Moneta nazionale e fiscale: la ricetta di Gennaro Zezza

Moneta nazionale e fiscale: la ricetta di Gennaro Zezza

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Alla puntata del 10 aprile 2019 di “Testa o Croce“, l’innovativo format di discussione sull’euro e sull’Unione Europea lanciato da Money.it, è intervenuto Gennaro Zezza, docente di Economia Politica all’Università di Cassino. Egli fa parte, assieme a Stefano Sylos Labini, Marco Cattaneo, Giovanni Zibordi e tanti altri, di una nutrita schiera di studiosi che, per il rilancio dell’economia in Italia, propone l’adozione di una moneta fiscale. Una delle tante tematiche affrontate nell’intervista sostenuta con Fabio Frabetti.

Lei si è posto la domanda del perché la moneta unica europea sia stata introdotta? Quali sono state le scaturigini di questo progetto?

La domanda è un po’ complessa, in quanto richiede una storia lunga, con relativa analisi. Negli anni Settanta, il dollaro si sganciò dal valore dell’oro, portando al tramonto il sistema di cambi fissi venuto in essere a Bretton Woods nel 1944, ed al contempo dando alla luce un sistema di cambi flessibili.

Molto presto, i Paesi europei hanno dato forma alla loro intenzione di mantenere i cambi più o meno fissi fra le loro rispettive valute, per facilitare il commercio integrato a livello continentale. Alla fine della decade dei Settanta, questi ultimi si sono fatti più stringenti, ma in contemporanea con una metamorfosi politica piuttosto evidente, concretatasi soprattutto con le linee intraprese dal governo britannico di Margaret Thatcher e da quello americano di Ronald Reagan.

Il passaggio che hanno marcato, ha obnubilato l’ispirazione economica più o meno socialista che sino ad allora i Paesi europei avevano fatto propria – attraverso misure di tipo keynesiano -, conducendola invece verso una sfumatura marcatamente neoliberista. L’impostazione fiscale di tipo progressivo è stata smantellata, nel frattempo che i mercati venivano sempre più deregolamentati.

Assieme a queste politiche economiche di un certo genere, si impose un sempre più esteso fenomeno di globalizzazione, ovverosia di estensione internazionale delle imprese (specialmente di quelle finanziarie). Questi processi hanno principiato un itinerario, ove si è affermato il principio secondo il quale i mercati siano in grado di autogestirsi ed autoregolarsi, e che per ciò stesso gli interventi dei governi (cioè, statali) siano un danno per queste capacità, e lesivi della libertà dei mercati stessi.

Addirittura, si ritenne che il welfare state, maturato in Europa a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, fosse eccessivo e non più sostenibile [secondo Warren Mosler, padre della MMT, una delle sette innocenti frodi capitali della politica economica, N.d.R.]; che si dovessero tagliare la spesa pubblica ed una serie di servizi sociali da essa sostenuti, lasciando fare al “mercato”. Tutto questo ha comportato quella che io ritengo una delle peggiori storture dell’oltranzismo odierno del capitalismo, ossia la concentrazione dei redditi e della ricchezza.

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In Europa si è ritenuto che un cambio fisso tra le diverse valute nazionali fosse desiderabile. Ora, perché tutto ciò fosse auspicabile, è invero difficile da capire: la spiegazione ufficiale è che conoscendo il tasso di cambio, ad esempio, tra la lira ed il marco tedesco, potesse essere più accessibile per l’Italia commerciare con la Germania senza fluttuazioni impreviste (ed annessi rischi).

Tuttavia, le statistiche continentali, prese nel periodo cronologico considerato, dimostrano che non vi fu un importante – come invece auspicato in principio – aumento del commercio interno, in termini quantitativi. I vantaggi maggiori si sono estrinsecati per i mercati finanziari, perché questo ha comportato la creazione di un unico mercato finanziario (per l’appunto), che ha facilitato l’acquisto e la vendita di azioni (e non solo), anche per fini speculativi. Tutte cose che nel precedente regime a cambi fissi (Bretton Woods) erano specificamente vietate, o per lo meno molto limitate.

