Le idee di Valerio Malvezzi contro l'ultraliberismo (parte 2)

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4. La questione delle banche e delle imprese

Perciò, la terza imprescindibile fase di conquista, occulta tanto quanto le altre, del sistema economico da parte dell’universo neoliberista e dei suoi zelanti patrocinatori ed applicatori consiste nell’omologare i sistemi bancari nazionali ad un unico livellante standard.

Lo scopo è che ne nasca un oligopolio, il quale sarà (ed attualmente è) tutto meno che favorevole ai cittadini: in tal modo, verrà ulteriormente indebitato il settore privato e così il sistema bancario verrà polarizzato sul versante della finanza, col fine ultimo di trasferire la ricchezza dai poveri ai ricchi.

Tuttavia, nel pieno corso del XX secolo, i presupposti realizzativi di questo malato sistema furono combattuti attraverso l’abolizione del modello di banca universale. Dopo la prepotente e globale crisi del 1929, il presidente americano Franklin Delano Roosevelt riuscì a rilanciare l’economia del suo Paese attraverso politiche keynesiane di stimolo della domanda aggregata e di investimenti pubblici.

Tramite effetti moltiplicatori, essi stimolarono a loro volta tanto il lavoro quanto il risparmio, abbattendo la galoppante disoccupazione e muovendo i consumi verso una parabola ascendente. Esse contemplavano anche la separazione fra banche commerciali e banche d’investimento, il cosiddetto Glass-Steagal Act del 1933 [in Italia, una misura del tutto simile fu la Legge Bancaria del 1936, N.d.R.]: le prime avevano il compito di finanziare famiglie ed imprese, mentre le seconde effettuavano speculazioni e giocavano in borsa. Cioè: le prime supportavano l’economia reale, mentre le seconde potevano operare nel mondo finanziario, a loro rischio e pericolo.

Una tale misura, secondo Malvezzi, andrebbe attuata – conformemente ai mutamenti economici rispetto agli anni Trenta – anche oggi. L’economia finanziarizzata, infatti, oramai non è più al servizio degli uomini, bensì di quegli artifici contabili che gli uomini stessi hanno inventato e che oggi li condannano alla povertà, in quanto sono stati strumentalmente pervertiti col fine dell’impoverimento glebalizzato collettivo. Una crisi di questa portata non è soltanto finanziaria, ma anche e soprattutto etica.

Nel 1999, Bill Clinton – «ricordato più per una “fellatio” che per la guerra in Kosovo» – ripristinò il modello di banca universale, il che costituì, per gli USA come per i Paesi alleati che ne seguirono l’esempio, un problema enorme per il sistema che sino ad allora era stato in vigore. Furono inventati requisiti, quali la patrimonializzazione, affinché le banche si accorpassero sempre di più, cosicché i colossi hanno principiato a fagocitare i più piccoli ed hanno concentrato i loro investimenti nella finanza, piuttosto che nell’economia reale.

La manifesta volontà di abolire il contante, ad esempio, non è una misura volta a combattere la corruzione, ma parte integrante del progetto di rendere le persone più controllabili, più rintracciabili, meno libere. Il Nostro usufruisce di una metafora adamantina: questa teoria del “too big to fail” equivale a mettere tante bacinelle con buchi le une sopra le altre, affinché l’acqua non cada a terra.

Ma i buchi rimarranno e l’acqua non cesserà di scorrere. Basti pensare alla Deutsche Bank, la quale ha in pancia migliaia di miliardi di titoli tossici (in euro), il cui valore nominale supera tutto il PIL tedesco. Insomma, l’oligopolio non è un bene per la gente comune, e non potrà mai esserlo.

Esso è in pienissimo contrasto, tra le altre cose, con il pensiero cattolico e socialista retrostante alla creazione di molte piccole banche nell’Ottocento, le quali concretizzarono l’obiettivo di salvare i poveri dagli usurai.

4.1. La situazione bancaria italiana

Sviscerare in questa sede la situazione bancaria italiana, come Malvezzi argutamente ha più volte fatto nei suoi interventi pubblici, sarebbe un’operazione complessa e molto lunga, perciò ci si limiterà a riportare l’opinione del Professore, con un esempio che ne chiarifichi i tratti salienti.

