Il Texas fa ricorso alla Corte Suprema. La notizia di ieri ha avuto il sapore della bomba, sebbene i media mainstream statunitensi abbiano messo in secondo piano la questione e quelli italiani per gran parte apertamente ignorato la storia.
Per meglio dire, nella nostra ridente penisola le fonti di informazione hanno quasi faticato a pubblicarla e, in alcuni casi, hanno cercato di “riallinearsi” citando questioni sostanzialmente differenti ma titolate in modo appositamente ambiguo.
Texas e Corte Suprema: Rainews e Adnkronos la prime a dare la notizia in Italia
Adnkronos così cita a riguardo:
Il procuratore generale del Texas, Ken Paxton, ha annunciato di aver intentato causa contro quattro Stati – Georgia, Michigan, Pennsylvania e Wisconsin – presso la Corte Suprema degli Stati Uniti in relazione ai presunti brogli commessi durante le elezioni.
Quali siano questi “esperti” non si sa. Perché asseriscano ciò, non si sa. Ma quando si tratta di argomentare su ciò che parte da Donald Trump, si sa, è meglio rifugiarsi nel generico. Un vero giornalismo d’inchiesta.
Tutto il resto della stampa italiana invece preferisce giocarsela in modo ancora più comodo: non parlandone. Meglio così.
Corte Suprema: la strategia del TeamTrump e di #WeThePeople
L’obiettivo era esattamente questo. Far fallire i ricorsi nei singoli Stati per giungere alla Corte Suprema, che non può essere chiamata in causa direttamente ma a seguito di un procedimento precedente su base locale.
Trattasi di un’eventualità – quella ipotizzata da Giuliani – che il celebre politologo Graham Allison aveva illustrato poche settimane fa sulla prestigiosa rivista the National Interest. Potrebbe accadere ciò che è già successo in occasione delle elezioni presidenziali del 1876 che vedevano contrapposti Tilden e Hayes. Come allora, ogni stato dovrà riunire la propria assemblea per certificare il risultato delle elezioni e la lista dei grandi elettori al Congresso. Questo dovrebbe accadere indicativamente verso il 6 gennaio. Tuttavia, sottolinea Allison, “i legislatori statali hanno l’autorità costituzionale per concludere che il voto popolare è stato corrotto” da “possibili brogli” e “quindi inviare una lista di elettori in competizione per conto del loro stato. Ciò significa che in caso di controversie su liste elettorali concorrenti, il Presidente del Senato, il Vicepresidente Pence, sembrerebbe avere l’autorità ultima per decidere quali accettare e quali rifiutare. E Pence sceglierebbe Trump”.
Posto che, ormai, sia impossibile negare le troppe prove esibite dai due team (il voto dei deceduti, la loro distribuzione tutta per Joe Biden, la chiusura dei seggi agli osservatori, le testimonianze video, gli affidavit), posto che sia impossibile non porsi almeno qualche domanda anche sulle prove puramente indiziarie (come gli sbalzi matematicamente mai visti prima, e tutti alle sei del mattino ora italiana, sempre a favore di Joe Biden), posto che sia quanto meno bizzarro decidere che le accuse a Dominion siano quanto meno da indagare e non da irridere come se non venissero al culmine di ragionamenti e altri fatti che si sono dimostrati fondati, la questione è sempre la stessa: basterà?
Perché è solo quello il punto. Non l’esistenza di uno dei maggiori scandali della storia elettorale americana e occidentale. Ma del fatto che si riuscirà a fare giustizia a riguardo. Ieri c’è stato un passo importante, e i prossimi giorni saranno decisivi per capirlo.