Questo assetto ha, senza ombra di dubbio, favorito i mercati finanziari. In questo senso, ha colto la vittoria la logica neoliberista, che prevede l’esautorazione dei governi dalla gestione dell’attività economica, e per ciò stesso l’indipendenza della Banca Centrale. Tutto ciò può funzionare nel momento in cui sia vero che i mercati siano autonomamente in grado sia di produrre benessere collettivo, sia di gestire e far rientrare eventuali crisi.


Quindi è il neoliberismo ad aver creato queste distorsioni economiche, che tra gli altri hanno danneggiato anche il nostro Paese, oppure anche la moneta unica ha la sua responsabilità?

La moneta, di per sé, è il risultato di queste decisioni. Quando si decise lo statuto della Banca Centrale Europea con un certo focus, si optò per un’organizzazione continentale nella quale non fosse possibile il salvataggio degli Stati da parte della Banca Centrale. Dunque, non è la moneta in quanto moneta la causa della crisi sistemica oggi imperante, bensì le regole che ne gestiscono il funzionamento, peraltro implementate di volta in volta.


Qualche tempo fa, lei dichiarò che l’euro sarebbe crollato. È ancora di questo avviso?

Sì, perché le norme con le quali si è impostato il funzionamento dell’euro-zona prevedono crisi ed alimentano crisi [come candidamente ammesso da Mario Monti, per il quale non casualmente la Grecia rappresenta il più grande successo dell’euro, N.d.R.]. Questo era noto da molto tempo.

Infatti, verso la fine della Seconda Guerra Mondiale, nell’importante conferenza di Bretton Woods (del 1944, già precedentemente citata) John Maynard Keynes, padre della macroeconomia, presentò un piano per una moneta internazionale: non unica, bensì comune. Tuttavia, passò il piano statunitense, ovverosia quello di avere una moneta internazionale legata al valore dell’oro, il dollaro americano, con le altre valute legate a quest’ultima (il cosiddetto “gold exchange standard”).

Ora, perché l’economista britannico propose invece una moneta del tutto nuova, di tipo internazionale? Perché gli era chiaro che, in presenza di una moneta unica, ed in presenza di squilibri commerciali dove alcuni Paesi esportano più di quanto importino ed altri importano più di quanto esportino, indebitandosi, sarebbero stati questi ultimi a dover sanare la situazione.

Ora, come si risana la situazione? Pensiamo alla Grecia. Se io compro troppo dall’estero, senza essere capace di vendere abbastanza, allora devo stringere la cinghia, ma così facendo causo al mio popolo disoccupazione cavalcante, e con essa la riduzione dei prezzi e dei salari: una cosa che sana la situazione, ma strozza ed uccide il Paese reale. In più, se il Paese è grande – come l’Italia -, questo malessere si trasmette anche ai partner commerciali.

Tutto ciò, sta scritto nelle regole dell’euro: se arriva una crisi, i meccanismi di aggiustamento portano ad aggravare la crisi, piuttosto che a sanarla e ad uscirne. Siccome i deficit dell’euro sono strutturali, tra non molto prevedo che potrebbe arrivare una nuova crisi, che farà ricominciare la (dannosa) giostra. E se gli interventi straordinari, applicati dai governi e dalla Banca Centrale, non si ripeteranno, allora la crisi sarà persino più seria.

Io personalmente, rispetto a chi critica senza appello l’euro, ho sempre avuto una posizione più ottimista, perché ho sempre sostenuto la possibilità di uscire da questa situazione senza causare una crisi finanziaria di alto livello. Questa prospettiva implica un superamento soft dell’euro, con la reintroduzione progressiva di monete nazionali e la trasformazione dell’euro da moneta unica a moneta comune, proprio sulla base dei suggerimenti che Keynes propose a Bretton Woods.