Nel tentativo di rispettare i paradigmi del sistema economico dominante – e del cambiamento che sta inculcando tanto nella realtà vissuta dalle persone quanto nelle loro menti -, il mondo bancario italiano, di una varietà straordinaria, sta anch’esso effettuando un’operazione di tendenza oligopolistica. Sta provvedendo ad un accorpamento dei piccoli, secondo requisiti che storicamente non appartengono al Paese, e che non si addicono al tessuto socio-economico sviluppato in tutto il Dopoguerra (il miracolo italiano).

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Tralasciando – ma non troppo – il fatto che tutti i principali gruppi italiani (Intesa San Paolo, Carige, Unicredit, Credem, ecc…) appartengano a banche e fondi di investimento stranieri [Cfr. “Sforza Fogliani, Corrado, ‘Siamo molto popolari. Controstoria di una riforma che arriva da lontano e porta all’oligopolio bancario‘, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2017″ e “Ghisolfi, Giuseppe, ‘Banchieri‘, Aragno Editore, Torino 2018″], è necessario sottolineare che il sistema Italia, nel livello qui preso in esame, aveva conosciuto nei decenni passati un andamento ed incremento perfettamente confacente al suo apparato industriale.

Non costituito – come usualmente si sente dire e si dice – di piccole e medie imprese, bensì di piccole e micro imprese, rappresentanti ben il 99% del totale. Questo è il mercato italiano, e pervertirlo (o pensare di farlo) con una tale pervicace rapidità sarebbe un’illogica assurdità.

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La finanziarizzazione dell’economia, perseguita soprattutto negli ultimi venti o trent’anni (ovverosia, dall’ingresso nel sistema prima dell’ECU e poi dell’euro), non concerne e non concernerà mai il sistema Italia di cui sinora si è detto. Non siamo un Paese borsistico, bensì siamo un Paese che ha fatto delle Casse di Risparmio, delle Banche Popolari e delle Banche di Credito Cooperativo il suo punto di forza.

Infatti, il modello italiano è fortemente radicato nel territorio, localistico: seguire la globalizzazione, senza se e senza ma, significa mistificare un sistema meraviglioso, un patrimonio che ha fatto le fortune del Paese: il quale, non a caso, sta venendo rovinato da un’ideologia aberrante. Non esiste un modello universalmente migliore: esistono tanti modelli, e quello migliore per l’Italia non è certamente quello dei grandi gruppi (pur importanti, e di cui anche l’Italia fu, e per certi versi ancora è, un esempio: Montedison, ENI, Fincantieri, l’IRI, ecc…), come il suo tessuto industriale dimostra senza possibilità di smentita.

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Essendo che sono state citate poc’anzi, vale la pena parlare di una realtà molto cara a Valerio Malvezzi nelle sue tesi, quella delle Banche di Credito Cooperativo. Le BCC sono delle cooperative, come si capisce dal nome: il loro punto di forza è che operano sul territorio, infatti più del 50% del rischio che queste banche possono permettersi deve essere effettuato sul loro territorio di appartenenza. Ovverosia, devono aiutare i soci ed investire nel locale.

Queste nascono nel XIX secolo con una forte etica cristiana alla base, quella della mutualità e della socialità (lo spirito cooperativo, insomma). Fino al 1993 erano per statuto Casse Rurali Artigiane, il loro nome è cambiato successivamente: oggi sono una notevole fetta del sistema bancario italiano, ed erogano credito agli artigiani ed ai piccoli e micro imprenditori (ricordiamolo: il 99% delle imprese italiane).

La recente riforma per dare “stabilità” al sistema, fatta con fretta ed urgenza, si basa su assunti falsi e decontestualizzati (per lo più, parametri di patrimonializzazione): la Legge 49/2016 vuole che esse si trasformino e vengano ad essere partecipi in holding, ma questa è un’operazione oligopolistica che conduce ai grandi agglomerati bancari, dove il capo detta la linea. Cioè: prima ognuna agiva per proprio conto sul territorio, mentre ora dovrà rispondere a logiche che non le appartengono.

