Il 6 luglio nasceva Eva Gaëlle Green. Non diciamo l’anno, con una signora (no, la Nostra non è coniugata) non si fa.
Figlia di Marlene Jobert, attrice francese nata in Algeria e convertitasi alla scrittura di libri per bambini, e di Walter Green, dentista d’origine svedese proveniente da una famiglia d’artisti, nasce a Parigi con la gemella Joy. Di discendenza ebraica, afferma di non essere praticante, ma di vivere comunque una “spiritualità molto complessa”.
Pur dicendosi “patologicamente timida”, da adolescente decide di intraprendere la carriera attoriale dopo aver visto Adele H., classico di Truffaut con Isabelle Adjani nei panni della figlia di Victor Hugo, impazzita per amore. Bionda, si tinge i capelli e, con la chioma corvina con la quale è tuttora identificata, comincia a recitare a teatro, prediligendo i ruoli negativi. Sfiora un premio Molière, e comincia col cinema.
L’esordio di Eva Green: The Dreamers
Il debutto di Eva Green è un disastro: The Dreamers, penultimo film di Bernardo Bertolucci. Raro esempio di film del cineasta parmense che costui non abbia sceneggiato, e che non abbia ricevuto i consueti, aprioristici plausi unanimi. Diventato un “cult” tra la Generazione Y, The Dreamers è il film più autoreferenziale mai realizzato: tronfio tributo alla militanza sessantottina del regista e alla cinefilia dello sceneggiatore Gilbert Aldair (autore del racconto da cui il film è tratto – come già per il mediocre “Amore e morte a Long Island”), “The Dreamers” sfoggia una vacua rassegna di citazioni dalla Nouvelle Vague (non manca di comparire il solito Jean-Pierre Léaud) mentre racconta il triangolo erotico di tre studenti imbecilli: lo statunitense Matthew (il patatoso e attonito Michael Pitt) e i fratelli incestuosi Isabelle (Eva Green) e Théo (Louis Garrel, spaventapasseri che trascorre la vita a fare lo sguardo cupo da artista maledetto).
Rinchiusi in un appartamento che senza indugio rendono lercio, passano le giornate a drogarsi, masturbarsi, accoppiarsi, esibire la loro profondità (livello pozzanghera) e la loro erudizione (minima). Ci si schianta dal ridere, quando l’americanino resta sconvolto perché i due gemelli gli dicono che la rivoluzione non si fa soltanto “facendolo strano”, per dirla con Verdone. Premiato con il Ciak d’Oro (quanta gloria!), “The Dreamers” è uno dei film preferiti dagli studenti del DAMS (quelli col santino di Tarantino e Lynch), sbavanti perché Isabelle strilla “New York Herald Tribune” come Jean Seberg in Fino all’ultimo respiro (i cinefili si sa, si accontentano di poco), oltre che degli studenti universitari peggiori, quelli che leggono solo quanto previsto dalla bibliografia d’esame e passano il resto della giornata ad attribuirsi patenti di cultura su Facebook; rimasti colpiti un po’ per la bruttissima scena della foto nelle mutande, un po’ per lo slogan “Libri non armi, cultura non violenza” (ma davvero?), ripetuto come fosse una rivelazione; e per certuni in effetti deve volerci un aiuto per arrivarci.
Di The Dreamers, film efficacissimo nel riassumere tutto quel che il ’68 è stato (volgarità e vacuità, autocompiacimento ed esibizionismo, cattiveria e bruttezza), restano la banalità parossistica dei dialoghi, il gioco d’ombre con cui Isabelle-Eva impersona la Venere di Milo, e un terzetto di protagonisti tanto stupidi quanto privi di fascino e carismo. Il bambolotto Pitt (biondo come l’assai più talentuoso Brad) diventerà un caratterista del cinema indipendente; il cupo e inamovibile Garrel (figlio del regista Philippe) si autoproclamerà nuovo profeta della Nouvelle Vague, salvo rendersi conto che questa è estinta (e si sta bene lo stesso); Eva Green comincia la sua carriera da attrice cinematografica, favorita dal fatto d’essersi già lasciata alle spalle il suo film peggiore.