È la famosa moneta fiscale.

Sì, è corretto. In Italia, questa cosa ha preso la via della moneta fiscale, ma anche altrove si dovrebbe intraprendere questa strada. Che cos’è la moneta fiscale? Di fatto, è una valuta emessa direttamente dal governo, in quanto esso è l’unica entità in grado di prelevare le tasse dai cittadini . Come il governo, difatti, può battere la moneta – creandola ex nihilo -, così allo stesso modo può distruggerla – prelevandola con il gettito fiscale. Non esistono altre istituzioni che, così facilmente, possano creare e distruggere una moneta accettata ed adoperata da tutti.

Quindi, la moneta fiscale potrebbe essere il giusto grimaldello per scardinare le regole monetarie europee, il giusto meccanismo per reintrodurre le monete nazionali senza abbandonare l’euro: il che vuol dire non avviare dei contenziosi con i creditori che vogliono esser saldati in euro su debiti già emessi.

Nel concreto, come questa moneta fiscale sarebbe introdotta all’interno del circuito economico nazionale, da parte del governo?

Diverse sono le proposte in merito all’introduzione di una moneta fiscale. La più famosa e nota oggi è quella dei Certificati di Credito Fiscale (CCF), i quali sarebbero delle promesse, da parte del governo, di accettare questo contratto come pagamento delle imposte dopo un certo periodo di tempo.

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In questa prima proposta, per fare un esempio concreto, si prevede che il governo emetta un milione di euro in CCF, che prevedano un rimborso fiscale fra – poniamo – tre anni di un milione di euro. Chi li riceve, non può spenderli immediatamente in quanto tali, però può venderli a chi è interessato ad avere uno sconto fiscale in futuro.

Nel momento in cui si crea questa liquidità aggiuntiva, è possibile di fatto generare e finanziare un’espansione della domanda ed un aumento della produzione ; tale meccanismo, inoltre, farebbe aumentare i redditi, e con essi il gettito fiscale, ripagando i CCF stessi con un adeguato effetto moltiplicativo. Io sono concorde nell’utilità di questi certificati, ma scettico sul fatto che si ripaghino da soli, poiché se la spesa pubblica si ripagasse da sola, non avremmo bisogno di emettere in continuazione nuovi strumenti finanziari.
La seconda proposta è quella dei minibot, di Claudio Borghi Aquilini.

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Questi prevedrebbero emissioni di titoli di debito dello Stato di piccolo taglio – dell’ordine di 10, 20, 50, 100 euro -, invece che i soliti BTP con scadenza decennale e quant’altro. Quindi, questi titoli di piccolo taglio avrebbero la forma di banconote, per essere utilizzati come fossero banconote vere e proprie: una sorta di passaggio intermedio verso la reintroduzione di una reale moneta nazionale.

Tuttavia, mentre i CCF sono proposti come una spesa aggiuntiva, questi minibot sono la sostituzione di un debito già esistente, e per ciò stesso non implicano necessariamente un aumento della spesa, che sarebbe contraria ai famosi e famigerati diktat di Maastricht sui limiti al deficit (3%) ed al debito (60%) pubblici [i quali non hanno alcun valore scientifico, N.d.R.].


Perciò, quello della moneta fiscale sarebbe un passaggio soft, intermedio e temporaneo, prima del ritorno senza mezzi termini alla moneta nazionale, oppure sarebbe contemplabile come una soluzione definitiva?

Prima di rispondere a questa interessante domanda, vorrei concludere il discorso prima intrapreso enucleando la terza proposta di moneta fiscale, che riguarda personalmente il sottoscritto ed altri colleghi. Essa si rifà in certo qual modo ad alcuni aspetti dei CCF, poiché implica l’emissione da parte del governo di una nuova valuta, soprattutto in formato elettronico – proposta, per di più, simile ad una che fu portata all’attenzione da Yanis Varoufakis per la Grecia -, ma non per un futuro riequilibrio fiscale, bensì per produrre un immediato aumento della capacità di spesa [esiste anche una proposta di nuove lire per l’Italia, lanciata da Warren Mosler, N.d.R.].

