere umano. «Colpire la pancia degli italiani», espressione che oggi assume quasi una valenza negativa, vuol dire semplicemente suscitare l’istinto morale che ogni persona dovrebbe essere in grado di provare.
Lo psicologo forense Matthew Logan ritiene che le sensazioni di “pancia” siano segnali che non dovremmo mai ignorare: «La prima cosa che direi alla gente è “Fate attenzione a quello che sentite di pancia”. Penso che molte persone ignorino le sensazioni di pancia, l’istinto. Ma voi avete un istinto, e dovreste prestargli attenzione. Gli esseri umani sono forse la sola specie umana che ignora le sensazioni di pancia».
Da dove nasce allora la “filantropia” contemporanea, intesa come necessità di mostrarsi disposti ad aiutare persone con cui non abbiamo mai avuto niente a che fare (ad esempio, i membri di una remota tribù africana) e ad ignorare le richieste di sostegno di chi è a noi prossimo?
Nella filantropia, vi è nascosta in realtà una forma particolare di narcisismo: il cosiddetto “narcisismo comunitario“. Potrebbe sembrare un paradosso, ma i narcisisti possono effettivamente indossare la maschera dei benefattori, e ciò avviene più di quanto si creda. Si tratta di individui che si considerano speciali per la loro capacità di aiutare gli altri. Annunciano con fierezza la loro volontà di donare in beneficenza ingenti somme di denaro e, nel farlo, si compiacciono di se stessi.
Li si vede spesso impegnati a fare volontariato, ma solo ed esclusivamente per pura auto-gratificazione personale, senza che vi sia alcuna motivazione autenticamente altruistica. Nel scegliere quali persone aiutare, tenderanno quindi a dare la priorità a coloro che meglio ricoprono il ruolo di cassa di risonanza delle loro gesta eroiche. Più i disperati sono lontani, più la notizia di quanto siano filantropi questi milionari dall’animo gentile circolerà.
Dovremmo ignorare le vere motivazioni e sostenere questa forma di filantropia purché fornisca un aiuto efficace alle persone meno fortunate di noi, in ogni parte del globo?
No: quando le vere ragioni sono abiette, è difficile che i risultati siano positivi. Il narcisismo comunitario filantropico nuoce alla salute dei popoli, immobilizzandoli. Fare beneficenza è il modo migliore per non sentirsi in dovere di intervenire strutturalmente sulla disuguaglianza economica mondiale, per difendere una posizione di potere che non si vuole, in realtà, mettere in discussione, assicurandosi semplicemente di dare di tanto in tanto qualche briciola agli affamati: non certo per solidarietà, ma per evitare di venire sbranati.
(di Flavia Corso)