Il percorso di Eva comincia
Archiviato l’innocuo Arsenio Lupin (Jean-Paul Salomé 2004) assieme a Kristin Scott Thomas e Romain Duris, in tre anni la Green, ancora poco più che debuttante, affronta tre grandi produzioni, dalle fortune alterne.
Suo terzo film è il mastodontico Le Crociate (Kingdom of Heaven, Ridley Scott 2005): un cast enorme (Jeremy Irons, Liam Neeson, Brendan Gleeson, David Thewlis, Iain Glen) e un protagonista inadeguato (Orlando Bloom) sono posti al servizio della narrazione (disinvoltamente inaccurata) della Terza Crociata. La Green, che sul set si fidanzerà col neozelandese Marton Csokas (interprete di Guido di Lusignano), interpreta Sibilla di Gerusalemme, sorella di Baldovino IV (il “re lebbroso”, interpretato da Edward Norton mascherato), che si confronta con Saladino (il bravo Ghassan Massoud). Film d’enorme fascino visivo, grazie alla splendida e difficile direzione della fotografia di John Mathieson, ai costumi e a scene di gruppo legittimamente paragonate a quelle di Akira Kurosawa, Le Crociate paga la macchinosità degli intrighi e la pessima scelta di far guidare un cast di alto livello dal suo solo componente mediocre. Consegna comunque alla Green il suo personaggio più affascinante (nel film come nella storiografia).
Arriva poi Casino Royale (Martin Campbell, 2006): terminata la cinquina di 007 con protagonista Pierce Brosnan (periodo infausto, nonostante la bravura dell’interprete, per la creatura di Ian Fleming: all’ottimo Goldeneye erano infatti seguiti quattro episodi bruttissimi), comincia l’era Daniel Craig. Un esordio particolarmente felice: perché Craig è attore di primo livello, e gli si contrappone un cattivo eccellente (il Le Chiffre del danese Mads Mikkelsen); per la suspense delle scene d’azione come di quelle al tavolo verde, e perché la Vesper Lynd della Green è una delle Bond-girl più affascinanti e complesse dell’universo creato da Ian Fleming.
Se l’ottimo Mikkelsen supera con facilità il confronto con i due precedenti interpreti del suo personaggio (ispirato a Fleming da Aleister Crowley): niente meno che Peter Lorre e Orson Welles, la Green e Craig non gli sono da meno, e danno vita a una coppia affiatata, vivace e struggente. Polemiche femministe, perché Vesper scambia un orologio Omega per un Rolex: l’accusa di raffigurarla come l’ennesima Bond-girl ingenua non tiene conto del fatto che (svista orologiaia a parte) l’ispiratrice del Martini “shakerato, non mescolato” tiene banco per il resto del film.
La Green e Craig si ritrovano presto: in La Bussola d’Oro (The Golden Compass, Chris Weitz 2007) lui è il padre della protagonista, lei è la strega Serafina Pekkala. Tratto dal primo episodio d’una trilogia di romanzi fantasy (“Queste oscure materie” di Philip Pullman), pur avendo incassato il doppio del budget (comunque meno di quel che la New Line prevedeva), non ebbe seguiti (colpa della crisi finanziaria del 2008). Uno spreco, perché il film non manca d’un fascino che molti dei fantasy stereotipati sull’esempio di “Il Signore degli Anelli” non avranno.
La fase di mezzo di Eva Green
Ormai star internazionale, la Green resta parca nell’accettare ruoli, e continua a girare un solo film l’anno. Fra il 2008 e il 2012 partecipa così all’horror giovanilistico e cupissimo “Franklyn”, al brutto dramma collegiale “Cracks”, al terribile horror edipico “Womb”, alla banale distopia di “Perfect Sense”, alla tediosa riduzione, da parte d’un Tim Burton afflitto da una crisi d’idee sempre più profonda, del telefilm vampiresco “Dark Shadows”, in cui un’inedita Eva Green platinata è la perfida Angelique Bouchard (resta misterioso come si possa parteggiare, nel duello fra lei e il Barnabas del bollito Johnny Depp, per costui).