La holding capogruppo avrà accesso al mercato dei capitali, cioè le banche divengono di proprietà di grandi fondi speculativi. Le BCC divengono così S.p.A.: ma questa è una follia. In tal modo, le banche spariranno, e se ne avrà un numero ridottissimo, che risponderà alle logiche del mercato finanziario internazionale: quindi, con tempi più lunghi e decisioni più infelici per la popolazione.

Le BCC sono banche locali, diverse dalle altre, assumenti un comportamento anti-ciclico: infatti, esse hanno mantenuto il credito alle imprese, perché si rilanciasse la domanda aggregata (Keynes docet). Sarebbe saggio tenere separati e diversificati gli investimenti: un novello Glass-Steagal Act italiano, insomma. Lo spirito mutualistico, cooperativo e localistico è una tradizione tutta italiana, non solo economica ma anche e soprattutto culturale; invece, la logica delle grandi banche è spietata.

Non bisogna perdere questa ricchezza culturale specificamente e squisitamente nostra, di un Paese che – come già detto – non è borsistico.

Fortunatamente, il nuovo governo Conte, come riporta la testata “Italia Oggi“, “…preannuncia un intervento non contenuto nel programma di governo, cioè la separazione tra banche d’investimento e gli istituti di credito al pubblico, per quanto riguarda sia l’ambito di attività sia i livelli di sorveglianza [che la BCE vorrebbe molto più restrittivi, N.d.R.]. Le BCC si dicono disponibili a dare un apporto costruttivo“.

4.2. Il problema del credito alle imprese

Un tema direttamente legato al sistema bancario italiano appena spiegato è quello delle imprese che ad esso si riferiscono. Le sofferenze del primo (netto calo del numero delle banche, degli sportelli, degli addetti e dei dipendenti: il fine è chiaro, sradicare le banche dal territorio) si legano strettamente alle difficoltà, ora rese sistemiche, del secondo.

Negli ultimi anni, i prestiti al mondo finanziario sono aumentati in modo spaventevole, mentre hanno registrato un calo nettissimo quelli al mondo dei piccoli e dei micro imprenditori, il vero tessuto di aziende della nazione Italia. Escludendo le imprese rischiose, quelle sane e quelle vulnerabili hanno visto, soprattutto a partire dalla “cura [di distruzione] Monti”, una discrasia netta ed evidente, il cosiddetto “credit crunch“.

Le banche hanno tolto soldi alle micro ed alle piccole imprese, anche se perfettamente sane, per favorire le grandi imprese, una percentuale ridotta delle industrie italiane, peraltro la vera causa (a dispetto della menzognera narrazione mainstream) del problema degli NPLs (Non Performing Loans), cioè dei crediti deteriorati (non performanti, per l’appunto) delle banche verso le aziende.

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Il sistema bancario italiano, in palese spregio di se stesso e del mondo cui si è sempre riferito e tuttora si riferisce, per rispettare parametri di patrimonializzazione (leggasi: oligopolio) che non gli appartengono, ha creato un’asimmetria di accesso al credito, in negativo naturalmente.

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Il “credit crunch” non è stato scelto dalle banche italiane, ma è stato un ordine di scuderia, in quanto gli asset sono stati spostati dall’economia reale all’acquisto dei titoli di Stato, poiché altrimenti sarebbe saltato il sistema Italia.

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Un cosa che fa riflettere molto sulla separazione fra la Banca d’Italia ed il Ministero del Tesoro avvenuta nel 1981, sull’insensatezza dello statuto non da Banca Centrale della BCE, sulla perduta sovranità monetaria. Peraltro, queste grandi difficoltà indotte nel sistema bancario italiano trovano un’ulteriore asimmetria (anche nel racconto mediatico) nel fatto che, a livello europeo, non ci sia stata pariteticità di trattamento: l’Italia non ha potuto garantire un aiuto solido al proprio sistema, mentre altri Paesi sì.

L’esempio più lampante – si potrebbe anche osare dire, lapalissiano – è la Germania. Le sue banche, assieme a quelle francesi in special modo, ma anche ad altre del nord del continente, secondo un modello predatorio che nulla ha di cooperativo, hanno speculato nelle aree economiche del sud (vedasi la Grecia), hanno investito molto al fine di ottenere un guadagno gargantuesco.