Grandi vantaggi, con questa moneta fiscale, si avrebbero soprattutto se si riuscisse a costruire un circuito con metodo di pagamento alternativo, rispetto a quello già esistente. Per tornare alla domanda testé postami, la moneta fiscale rappresenta uno strumento morbido: infatti, un’improvvisa dissoluzione dell’euro, non voluta da accordi collegiali, comporterebbe numerosi problemi, se non altro dei grandi contenziosi sul pagamento dei debiti. Infatti, noi abbiamo un elevato debito pubblico, buona parte del quale è in mano a banche estere.

Ora, finché il nostro debito pubblico è in mano alle nostre banche, ai nostri fondi pensione, od alle nostre famiglie ed imprese, non è un problema: anzi, è un modo sicuro con il quale tenere i nostri risparmi. Invece, se questo debito è nelle mani di un ente estero, allora il pagamento all’estero viene ad essere un obbligo di respiro internazionale.

Se noi uscissimo dall’euro, per la “lex monetae” sarebbe consentito al nostro governo ridenominare tutti i debiti contratti nella nuova valuta nazionale. In questo scenario, per gli italiani che cosa succederebbe? Assolutamente nulla, in quanto essi riceverebbero gli stipendi in – poniamo – nuove lire, farebbero pagamenti in nuove lire, tutti i risparmi che hanno messo da parte verrebbero tramutati in somme di nuove lire. Finché la nuova lira avrà un cambio stabile rispetto al’euro – immaginiamo 1:1 -, non ci sarebbe alcun impatto di alcun tipo.

Il problema sarebbe nell’attuale assetto del regime finanziario internazionale, dove la quotazione delle valute dipende in gran parte dalla speculazione. In tal struttura, il cambio fra la nuova lira e l’euro sarebbe deciso dai grandi fondi di investimento, ovverosia da chi può muovere parecchi soldi da un mercato all’altro, influenzando così la domanda e l’offerta sulla nuova valuta.

Su questo fronte, bisogna prestare molta attenzione, in quanto sono già stati messi in piedi dei meccanismi per cui sarebbe più difficile per un governo italiano ridenominare il proprio debito detenuto all’estero nella nuova valuta senza traumi: esistono infatti delle clausole di salvaguardia dei creditori, delle clausole sugli acquisti di titoli di debito da parte delle Banche Centrali nazionali su permesso della BCE, e quant’altro.

La mia posizione è che certamente la speculazione guadagna in occasioni come queste: difatti, chi prevede e gestisce svalutazioni e rivalutazioni, ci guadagna. Tuttavia, i fondamentali del tasso di cambio dipendono dalla capacità del Paese di vendere all’estero i propri beni, rispetto a quelli che deve acquistare ed importare.
Ora, nell’ultimo periodo l’Italia ha fatto molto bene da questo punto di vista: la bilancia commerciale è in attivo, in quanto esportiamo all’estero più in quanto importiamo. In una situazione di tal fatta, una nuova valuta nazionale dovrebbe apprezzarsi, e non deprezzarsi, rispetto alle altre.


Pur non essendo nei suoi piani e nel contratto che lega le due forze politiche coinvolte, potrebbe già questo governo introdurre una moneta fiscale, senza incappare nei problemi di cui sopra?

Se questa valuta fiscale sono i minibot, non vedo perché no: per quanto, mi ripeto, mi sembrino meno efficaci degli altri due tipi di valuta fiscale che invece abbiamo prima analizzato insieme.


È rimasto deluso rispetto dai grandi proclami iniziali di Lega e Cinque Stelle, che avevano aperto un ampio dibattito sulla manovra economico-finanziaria, salvo poi tornare in patria – impressione di molti – con le orecchie basse?