Comincia a recitare per la televisione: nel 2011 è la Morgana più affascinante di sempre (la Helen Mirren di “Excalibur” è una grande attrice in un ottimo film, ma il ruolo è malriuscito) nel telefilm “Camelot”.
Nel 2014 sono ben quattro i titoli che vedono la sua partecipazione: il pretenzioso ma inconsistente White Bird (Gregg Araki 2004), e due sequel orrendi di film già pessimi, 300 e Sin City (entrambi tratti da fumetti); si salva solo The Salvation (Kristian Levring 2014), western anglo-danese-spagnolo con protagonista Mads Mikkelsen (il già citato cattivo di 007 – Casino Royale), nei panni del pistolero che la bella e muta Madelaine aiuta nella lotta contro il malvagio Delarue, che l’ha resa vedova e la sfrutta come contabile e sfogo sessuale. Come già per Casino Royale, è sulla bravura e il carisma della Green e di Mikkelsen, cui stavolta si aggiunge un bravo “villain” (Jeffrey Dean Morgan), che si fonda la riuscita del film.
Il 2014 è anche l’anno della prima fra le tre stagioni di Penny Dreadful, forse il punto migliore – assieme a Casino Royale – nella carriera della Green. Il titolo si riferisce ai romanzetti horror per pendolari (gli “spaventi da un penny”), venduti in appositi distributori a gettoni alle stazioni londinesi del primo Novecento, che radunavano alla rinfusa luoghi comuni e personaggi della letteratura gotica (con risultati come “Dracula contro Frankestein”… ma anche “Maciste contro l’Uomo Lupo”). Il tutto in chiave molto seria e, strano a dirsi per una serie tv, risultati rimarchevoli.
Eva Green interpreta Vanessa Ives, vendutasi al Diavolo per poi pentirsene; assieme a un pistolero yankee, Ethan Chandler (Josh Hartnett), e al nobiluomo e avventuriero Malcolm Murray (Timothy Dalton), della cui figlia Mina ha causato la dannazione, combatte contro tutte le forze infernali che lei stessa attira nella Londra di fine ‘800. I loro travagli si intrecciano con le vicende (per lo più tediose) dei Frankenstein (il dottor Victor giustamente non si perdona di aver dato vita a un personaggio tedioso come la Creatura, un passivo-aggressivo che infligge agli altri personaggi e agli spettatori i suoi monologhi sulla poesia, sulle sue sventure e sulle belle ragazze che non se lo filano) e di Dorian Gray; e se il primo episodio della prima stagione è soltanto un brutto massacro di vampiri (con una spiegazione dei tarocchi fuorviante e dozzinale), il livello delle restanti puntate e per lo più alto, sfiorando spesso la pietra miliare (tutte e tre, lunghi flashback – la quinta puntata della prima stagione, Closer than Sisters: la rievocazione della dannazione di Vanessa e del male da lei fatto a Mina; la terza puntata della seconda, “The Nightcomers”, racconto della tragica amicizia tra Vanessa e la strega che la iniziò al “Verbis Diablo”; la decima e ultima della seconda stagione, “And They Were Enemies”, lungo e bellissimo scontro tra Vanessa e Satana stesso, che le parla tramite una marionetta con le di lei fattezze – scena di grande fascino e intelligenza). “Penny Dreadful” offre a Eva Green il personaggio col quale tuttora è più identificata; Vanessa è poi tutto ciò che lei stessa chiede sempre di interpretare – un personaggio complesso e intelligente, con tante sfaccettature ma più lati tenebrosi che luminosi, e una spiritualità profonda che prevale sull’irrinunciabile dimensione fisica (il suo momento attoriale migliore è comunque “Séance”, quando un demone possiede – in tutti i sensi – Vanessa in tutti i sensi). Dopo Craig, la Green si trova a fianco di un altro 007: il sottovalutato Timothy Dalton (Zona pericolo, 1987 e Vendetta privata, 1989, entrambi diretti da John Glen).