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Ma la legge della finanza vuole che un maggiore rendimento implichi anche un maggiore rischio: quando vi fu il crack, ecco che l’innesto dei salvataggi di Stato fu subitaneo, ecco che il meccanismo di indebitamento per speculazione ricevette sussidio pubblico.

5. Un mito da sfatare: il debito pubblico

Nel precedente paragrafo si è discusso dello spostamento degli asset bancari dall’economia reale ai titoli di Stato, ossia i buoni emessi mensilmente dal Ministero del Tesoro (oggi, Economia e Finanze). Questa operazione rientra appieno nella questione del debito pubblico, il malvagio demone con il quale viene compiuto verso i cittadini un terrorismo mediatico di impatto devastante.

Come dimenticare i contatori nelle Stazioni Centrali di Roma e Milano, piazzati dall’ultra-liberista Centro Buono Leoni, che conteggiavano le migliaia di miliardi di euro “pendenti sulla testa dei nostri figli“?

I signori ed i portavoce del pensiero unico dominante, prostituiti mentalmente, parlano della necessità di ripagare il debito pubblico, scientemente e colpevolmente ignorando che esso non è stato creato per essere ripagato. Tuttavia, nella storia culturale cristiana, di cui gli europei sono figli, “debito” viene visto come qualcosa di negativo, come un peccato da farsi perdonare, da estirpare: il gioco della colpevolizzazione del popolo risulta in tal modo facile.

Questa assurdità, questa fallacia, questa farneticazione ideologica e contabile viene individuata come tale da Worren Mosler, padre della Modern Money Theory, che la fa rientrare all’interno di quelle che lui chiama “Le sette innocenti frodi capitali della politica economica” (che è poi il titolo di uno dei suoi libri). Innocenti, fino a prova contraria:

“1. Il governo deve aumentare i fondi attraverso tasse o prestiti per poter spendere. In altre parole, la spesa governativa è limitata dalla capacità del governo di tassare o contrarre prestiti.

2. Con i deficit del governo stiamo lasciando l’onere del debito ai nostri figli.

3. I deficit di bilancio del governo portano via risparmi.

4. La Previdenza Sociale è finita.

5. Il deficit della bilancia commerciale è uno squilibrio insostenibile che porta via lavoro e produzione.

6. Abbiamo bisogno di risparmi per procurare fondi per gli investimenti.

7. È un male che deficit più alti oggi comportino tasse più alte domani”.

Tutte e sette frodi capitali. Di tutto ciò, si avrà eco nei prossimi paragrafi. Infatti, essendo che Valerio Malvezzi apprezza la verità – assieme ad altri economisti italiani di cui i lettori probabilmente conosceranno i nomi, quali Alberto Micalizzi, Ilaria Bifarini, Guido Grossi, Alberto Bagnai, Antonino Galloni e così via -, sul tema ha le idee chiare.

5.1. Il mantra neoliberista e come sconfiggerlo

I neoliberisti dicono che la spesa pubblica sia un’ipoteca sul futuro dei figli ed emblema di una vita che non ci si può più permettere: niente di meno che una falsa dottrina ideologia, divulgata con maestria goebbelsiana. Il Nostro chiama questo mantra “colonialismo mentale”, esercitato da spietati elitisti della peggior specie, disprezzatori del popolo e della democrazia, dei veri diritti e del comunitarismo.

Infatti, i neoliberisti spiegano lo Stato come se fosse un’azienda, una famiglia, una S.p.A.: fare deficit equivarrebbe ad ipotecare il futuro. Tuttavia – ricordando anche la confutazione fattane dal Premio Nobel per l’Economia (2006) Paul Krugman nel suo saggio “Un Paese non è un’azienda” -, già Keynes, padre della macroeconomia, si sorprendeva di come fosse possibile considerare un’ipoteca sul futuro la costruzione delle città delle meraviglie ed il dare lavoro (mezzo di emancipazione e di dignità) ai cittadini.