In realtà, non sono stato deluso, ma perché non avevo grandi aspettative, deluso da come era stata impostata la manovra. Immaginavo non si sarebbe guerreggiato alacremente con Bruxelles, e così è stato.


Sarebbe possibile, secondo lei, un’Europa – stante le condizioni attuali di azzeramento delle sovranità nazionali e di trattati capestro – senza austerità, che sicuramente ha limitato le possibilità di molti italiani in questi anni?

Non saprei darle una precisa risposta a riguardo. Io condivido molto la posizione del movimento di Varoufakis (Diem25), che vuole continuare ad avere delle istituzioni europee, conscio però dell’inefficienza e dell’assurdità di regole che quelle odierne dimostrano e portano avanti.

Per come leggo io la loro posizione, finché non riusciremo a modificarle [un’operazione, invero, altamente improbabile, in quanto soltanto l’unanimità del Consiglio Europeo potrebbe apportare modifiche ai trattati, N.d.R.], quello che dovremo fare a livello nazionale e locale sarà un’attiva disobbedienza in tutte quelle situazioni in cui i diritti dei cittadini vengano calpestati e sublimati in nome del rispetto dei trattati.

Se si adottasse una linea di questo tipo – riconoscimento della necessità di riforma, dell’illogicità delle norme, dei disastri e dei disagi causati, con infine sospensione di queste regole al fine di una loro concorde modifica -, le novelle istituzioni potrebbero apportare un reale miglioramento continentale. Purtroppo, queste posizioni sono assai minoritarie, perciò irrilevanti.


C’è una corrente di pensiero che definisce il debito impagabile, inestinguibile. Lei che cosa ne pensa?

Allora, sul debito pubblico c’è una grande confusione. Come detto prima, se non c’è debito estero, il debito pubblico è la controparte del risparmio privato, ovverosia degli italiani. Il paradosso, molto in voga presso i media mainstream, è che lo si consideri come un fardello insostenibile. Ora, nell’attuale assetto, esso funziona e si attua in tal modo: il governo emette un titolo per chiedere in prestito 100 euro; un privato li prende dai suoi risparmi e lo compra; alla scadenza del titolo, è stata creata ricchezza nel settore privato.

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Il contraltare del debito è sempre il credito: finché sono interni al Paese, essi si controbilanciano perfettamente. Ecco perché azzerare il debito significherebbe andare ad intaccare quel credito che, in Italia, è per la maggior parte interno , nonostante il deciso aumento di titoli di debito detenuti all’estero.

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Lei prevede una crisi, e non è l’unico a dire ciò (pensiamo a Nino Galloni). Quanto la vede lontana o vicina, per l’euro-zona, e come ritiene che si potrebbe eventualmente fronteggiare?

Io credo che i problemi fondamentali degli ultimi 25-30 anni siano stati la deregolamentazione selvaggia del mondo finanziario e la concentrazione dei redditi e della ricchezza. Su entrambi i fronti, non è si è agito in nulla per limitarne o combatterne la deriva.

Non a caso, c’è una nuova bolla speculativa sui mercati immobiliari americani, che infatti stanno scendendo: come sostenuto, in una recente conferenza, dal Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, «la crisi, se non sarà domani mattina, sarà dopodomani mattina». Essa, legata probabilmente al mondo dei derivati e del cosiddetto “shadow banking”, nell’attuale (non modificato) assetto internazionale, potrebbe arrivare da un momento all’altro: più facilmente addirittura quest’anno, che non l’anno prossimo.

[L’organizzazione dell’articolo in domande e risposte è una rielaborazione dell’autore, basata sull’intervista a Gennaro Zezza presso Money.it, “Moneta fiscale per uscire dall’Euro”, nell’omonima puntata di Testa o Croce condotta da Fabio Frabetti.]

(di Lorenzo Franzoni)
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