Il 2016 vede (oltre alla conclusione di Penny Dreadful) l’ultimo film decente di Tim Burton: Miss Peregrine – La casa dei bambini speciali, nel quale la Green è tutrice d’una residenza per bambini che, come lei, mutano forma (come indica il titolo, si trasforma in falco pellegrino). La Green si diverte (più degli spettatori) a esibire un ciuffo super-impomatato e sparare con la balestra, con la pipa perennemente in bocca, manco fosse Pertini. Il perdurare della collaborazione con Burton, che nel frattempo ha divorziato da Helena Bonham-Carter, fa parlare di una relazione sentimentale; lui non commenta, la Green dice di essere single fin dall’amichevole rottura con Csokas.
Nel 2017 interpreta Euphoria, storia di sorellanza problematica assieme ad Alicia Vikander; la madre delle due protagoniste è interpretata da Charlotte Rampling – una cui celebre foto di Helmut Newton (un nudo scattato durante le riprese di “Zardoz”) fu replicata dalla Green all’epoca di “Le Crociate”. Nello stesso anno, è co-protagonista assieme a Emmanuelle Seigner, moglie del regista, d’uno dei film peggiori di Roman Polanski: “Quello che non so di lei”, thriller psicologico poco avvincente e dal finale banale. Pur senza impegnarsi troppo, la Green ha vita facile nel confronto-scontro con l’attonita Seigner.
Vittima delle molestie di Harvey Weinstein, la Green ha lanciato la sua accusa nei confronti del produttore raccontando quanto successo, ma non ha partecipato agli strepiti del movimento “Me Too”; tanto meno al linciaggio subito, ancor più recentemente, dal grandissimo regista franco-polacco – esprimendo anzi solidarietà a lui e alla moglie, in occasione dell’ignobile gazzarra scatenata contro Polanski agli scorsi premi Cesar da Adele Haenel (vigliaccamente aizzata dalla regista Céline Sciamma), invidiosa per i premi ricevuti da L’ufficiale e la spia.
Nel 2019 esce Dumbo, ennesimo film senza spunti di Tim Burton: assieme al tenero elefantino dagli occhioni sgranati, Colette Marchant – la graziosa trapezista interpretata dalla Green – è il solo elemento positivo d’un film che non arriva alla sufficienza, e che assieme a tanti altri titoli del medesimo periodo dimostra la crisi profonda della Disney. Nello stesso anno gira “Proxima”, della regista francese Alice Winocour, con Matt Dillon nel cast e musiche di Ryuichi Sakamoto: la Green (candidata al Cesar per la migliore attrice) interpreta una donna divisa fra le missioni da astronauta e la piccola figlia Stella. In molti paesi – Italia compresa – l’uscita del film è stata purtroppo rinviata per l’emergenza del Covid-19.
Il personaggio Eva Green
Eva Green è una figura oscura. Nelle interviste si fa schermo della timidezza; comunica poco tramite social-network, per lo più partecipando ad appelli ecologisti su Instagram o citando le sue letture preferite. Tutt’altro che aliena dalle mode politiche e culturali cui si conformano volentieri le sue colleghe (i rancori da “Me Too” di Kate Beckinsale, i proclami LGBT di Jessica Chastain, l’anti-trumpismo isterico alla Anne Hathaway, il culto per Michelle Obama di Brie Larson, le adunate grottesche scatenate da Gal Gadot), non ne condivide l’attivismo esibizionista e senza sostanza, i toni urlati e rancorosi, le macchinazioni, le semplificazioni ottuse e aprioristiche, le banalità.
Oltre a essere una delle donne più belle mai viste al cinema, è un esempio di diva dotata di talento, garbo, carattere, intelligenza.
(di Tommaso de Brabant)