Non è passato molto tempo da quando ho scritto qualcosa, ma le sue conseguenze sono state, per me, dolorose.
Quando ci si espone spesso succede così, e quella sensazione di aver provocato dolore al prossimo diventa più violento di quello che hai dato, seppur in modi diversi e soprattutto con le ferite che chissà se guariranno davvero.
Ma invece di parlare degli affari miei, dei miei limiti personali e caratteriali, vorrei iniziare a parlare di un libro, una fotografia sotto forma di saggio.
Si tratta de La società senza dolore – Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, edito da Einaudi e scritto dal filosofo coreano-tedesco Byung-Chul Han, insegnante di filosofia dei media alla Universitaet der Kuest di Berlino da quasi trent’anni.
Il titolo pare inizialmente utopistico: può sembrare il classico saggetto accademico di nicchia sul transumanesimo che spiega in maniera banale e ovvia come funziona il neoliberismo, e come le grandi multinazionali del digitale stiano diventando più inquietanti e macchiettistiche di Thanos – con le quali, però, siamo costretti a rapportarci per poter condividere le nostre informazioni con la nostra bolla di conoscenti e amici che la pensano come noi, bloccando dai social chi ci pare e piace semplicemente perché non la pensa come noi; oppure perché la riteniamo una persona tossica e nociva per il nostro stato di benessere psicofisico del momento.
E infatti il sottotitolo spiega questo: il bannare persone dopo una conversazione stupida sui social, perché non ci va di discutere o di capire di avere un punto di vista diverso, non è poi così tanto diverso dal dover bandire il dolore nelle nostre vite, da bravi – citando Nietzsche e Fukuyama – ultimi uomini.
Ma che cosa sta comportando questa nobile aspirazione, cioè il bandire il dolore? Lo scopriamo fin da subito, con una prosa diretta e spontanea, senza bizantinismi o perifrasi: oltre alla mancanza di confronto verso l’altro, quindi alla chiusura del nostro ego nel suo narcisismo, divenuto a sua volta stanco (e qui il collegamento va dritto dritto in un’ altre sue due opere: La società della stanchezza, Nottetempo, 2012 e La società della trasparenza, Nottetempo, 2014), arriviamo al bisogno incessante di approvazione, di like acritici contati attraverso gli algoritmi e i Big Data, e all’esigenza di rapportarci con la società come se fosse l’individuo a doversi adattare a quest’ultima, la quale non è in grado di fermarsi un attimo e riflettere.
A prova di ciò, il libro dimostra come la mia generazione, quella dei millennials, non abbia mai avuto il solo minimo pensiero di ribellarsi al sistema costituito, alle ingiustizie sociali, o semplicemente iniziato a essere più critici rispetto ai danni che le politiche delle generazioni precedenti hanno creato, provando anche solo a migliorarle o semplicemente a discuterle.
Questo perché si è sviluppato, secondo quanto scrive Han ne La società senza dolore, un sostrato culturale che vuole abolire il dolore, invitando molti giovani a prendere dei palliativi, come gli psicofarmaci o addirittura andando nei seminari in cui i motivatori professionisti ci inducono a credere di poter diventare qualunque persona vogliamo diventare, utilizzando un sistema di autoconvincimento che solo apparentemente ci svela chi siamo, ma che in realtà si dimostra adatto solamente a dimostrarci chi vogliamo sembrare di essere, bandendo le nostre sofferenze e i nostri disagi che ci rendono sì tristi, ma anche e soprattutto unici.
Questo sostrato, che impedisce all’individuo di esprimere il proprio disagio e le proprie sofferenze cercando solo di apparire quello che vogliamo che il pubblico voglia che noi appariamo, ci porta perciò a capire come, dalla psicanalisi positiva – che quindi invita a bloccare e a rifiutare il nostro io più oscuro e violento, anche sedandolo con dei palliativi, invece di affrontarlo e a comprenderne la crisi che ci porta ad accettare noi stessi e quindi il nostro rapporto col mondo – siamo arrivati alla democrazia palliativa, in cui i governi e partiti attuali, pur in stati di emergenza pandemica, preferiscano promulgare riforme e leggi che ricerchino più consenso possibile al momento, ricercando anche e soprattutto il consenso immediato nei sondaggi, senza dover tenere conto dell’esigenza più evidente di riforme strutturali nell’ambito amministrativo, costituzionale, fiscale, giudiziario etc.
Tutto ormai è stato, secondo Han, palliativizzato: il disagio, il dolore e la sofferenza sono stati medicalizzati. Ormai la preoccupazione è diventata un’emozione per cui vergognarsi, da evitare; non più un sentimento che può portare al confronto, alla curiosità, a rendersi conto dell’esistenza del noi.
L’artista, l’autore contemporaneo non scandalizza più. O meglio, lo fa ma assecondando il cliché che la società della performance esige, incrementando quell’inferno dell’Uguale che il mondo dell’intrattenimento industriale propone ogni singolo momento della nostra esistenza.
Tutto è massimizzato, tutto è controllato, tutto è targhettizzato: non esiste più l’imprevedibilità, la nascita di nuove idee, la crisi artistica, la crisi emotiva, la crisi personale. Se ci accorgiamo che qualcosa non va, dobbiamo essere curati, clinicizzati. Il dolore psicofisico non deve esistere. Perché porta a ricordarci dei nostri limiti, a combattere per affrontarli, a comprometterci con noi stessi.
Il dolore definisce la nostra persona, il rapporto con il nostro corpo singolo e con quello degli altri. Oggi, invece, è diventato un tabù: narcisisti, ci siamo narcotizzati guardando solo a noi stessi, evitiamo il confronto col prossimo, prendiamo l’OKI se abbiamo un dolorino, il sonnifero se non riusciamo a dormire, lo psicofarmaco se non stiamo bene con noi stessi, e così via. Così non ci pensiamo, così annulliamo, banniamo e bandiamo noi stessi e il nostro inconscio verso la naturale rivolta verso il mondo. Sopravviviamo, non viviamo.
Per questo e molto altri stimoli che può dare, credo che La società senza dolore di Byung-Chul Han, debba essere letto e compreso: perché descrive, fotografa la deriva sociale, psicoclinica, politica ed economica che il mondo occidentale globalizzato e neoliberista sta vivendo, guardandosi l’ombelico e dimenticando l’orizzonte che lo ispira ma allo stesso tempo lo inquieta, costringendolo ad affrontarlo ogni giorno.
(di Giacomo Pellegrini)