Non si capacitava di come gli uomini dell’Ottocento avessero potuto costruire catapecchie invece che adoperare appieno gli strumenti a loro disposizione, perché quest’ultima operazione “non rendeva”: la parodia dell’incubo di un contabile per obnubilati. Un cretinismo contabile, per citare Gramsci.

Infatti – è necessario specificarlo – l’ammontare del debito pubblico di una nazione equivale alla somma dei deficit annuali che questo stesso Stato produce. Ed è proprio nei dettagli, sottolinea Malvezzi, che si nasconde il Diavolo. Di un bilancio, bisogna guardare entrambi i lati, cioè sia l’attivo sia il passivo: guardare un solo lato, come i neoliberisti fanno, è da strabici, da colpevoli, o da entrambe le cose.

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Per un fattore moltiplicativo, se uno Stato fa deficit, i cittadini aumentano il proprio reddito (come straordinariamente spiegato anche da Paolo Barnard in una sua conferenza a Migliarino nel 2012). Se si taglia la spesa pubblica, invece, non vi può essere crescita: uno Stato deve avere il consumo, la spesa per investimenti privati, la spesa per investimenti pubblici e le esportazioni al netto delle importazioni.

Pensare di basarsi unicamente sulla bilancia commerciale in surplus (una strategia mercantilista), ovverosia sugli ultimi due punti, è folle. Lo Stato non esiste per perseguire il pareggio di bilancio, od assicurare i mercati esteri, bensì per dare ai propri cittadini una vita degna di essere vissuta, nel pieno democratico rispetto della sovranità appartenente al popolo.

Il bilancio pubblico ed il bilancio privato vanno per linee che sono antitetiche, le loro curve sono esattamente speculari. L’aumento del deficit pubblico è aumento della ricchezza privata (si può evocare, in questo contesto, l’equazione dei bilanci settoriali). Non esiste alcuna scientificità sulla percentuale esatta di sostenibilità del debito pubblico, in quanto una Banca Centrale – che crea, dal nulla, moneta senza valore intrinseco e slegata da riserve materiali, e che può operare con bilancio passivo per statuto – può garantire tutto ciò che serve ad uno Stato, essendo (se pubblica) una sua direttissima emanazione.

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Non esiste un livello di sicurezza del debito pubblico, perciò, se esso può essere garantito dallo Stato stesso, sovrano, e da chi agisce per esso. Nessun Paese al mondo ha mai rimborsato il debito pubblico, in quanto non è fatto per essere rimborsato: serve per sostenere lo sviluppo di un Paese ed il settore pubblico che garantisce diritti ai cittadini: ovverosia, le infrastrutture, la sanità, l’istruzione, i trasporti e così via con altri fondamentali servizi.
Stando a quanto appena detto, Malvezzi argomenta la totale inconsistenza scientifica dei parametri del Trattato di Maastricht (1992), preparatorio all’ingresso dei Paesi coinvolti nell’unione monetaria (l’euro è oggi, con il Franco CFA, il più spietato alfiere del neoliberismo).

Il rapporto di 60% fra debito pubblico e PIL, come il rapporto del 3% fra deficit e PIL (inventato in meno di un’ora da un giovane consigliere di Mitterrand perché “il 3 ricordava la Trinità“, qualcosa di positivo), non hanno valenza né storica né pragmatica.

Non a caso, nella crisi del 2008 (parte del cambiamento deliberato e pianificato del sistema economico) furono coinvolti anche Paesi come Spagna, Portogallo ed Irlanda, che pure rientravano perfettamente in questi parametri. Occorre allora forse sottolineare un’ammissione del maggio 2015 fatta da niente di meno che Vitor Constancio, vicepresidente della BCE di Mario Draghi: il problema non fu di debito pubblico, bensì di debito privato, stimolato e drogato dalla finanziarizzazione dell’economia.

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Difatti, quando aumenta il rapporto fra debito privato e PIL, aumenta anche la forbice fra i ricchi ed i poveri: i poveri aumentano partendo dalla fascia media cui appartenevano (e che sta scomparendo), mentre i ricchi diventano ricchissimi, creando di fatto una nuova piramide della ricchezza.

L’andamento delle cose negli Stati Uniti ed in Europa è di questo tipo: i miliardari sono triplicati, ed i poveri hanno conosciuto un impensabile, preoccupante e vertiginoso aumento.

5.2. Il divorzio del 1981 e le sue conseguenze

L’Italia, specificamente, come si colloca in questo contesto? Prima di procedere con la spiegazione, è necessario un piccolo riepilogo argomentativo. Il deficit di bilancio si contrappone ai suoi lesivi contraltari, cioè il pareggio di bilancio e l’avanzo primario: nel primo, lo Stato spende per i suoi cittadini più di quanto li tassi; nel secondo, entrate ed uscite coincidono; nel terzo, lo Stato tassa più di quanto spende.

Non occorre avere enormi conoscenze della macroeconomia per comprendere che uno Stato che chieda ai suoi cittadini più di quanto dia loro, agisca non nel loro interesse ed eroda i loro risparmi. Ebbene, l’Italia, quasi ininterrottamente, sta facendo avanzo primario da circa 28 anni (tranne che nel 2009), e tutto per pagare gli interessi sul debito per una moneta che non può controllare né emettere, cioè l’euro: non sorprende che il Bel Paese sia passato dall’essere il più ricco del mondo nel 1980 (25% la percentuale del risparmio sul reddito) alla terribile condizione attuale (2%).

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Ma cosa accadde in quel periodo di così grave da far nascere un problema di tanto ampia portata? Nel 1981, attraverso uno scambio di lettere fra Ministro e Governatore, vi fu il divorzio fra il Ministero del Tesoro e la Banca d’Italia. Da allora, quest’ultima non sarebbe stata più obbligata a finanziare la spesa pubblica con l’acquisto dei titoli di debito emessi dal Tesoro, che è dovuto così ricorrere al mercato privatistico, con tutte le sue speculazioni.

Da allora, il problema del debito è esploso, in quanto lo Stato italiano è stato costretto a pagare salassanti interessi a banchieri privati. Come già detto, nella teoria scientifica, non esisterebbe un livello di debito pubblico sostenibile al di là del quale sia una condanna andare: esso lo è a prescindere, se lo Stato è sovrano, poiché il debito stesso non è fatto per essere ripagato ed è meramente un punteggio contabile che indica l’accumularsi di differenza fra quanto uno Stato spende per i suoi cittadini e quanto incamera dalle tasse che lo rendono sovrano (per l’appunto).

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Lo Stato è riscuotitore del mezzo di scambio di beni e servizi, da lui stesso deciso, poiché nulla va al di là di lui. Fino all’agganciamento all’ECU, nonostante il peggioramento della situazione data dalla sopravvenuta progressiva perdita di sinergia fra Bankitalia e Tesoro, l’Italia ancora navigava in buone acque: con la speculazione sulla lira del 1992 ad opera di George Soros e del suo hedge fund, e con Maastricht ed il sistema di cambi fissi, la situazione è mutata del tutto, in peggio.

Inoltre, per ritornare all’argomento cardine di questa sezione, la Banca Centrale, un’istituzione di diritto pubblico, oggi in Italia ha come azionisti diverse banche italiane, a loro volta detenute da banche e fondi di investimento stranieri: rimane un’istituzione di diritto pubblico che nel pubblico opera, studia e controlla, ma vale la pena rimarcare che, in certo qual modo, potrebbe sussistere un conflitto di interessi in questa situazione di fatto, per quanto monitorata e controllata.

L’idea, pure spacciata come buona per decenni, era (ed è) quella di rendere la Banca Centrale indipendente dalla politica: «ma la politica siamo noi – esorta Malvezzi – mentre gli indipendenti da noi non li possiamo mandare a casa». Lo scioglimento del legame con la politica non è una cosa buona, sia bastevole guardare i trattati che regolano la BCE: essa non risponde a governi e parlamenti nazionali, ed anzi non ha l’obbligo di supportare le necessità di spesa di questi ultimi.

L’economista alessandrino è qui chiarissimo: la sostituzione, attraverso parole edulcorate e mendaci, di una banca pubblica che risponde al mondo politico con un’assemblea di operatori privati non controllabili dai cittadini è il più grande inganno della storia.

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(di Lorenzo Franzoni)

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